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I RISCHI E LA SFIDA di Pasquale D’Avolio
I PARTE: DAL FTONOS ALLO ZELOS Nella maggior parte dei commenti critici alla riforma Moratti (escludendo quelli dichiaratamente e pregiudizialmente contrari) il termine che ricorre più frequentemente è quello di “rischi”. Parlare di rischi significa in qualche modo non dare per scontato che si verificheranno certi eventi o che una certa misura riformatrice produrrà inevitabilmente certi effetti negativi. In sostanza la situazione può ancora definirsi “aperta” a due o più soluzioni. Prefigurare invece scenari come quelli che vengono spesso indicati da una parte dello schieramento che si oppone alla Riforma Moratti (fine della scuola pubblica, ritorno all’indietro) e considerarli come ineluttabili significa che non resta altra alternativa alla battaglia a tutto campo per affossare in questo momento ogni ipotesi di riforma in attesa che cambi la guida politica e magari ritorni al potere lo schieramento di centrosinistra. A meno di improbabili accelerazioni del logoramento dell’attuale maggioranza di Governo, questo significa precludersi da qui al 2006 qualsiasi intervento per modificare nel profondo gli esiti dell’attuale processo, che a chi scrive, e non solo, non appare certo né predeterminato né del tutto contrastante con quello avviato dal precedente Governo, anche se le finalità e gli scopi possono e in effetti divergono in più punti. Come cercherò di dimostrare più avanti, la Riforma Moratti o la Controriforma come piace chiamarla ad alcuni, ha molti punti di contatto con la precedente Riforma del centrosinistra; direi che alcuni “rischi” erano ben presenti nel vecchio progetto e molti ricorderanno le riserve che aveva suscitato la politica scolastica berlingueriana nello stesso schieramento di centrosinistra: rischi di uno scadimento della qualità dell’istruzione, abbandono frettoloso di una tradizione nazionale che tutto sommato aveva dei punti validi (penso al Liceo Classico e alla accusa di aver “corrotto” la cultura italiana), una infatuazione per il modello “prestazionistico” di derivazione anglosassone e infine un eccesso di aziendalismo. Cero, si trattava di accuse a volte infondate, ma non si può non convenire che i rischi suddetti non fossero ben presenti. Oggi parliamo di altri rischi. Il fatto è che in tutte le attività che riguardano l’uomo, dalla politica alla scienza alla educazione, il rischio è tutto sommato qualcosa di ineliminabile e gli sviluppi di una riforma non siano mai del tutto predeterminati. Le più belle intenzioni o i progetti meglio costruiti, ma anche quelli che a qualcuno appaiono come “pericolosi”, sono sempre soggetti all’alea del rischio: un po’ ciò è il risultato della indeterminatezza (felice indeterminatezza, direi, dell’azione umana), un po’ è l’effetto di quella che viene chiamata l’eterogenesi dei fini o come oggi si usa dire della cosiddetta “serendipità”, termine che sta a indicare i risultati positivi inattesi di una ricerca che si proponeva magari altri scopi. La mia speranza è che in questo caso la Riforma Moratti, al cui interno indubbiamente si ritrovano i rischi di più indirizzo politico-ideologici a volte contrastanti fra loro (mercato e spiritualità, cultura nazionale e federalismo spinto) produca per “serendipità” risultati ….. positivamente inattesi. A parte la battuta, vorrei analizzare in questo scritto, oltre ai rischi, anche le opportunità che una lettura non pregiudizialmente contraria della riforma morattiana può produrre; si tratta, come scrive il Bertagna in un suo intervento su “Scuola e didattica” di qualche mese fa, di utilizzare lo Zélos (la critica costruttiva) al posto del Ftonos, che è l’equivalente della critica puramente distruttiva (etimologicamente la “invidia” dell’avversario)
RIFORMA, CONTRORIFORMA O … NON RIFORMA? Poiché nel caso della scuola a rischio c’è un bene fondamentale che è la formazione delle giovani generazioni e l’avvenire stesso del paese, la prima preoccupazione di un riformatore dovrebbe essere la prudenza. Questo giustifica in parte la dilatazione dei tempi della precedente riforma “mai nata”; una prudenza addirittura eccessiva visti i risultati: la legge 30/2000 in fondo è stata approvata tre anni dopo la presentazione del Documento preparatorio del gennaio 1997, a un anno dalla fine della Legislatura e dopo un dibattito ampio e approfondito che per circa tre anni ha impegnato forze politiche e culturali, opinione pubblica e operatori scolastici in una consultazione di massa che mai avevamo visto prima. D’altra parte il Ministro Berlinguer, come si sa, spiazzò tutti accantonando l’idea di una riforma limitata alle Superiori, che era attesa da decenni e di cui si era parlato fino a pochi mesi prima (ricordiamo i lavori della cosiddetta Commissione Brocca, inopinatamente trascurati), e avviò la famosa Riforma dei cicli, con l’intento di passare alla storia come il nuovo Gentile. Molti ricorderanno le consultazioni sul Documento dei 40 saggi, come quella sull’autonomia. Centinaia di documenti, migliaia di pagine confluite al Ministero, di cui qualcuno aveva tentato di fare l’inventario, cercando di dipanare e assemblare le questioni più ricorrenti. (1) Commissioni di esperti che avevano lavorato sui “saperi essenziali”, sui “nuclei fondanti” e sui curricoli con gruppi sperimentali che agivano sul campo e tanto altro ancora. Eppure si era detto da parte di qualche prevenuto che la riforma del centrosinistra era passata sulla testa degli operatori scolastici! Cosa si dovrebbe dire allora di questa “riforma” elaborata nel chiuso di una conventicola di cui nessuno è riuscito a capire i criteri di scelta e le qualifiche dei partecipanti? Nonostante queste premesse, a me pare di poter dire che la discussione debba svolgersi prevalentemente nel merito più che nel metodo. Sul metodo c’è ben poco da aggiungere a quanto si è detto in questi mesi e anche nella discussione parlamentare non c’è chi non veda una strozzatura del dibattito politico al limite o forse oltre la stessa costituzionalità. Tanto è vero che pende sulla legge la spada di Damocle del giudizio della Corte costituzionale chiamata in causa dalle OOSS Il fatto è che tra Riforma e controriforma il vero rischio è che alla fine prevalga la NON RIFORMA. E’ quanto paventa in fondo Maragliano e il cosiddetto “gruppo del buon senso”, trasversale agli schieramenti e inviso alla fine ad entrambi (circolano strane accuse di “tradimenti” che pensavamo appartenessero a un passato ormai lontano!). (2) E’ importante, a mio parere, ricercare i punti di consenso senza trascurare quelli di dissenso, al fine di evitare un compromesso purchessia, ma anche per evitare che il “pendolo delle maggioranze” altra espressione efficace usata da Maragliano, distrugga all’infinito ogni sforzo rinnovatore. Lo dico soprattutto per la Riforma delle superiori, anche se la polemica ultimamente si è concentrata sulle Scuole elementari, il segmento che forse meno aveva bisogno di “rivoluzioni”, visto che l’ultima Riforma risale a poco più di dieci anni fa. Anche la Moratti ha voluto ripetere l’errore di Berlinguer, quello di attuare la grande riforma per passare alla storia; se avesse concentrato la sua attenzione sulle superiori, dopo aver magri cassato il “ciclo unico di base”, come era stato preventivamente annunciato, il dibattito sarebbe stato più circoscritto e forse si sarebbero evitate tante lacerazioni come quelle a cui si sta assistendo. Ancora una volta sono venute allo scoperto tutte le resistenze al cambiamento, quelle che rendono estremamente difficile far passare una Riforma scolastica, soprattutto tra i docenti e su cui si è soffermato a lungo Bottani nel suo interessante saggio “Insegnanti al timone”, al quale rimando. Bottani afferma che la riforma è impossibile eppure ….. ineluttabile (3) Dal suo canto Maragliano dubita che una riforma debba necessariamente avere il consenso dei docenti.(4) E tuttavia il consenso bisogna ricercarlo, distinguendo bene tra gli avversari di ogni riforma e coloro che vorrebbero una Riforma “a misura dei ragazzi” e successivamente “ a misura del paese” senza rinunciare a una Riforma “a misura dei docenti”, una riforma che faccia percorrere alla Scuola italiana quel cammino che più volte si è interrotto in questi trent’anni. D’altra parte come ha messo bene in luce sempre Bottani ogni riforma della Scuola ha bisogno di tempi lunghi, che a volte non coincidono con le “stagioni” politico-sociali; Bottani parla addirittura di dodici anni e molti concordano con lui. E allora cominciamo a vedere perché una Riforma è ineluttabile
CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ’ TRA LE DUE “RIFORME”
Parlare del “merito” significa a mio parere riconoscere che, pur trattandosi di una controriforma, come dice qualcuno, essa non poteva non tener conto delle ragioni di fondo della precedente Riforma. Un po’ come era già avvenuto con la più celebre Controriforma tridentina, nel senso che quest’ultima aveva dovuto riconoscere le ragioni profonde della protesta luterana e ancor prima delle osservazioni di Erasmo e di quanto era stato elaborato dal Rinascimento. Questo richiamo storico mi serve per affermare che la riforma morattiana non poteva rinnegare fino in fondo quella berlingueriana, anzi, come ebbe a dire lo stesso Belinguer all’indomani della presentazione del progetto della Moratti al Consiglio dei Ministri nel gennaio 2002, ricalcava le linee fondamentali del suo progetto, salvo alcuni arretramenti, che vedremo meglio dopo. (Già il CdM la rinviò a un esame successivo da cui uscì rimaneggiata) D’altra parte le Dichiarazioni programmatiche del Ministro Moratti nel Luglio 2001, subito dopo l’insediamento a Viale Trastevere, erano prevalentemente all’insegna della continuità. I presupposti culturali in effetti rimanevano e rimangono quelli che avevano caratterizzato il dibattito sull’istruzione nell’ultimo decennio del secolo: il Libro Bianco della commissione europea del 95 “Verso la società conoscitiva”, il rapporto UNESCO o rapporto Délors del 1997 “Nell’educazione un tesoro”, il richiamo essenziale alla multimedialità e ai nuovi linguaggi a seguito della rivoluzione tecnologica, la dimensione europea della Scuola e quindi l’enfasi sull’apprendimento delle lingue, per finire con il tema della complessità (di cui sia avvertono gli echi nel famoso “ologramma” di Bertagna). Forse un po’ meno enfasi era stata posta su un elemento fondamentale della nuova istruzione come usciva dai Documenti, specie del 95, e cioè l’esigenza di un pensiero critico che è alla base della formazione dell’uomo europeo. Sono tutti elementi di continuità che avevano indotto il Ferratini in un bel saggio sul Mulino del 2002 a parlare della Riforma Moratti-Berlinguer. “C’è una analisi del modello di sviluppo molto simile, in base al quale le prospettive di crescita sono legate al valore aggiunto di un capitale umano dotato di competenze sofisticate e soprattutto duttile nell’apprendere” (4) . A dire il vero nella riforma Moratti c’è un “supplemento d’anima” che mancava in quella di Brerlinguer: mi riferisco all’insistenza sulla “persona”, oltre che alle esigenze sociali collegate alla Scuola, con tutte le conseguenze e i rischi che come vedremo ciò comporta. E non c’è solo la piattaforma di base a unire le due riforme, ma molti altri aspetti più specifici legati a un nuovo modello di scuola, che discende dal concetto di autonomia. Il dibattito politico che si è sviluppato successivamente ha portato ad accentuare più gli elementi di discontinuità e di rottura con la Riforma precedente che non quelli di continuità; ma onestà intellettuale vuole che entrambi gli elementi vengano portati alla luce, affinchè il giudizio complessivo sfugga alla facile alternativa tra rinnegamento e quindi rifiuto di ogni confronto e accettazione acritica della nuova proposta come semplice sviluppo della precedente. E allora bisogna riconoscere che se da un lato la nuova proposta del centro-destra non è la negazione di quella precedente, nel contempo occorre essere coscienti che nello schieramento politico che sostiene il Ministro Moratti ci sono forze che puntano chiaramente a “capovolgere” i dati di fondo della precedente riforma auspicando un vero e proprio ritorno all’indietro; come occorre tuttavia riconoscere che da parte di una certa sinistra si è ricorsi a discorsi di pura e semplice condanna senza appello, arrivando ad accusare l’attuale Ministro di voler smantellare tout court la scuola pubblica e di voler tornare a Gentile o addirittura all’Ottocento.
SCUOLA DI MASSA E/O DI QUALITA’?
Io credo che questo sia un tema su cui, a parte sparute minoranza, tutti i riformatori si riconoscano, nel senso che tutti rifiutino l’idea di una restrizione dei livelli di istruzione e di formazione nella società della conoscenza. Si tratta di decidere le modalità attraverso cui si raggiunge l’obiettivo. Prendiamo ad esempio il tema della selezione e della lotta alla dispersione scolastica, che ha caratterizzato l’azione dei precedenti Governi (di centrosinistra e dell’Ulivo almeno a partire dagli anni 70) Certo, nello schieramento conservatore, ci sono sempre state e ci sono ancora di più oggi, tendenze a riportare la Scuola indietro agli anni 50; che una certa reazione al lassismo imperante nella scuola possa tradursi in un ritorno alla selezione più bieca, quella per intenderci una volta si chiamava “selezione di classe”, non può non essere tenuto in conto. Una mia collega ed amica, Cinzia Mion, Presidente nazionale dell’ANDIS, suole ripetere nei vari Convegni di aver avvertito ultimamente in settori del mondo associativo di ispirazione cattolico-conservatrice una voglia di “rivincita” dopo i “disastri”, a loro dire, provocati dalla sinistra e dai cattolici alla Don Milani in questi ultimi trent’anni. La cosa francamente non mi meraviglia e dirò dopo il perché. Qualcun altro ha parlato di Vandea, il che farebbe pensare che siamo in una fase postrivoluzionaria; il fatto è che non mi pare ci sia stata una rivoluzione in questi anni. C’è stato un percorso difficile e tormentato, a volte anche entusiasmante (la L. 820/71 sul tempo pieno, la 517/77, le elaborazioni pedagogiche sulla “continuità”, il passaggio dal concetto di “recupero” a quello di “successo formativo”, l’educazione alla salute e la C.M. 56 del 1996 sull’educazione civica, attribuita a Corradini, e potrei continuare). Quante di queste innovazioni siano riuscite realmente a cambiare il modo quotidiano di fare scuola non è facile dirlo e non sarebbe stato male fare una sincera analisi di quanti errori siano stati commessi dai nuovi maitre à penser ministeriali, come è tempo di riflettere sulle tante “innovazioni” (?) didattiche propagandate in questi anni, che qualcuno ha battezzato la neo-didattica. La cosiddetta “neodidattica” ha finito per svalutare “i curricoli formativi sistematici e lenti e lunghi e il quotidiano della scuola, li rende invisibili a favore di una proliferazione di progetti e segmenti certificabili e componibili ( e vendibili e messi in vetrina” (4) E così una certa ipertrofia di Morin e della “complessità” (che in certi casi è diventata “complicazione”), l’enfasi eccessiva sulla modularità (anche dove essa non era praticabile), oltre che della “trasversalità” e della “progettualità”, hanno fatto dimenticare quanto c’era di buono anche nella didattica “lineare” e nell’insegnamento semplicemente “disciplinare”. Il rifiuto di certe logiche “malthusiane” o di una visione “tradizionalista” dell’insegnamento (“basta con i moduli, torniamo ai programmi” ) non può farci dimenticare che di un rinnovato “rigore” da riportare nella Scuola italiana molti, anche tra i “progressisti”, eravamo persuasi; basti pensare a come era stata presentata la nuova maturità da Berlinguer, salvo poi veder come è finita. Come non possiamo nascondere quanto sia stato frainteso l’impegno contro l’esclusione e la dispersione scolastica In uno dei suoi interventi sulla riforma , sempre equilibrati a mio parere, dice Cerini: “… Il concetto di "diritto al successo formativo" è stato largamente frainteso, percepito come il venir meno del rigore della cultura, dell'impegno, della conoscenza, foriero di una scuola della sola accoglienza, della socializzazione ad oltranza, del titolo di studio garantito senza troppi sforzi. Sono stati in molti (tra gli opinion maker e tra gli insegnanti) ad interpretare le riforme degli ultimi anni con questo tipo di lettura” (6) Così forse si è ecceduto troppo nel non considerare anche l’eccellenza come un valore a favore di un egualitarismo male inteso. Ora deve essere chiaro che è una falsa alternativa quella “tra lassismo socializzante e impegno serio nello studio” (7); eppure la distinzione tra espulsione dal sistema formativo e “selezione orientativa”, di cui si parlava in un documento della “Nuova Spes”, (una associazione non certamente antiriformista, sorta negli ultimi anni anche come reazione a certe “fughe in avanti” e combattuta a volte forse con troppa asprezza senza capirne le “ragioni”), tra giusto rigore e sanatorie generalizzate, come avviene da troppo tempo negli Esami di Stato, è pur sempre attuale e non basta esorcizzarla, attribuendo a tutti i critici del pedagogismo “buonista” intenzioni restauratrici. Tutti ricordano la polemica di quegli anni avviata soprattutto dal fortunato testo di L. Russo “Segmenti e bastoncini”. Eppure tutti dovremmo essere per una visione dello studio come impegno serio, anche se è da evitare ogni ritorno a un rigorismo fine a se stesso. Tanti anni fa l’allora Segretario del PCI Enrico Berlinguer in un discorso a Genova richiamava l’importanza di uno studio rigoroso, ma sostenuto da adeguate motivazioni. Il “perché” si deve apprendere qualcosa è altrettanto importante del contenuto in sé. Certe posizioni, che non esiterei a definire reazionarie e sostanzialmente elitarie, (i cultori del buon tempo antico), sono sempre esistite e non è detto che fossero minoranza, specie nei Licei. Forse molti pedagogisti “avanzati” non hanno avuto modo di frequentare la “scuola reale” che non è fatta di quelli che partecipano ai Convegni o ai Corsi di aggiornamento. La novità sta nel fatto che mentre prima queste posizioni non emergevano o almeno c’era una certa paura ad esprimerle in un clima politico-pedagogico che andava in tutt’altra direzione, ora esse vengono alla luce del sole, il che non è di per sé un male: si tratta di mostrare tutto la loro debolezza sul piano pedagogico e sociale. In sostanza a me pare che “l’avversario” ha avuto anche delle buone ragioni e oggi le stia mettendo in campo con meno timori rispetto al passato; sta a chi crede nel valore profondo di una pedagogia democratica far tesoro delle riserve e delle ragioni di chi negli anni scorsi si limitava a contestare, magari in silenzio, una certa egemonia, forse eccessivamente “ a senso unico” Ma accanto a queste posizioni di retroguardia esistono invece posizioni del tutto rispettabili anche nello schieramento che si vorrebbe “controriformistico”, come esistono nello schieramento “di sinistra” forze e movimenti che avversano la Riforma morattiana per le stesse ragioni per cui hanno sempre avversato la Riforma berlingueriana.Si tratta allora di delimitare il campo individuando le forze che, pur da posizioni politiche contrapposte, perseguono obiettivi di modernizzazione della scuola italiana e con le quali il confronto è pur sempre possibile, a ptoo che si chiariscano quelli che sono i punti essenziali del cambiamento
I PUNTI FERMI DEL CAMBIAMENTO Succede che nella contrapposizione alla Riforma Moratti che proviene dallo schieramento di sinistra, quello più vicino alle posizioni radicali della CGIL-scuola o dalle stesse Associazioni professionali un tempo schierate a difesa della Riforma Berlinguer (CIDI- MCE ecc), si finisce per avallare posizioni che insieme alla cosiddetta “controriforma” vogliono buttare a mare tutto quanto costituisce una continuità con il precedente disegno riformatore. Centralità dell’alunno, flessibilità e individualizzazione dell’insegnamento, percorsi differenziati, attività laboratoriali, coinvolgimento delle famiglie, interventi “compensativi” nei confronti degli alunni più deboli ma anche attenzione alle “eccellenze”, “patto formativo”, portfolio, “dimagrimento del curricolo” (vale a dire diminuzione del monte-ore), introduzione delle figure di sistema e quindi differenziazione delle carriere dei docenti: tutti obiettivi che fino a qualche tempo fa erano considerati come degli strumenti innovativi e progressivi contro la vecchia organizzazione della scuola e della didattica non possono essere oggi rigettati come regressivi solo perché a proporli è la destra. Resta certamente impregiudicata la differenza tra una posizione “liberista” e una “solidaristica” su alcuni temi di fondo, come il rapporto pubblico-privato, scelta individuale-intervento sociale, recupero-eccellenza, uguaglianza-differenziazione con il privilegiamento di uno dei due termini dell’antitesi, ma senza una esclusione preconcetta dell’altro. Così in fondo si è arrivati alla formulazione della carta costituzionale, pur con tutte le differenze (o le "ambiguità") di interpretazioni presenti nel testo. Tornando ai temi specifici della riforma scolastica ritengo che i veri nodi che occorrerà dipanare e su cui è utile e necessario un confronto tra i due “schieramenti” siano:
Se prendiamo atto di questo occorre invece riallacciare un dialogo e un confronto con quelle forze e associazioni che condividono gli obiettivi di fondo della “nuova Scuola”: E allora la “battaglia” ( se di battaglia si deve parlare) si sposta su altri campi, campi in cui la pedagogia e la didattica prendono il posto della battaglia ideologica; ci sono decenni di elaborazioni teoriche e di “buone pratiche” che purtroppo, come si diceva prima, non hanno coinvolto e non hanno “conquistato” la maggioranza degli insegnanti. Molti hanno respinto la nuova pedagogia perché forse troppo intrisa di ideologia egualitaria, molti hanno temuto uno svilimento del rigore scolastico, molti infine hanno visto uno scollamento notevole tra le affermazioni e i fatti, in tanti che si professavano “progressisti” e che poi lasciavano progredire solo .. l’ignoranza.. Ma l’esigenza fondamentale è quella di un rinnovamento profondo nella relazione educativa e nella pratica didattica, su cui si sofferma abbondantemente sempre Bottani nel suo ultimo saggio “Insegnanti al timone”, laddove dice che al di là delle ingegnerie riformistiche, la questione di fondo è quella di far entrare a pieno titolo nella scuola la nuova rivoluzione cognitivista e il costruttivismo, ben lontano dalle menti e dalla pratica scolastica dei nostri insegnanti, specie nelle Superiori.
CONCLUSIONI Ed ecco la “sfida”, che è un atteggiamento “aperto”, non una condanna senza appello; la speranza a questo punto è che i due schieramenti si aprano, attuando quella che io chiamerei una felice “contaminazione”. In sostanza da una parte da una parte non ci si può limitare a denunciare gli arretramenti o i pericoli insiti nella legge Moratti, ma occorre saper cogliere gli elementi di possibile evoluzione dell’istruzione in senso qualitativo e democratico. Perché la stella polare è, e deve rimanere, “Una scuola di massa e di qualità” in cui “non uno solo si perda”. Dall’altra bisogna riconoscere che il cammino fatto dalla pedagogia più “avanzata”in questi anni non va confuso con il demagogismo e le caricature che ne sono state fatte e quindi riconoscere che il pluralismo delle posizioni, a differenza della chiusura nel proprio fortino, come sta avvenendo da due anni a questa parte, non giova al paese e alla scuola. Qui mi piace citare una affermazione importante di Gramsci, tratta dai Quaderni dal carcere (Il materialismo storico ecc.) “ Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia la ricerca della verità e il progresso della scienza, si dimostra più avanzato chi si pone da un punto di vista che l’avversario può esprimere una esigenza che deve essere incorporata, sia pure come un momento subordinato, nella propria costruzione” Questo vale per entrambi gli schieramenti e dovrebbe essere alla base di un lavoro che andrà portato avanti nei prossimi mesi. E’ una sfida alla quale chi, come me, vive nella Scuola da tanti anni, dopo molte conquiste e tante delusioni anche da sinistra, non si sottrae; soprattutto non mi rassegno all’ineluttabilità di un salto all’indietro, convinto come sono che alla fine ciò che è stato costruito non può essere demolito anche dai più biechi “controriformatori”. Ottimismo della volontà? Semplicemente fiducia nei giovani e ancora tanta voglia di fare “buona scuola”, nonostante tutto. NOTE
I RISCHI E
LA SFIDA Il presente contributo fa parte di un “saggio” che parte da una affermazione di Bertagna, il quale in un suo intervento su “Scuola e didattica” di qualche mese fa, invitava ad utilizzare lo Zélos (la critica costruttiva) al posto dello Ftonos, che è l’equivalente della critica puramente distruttiva (etimologicamente la “invidia” dell’avversario) La conclusione della prima parte era quella di impegnarsi da parte di entrambi gli schieramenti in un confronto dialettico, a partire da certi presupposti condivisi (e a mio parere esiste un fondo sul quale si può convergere che qui non richiamo) in maniera da ricercare non la vittoria degli uni sugli altri, ma la “contaminazione” più avanzata. Terminavo con le parole di Gramsci che più volte ho ripreso in miei interventi e che qui riporto: “ Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia la ricerca della verità e il progresso della scienza, si dimostra più avanzato chi si pone da un punto di vista che l’avversario può esprimere una esigenza che deve essere incorporata, sia pure come un momento subordinato, nella propria costruzione”
II PARTE : I PUNTI CRITICI DELLA RIFORMA MORATTI
Gli aspetti più innovativi (uso l’espressione con una accezione “neutra”) che risultano dai documenti “Bertagna” sono indubbiamente due:
Tralascio il Porfolio, perché la sua introduzione in molte scuole italiane data da almeno un decennio.
1) PROGRAMMAZIONE E PIANI DI STUDIO INDIVIDUALIZZATI: PROBLEMI E PROSPETTIVE
Tra le varie novità contenute nelle “Indicazioni nazionali” del gruppo Bertagna, i PSP rappresentano una autentica “innovazione” rispetto ai precedenti modelli di programmazione; mi pare opportuno approfondire il discorso sia per ricercarne le matrici culturali e pedagogiche sia per verificarne la possibilità reale di introdurli nella pratica didattica quotidiana, visto che essi, come dirò, rientrano ormai nella legislazione ordinaria Una prima considerazione è che in effetti esistono degli antecedenti che si richiamano a disposizioni normative in particolari situazioni (i PEI ai sensi della L. 104), ma anche in generale (vedi successivamente la “Carta dei servizi”) Ora essi compaiono, oltre che nelle Indicazioni e nelle Raccomandazioni della Commissione Bertagna, nella stessa L. 53/2003, dove sono stati inseriti nell’ultima modifica all’art. 2 al posto della più corretta espressione “piani di studio” (che significa “quadro orario, curricoli”). Ciò introduce un “salto logico” e pedagogico davvero strano: che senso ha, sia detto tra parentesi, affermare che i PSP dovranno contenere, oltre al nucleo fondamentale, omogeneo a livello nazionale, una “quota” riservata alle Regioni (??!)[1]
DAI PROGRAMMI ALLA PROGRAMMAZIONE: BERVE EXCURSUS STORICO La parola “programmazione”, è noto, non fa parte del lessico pedagogico-diadttico italiano almeno fino alla fine degli anni 50 e si afferma nel corso degli anni 60, in contemporanea con la “scoperta” della programmazione economica, che tanto successo ebbe proprio negli anni 60, grazie anche a La Malfa e al centrosinistra di allora. Si sa che ci furono difficoltà e resistenze ad introdurla in Italia, dove imperava la tradizione idealistica e spiritualistica. Il concetto di programmazione richiamava infatti pratiche didattiche di chiara origine anglosassone con una impostazione di tipo comportamentistico, come appare chiaramente nella cosiddetta “istruzione programmata”. L’istruzione programmata, a partire dalla fine degli anni 60, si collega all’utilizzo delle nuove tecnologie didattiche e agli strumenti di valutazione cosiddetti “oggettivi” come i test o le prove standardizzate. E’ indubbio che la programmazione introduce elementi di rigidità e di impersonalità in una sfera che appare contrassegnata più da un rapporto creativo e personalizzato. Si può finire veramente con lo scadere in quello che Bertagna giustamente chiama “prestazionismo”: la ricerca di oggettività fa perdere di vista la complessità di un giudizio sulla persona che deve essere globale, senza rinunciare alla analiticità. Lo stesso discorso si potrebbe fare dal lato degli obiettivi, che declinati in maniera molto analitica e particolareggiata conduce a segmentare eccessivamente l’apprendimento. (V. OBIETTIVI E PERFORMANCE di Mager) Il termine di programmazione viene richiamato per la prima volta nei DD e precisamente all'art.3 del DPR 416/74, quando a proposito dei compiti dei collegi Docenti si afferma che spetta al Collegio curare “la programmazione dell’azione educativa anche al fine di adeguare … i programmi di insegnamento alle specifiche esigenze ambientali e di favorire il coordinamento disciplinare” Due quindi gli scopi della programmazione: “adeguare i programmi all’ambiente” ( o agli alunni!?) e il coordinamento interdisciplinare. Successivamente la L. 517/79 precisava in maniera chiara tale compito. La legge è più nota perché aboliva i voti numerici e gli esami di riparazione nelle Scuole Medie. L’enunciazione più chiara sui compiti della Scuola in merito alla programmazione è contenuta nel DPR del 10 giugno 1995, la cosiddetta Carta dei servizi. Ritengo opportuno riportare integralmente il testo perché di esso purtroppo, come succede spesso in Italia, dopo le ansie e le preoccupazioni iniziali, si è persino persa traccia "La programmazione educativa, elaborata dal Collegio dei docenti, progetta i percorsi formativi correlati agli obiettivi e alle finalità nei programmi. (sottolineatura mia) Al fine di armonizzare l’attività dei consigli di intersezione, di interclasse o di classe, individua gli strumenti per la rivelazione della situazione iniziale e finale e per la verifica e la valutazione dei percorsi didattici. Sulla base dei criteri espressi dal Consiglio di circolo o d’istituto, elabora le attività riguardanti l’orientamento, la formazione integrata, i corsi di recupero, gli interventi di sostegno. Programmazione didattica Elaborata ed approvata dal Consiglio di intersezione, di interclasse o di classe: - delinea il percorso formativo della classe e del singolo alunno, adeguando ad essi gli interventi operativi; - utilizza il contributo delle varie aree disciplinari per il raggiungimento degli obiettivi e delle finalità educative indicati dal Consiglio di intersezione, di interclasse o di classe e dal Collegio dei docenti; - è sottoposta sistematicamente a momenti di verifica e di valutazione dei risultati, al fine di adeguare l’azione didattica alle esigenze formative che emergono “in itinere”. Contratto formativo Il contratto formativo è la dichiarazione, esplicita e partecipata, dell’operato della scuola. Esso si stabilisce, in particolare, tra il docente e l’allievo ma coinvolge l’intero Consiglio di interclasse o di classe e la classe, gli Organi dell’istituto, i genitori, gli Enti esterni preposti od interessati al servizio scolastico. Sulla base del contratto formativo, elaborato nell’ambito ed in coerenza degli obiettivi formativi definiti ai diversi livelli istituzionali: l’allievo deve conoscere: - gli obiettivi didattici ed educativi del suo curricolo - il percorso per raggiungerli - le fasi del suo curricolo il docente deve: - esprimere la propria offerta formativa - motivare il proprio intervento didattico - esplicitare le strategie, gli strumenti di verifica, i criteri di valutazione"
Si possono quindi distinguere varie aspetti e conseguentemente varie fasi della Programmazione all'interno dell'Istituto. Per ognuno di essi il docente è chiamato a dare il suo contributo in maniera certamente differenziata. Lasciando da parte il cosiddetto P.O.F. (Piano dell'offerta formativa) di competenza del Collegio Docenti e del Consiglio di istituto, al docente spetta esprimersi sulle mete formative che il Collegio elabora all'inizio di ogni anno. Si tratta di definire obiettivi e mete dell'azione educativa non limitandosi a mere enunciazioni di principio, ma cercando di individuare gli strumenti atti a realizzare tali obiettivi. E' questo un compito, come si è detto del Collegio Docenti, anche se nella Carta dei servizi si distingue in maniera, a mio parere, impropria tra programmazione educativa, di competenza del Collegio, dalla programmazione didattica, di competenza del Consiglio di classe. CONTRATTO FORMATIVO L'ultima fase riguarda quello che viene chiamato il "contratto formativo" sul quale è bene fare alcune precisazioni. L'espressione richiama un certo linguaggio civilistico, che mal si adatta alla realtà della Scuola; ma in effetti è tutta l'impostazione della Carta che risente di una tale "curvatura", contestata a ragione dagli operatori scolastici più impegnati sul versante pedagogico. Programmazione collegiale ("educativa") , programmazione del Consiglio di classe ("didattica") confluiscono in quello che viene chiamato il contratto "formativo”, che a questo punto si potrebbe tradurre nel cosiddetto PIANO DI STUDIO PERSONALIZZATO
PROGRAMMAZIONE EDUCATIVA DIDATTIICA E I CURRICOLI
Tralascio l’elencazione delle varie fasi della programmazione individuale, o piano individuale di lavoro (P.I.L.), perché risaputi: analisi della situazione iniziale della classe, finalita' e obiettivi disciplinari, criteri metodologici, criteri e strumenti di valutazione, contenuti con l’indicazione fondamentale dei tempi. Il P.I.L., è stato sempre ribadito, non può essere scisso dalla programmazione Collegiale e da quella del Consiglio di classe. Occorre quindi far riferimento agli obiettivi stabiliti dal Collegio, dai Consigli di classe e agli accordi fra docenti della stessa disciplina. Il riferimento a tali obiettivi generali può costituire la premessa o il "cappello" a tutto il piano, prima di addentrarsi nelle varie parti. Pertanto si può scegliere o sottolineare solo alcuni degli obiettivi, avendo presenti le caratteristiche particolari della classe e la specificità del proprio ambito disciplinare. La programmazione classica è quindi la programmazione per obiettivi e specie a livello collegiale non si veda come possa essere superata da altre forme di programmazione. Nella pratica didattica tuttavia la programmazione per obiettivi e performance si è rivelata insufficiente a rendere la “complessità” delle situazioni e soprattutto rivela la sua debolezza in rapporto alle nuove teorie dell’apprendimento. Per il primo aspetto si sono diffuse negli ultimi anni varie forme di programmazione specie in ambito disciplinare, che vanno dalla programmazione modulare, per concetti o mappe concettuali. E soprattutto, specie ultimamente, quella per competenze, al centro comunque di un interessante dibattito pedagogico e didattico (vedi sito Edscuola.com, settembre 2003) Un punto fermo mi pare sia il superamento del concetto di programma e la sua sostituzione con il curricolo, anche se nella pratica didattica, specie nelle superiori, la cosa è tutto da verificare. Il D.P.R. 275/99 “Regolamento autonomia” definisce negli art. 3 e 8 quali sono i compiti dello Stato e delle singole scuole. Il termine “programma” appartiene ormai alla storia, anche se è stato resuscitato impropriamente nel ddl sulla “devolution” ad opera di Bossi e La Loggia Resta tuttavia aperto il rapporto tra “programmazione curricolare” per l’intera classe e il cosiddetto “patto formativo” previsto dalla Carta dei servizi, riferito al “singolo alunno”. Una interessante puntualizzazione che potrebbe preludere ai Piani di studio personalizzati si ritrova sempre nell’art. 8 del DPR 275, dove si parla di “personalizzazione” a proposito dei curricoli di istituto (in rapporto tuttavia ad “azioni, progetti o accordi internazionali”) [2] Ma importante mi pare soprattutto il comma 4 che afferma “La determinazione del curricolo tiene conto delle diverse esigenze formative degli alunni concretamente rilevate, della necessità di garantire efficaci azioni di continuità e di orientamento, delle esigenze e delle attese espresse dalle famiglie, dagli Enti locali, dai contesti sociali, culturali ed economici del territorio. Agli studenti e alle famiglie possono essere offerte possibilità di opzione” (sott. mie) Si può dire che Bertagna abbia voluto tradurre in maniera molto concreta quanto previsto da tale comma? La tesi mi pare plausibile, anche perché, anche per quanto riguarda le modalità di costruzione dei Piani di studio personalizzati, egli utilizza, come vedremo, una terminologia che è ricavata integralmente proprio dall’art. 8 del 275.
I PIANI DI STUDIO PERSONALIZZATI
I PSP trovano una loro base filosofico-pedagogica nelle “Raccomandazioni” che, come si sa, non hanno valore prescrittivo, ma tuttavia costituiscono il fondamento teorico delle stesse Indicazioni. Esse sono precedute da un paragrafo, che partendo dalla filosofia della scienza (da Newton a Gadamer) arriva alla didattica e introduce, come viene chiaramente affermato, un nuovo lessico pedagogico, o meglio, reinterpreta espressioni e parole che da alcuni anni sono entrati a far parte del lessico pedagogico corrente, non senza qualche forzatura di tipo non solo terminologico, ma anche sostanziale, e non senza qualche “dimenticanza” che in effetti non è tale: mi riferisco ad esempio a tutta la discussione sulle conoscenze essenziali e i nuclei fondanti e della precedente elaborazione pedagogico-didattica La ragione di tale dimenticanza è nella svolta ancora una volta di tipo filosofico-culturale impressa da Bertagna: la “personalizzazione” del sapere e quindi i PSP infatti vengono fatti discendere da una visione della scienza e della conoscenza in cui ai “prodotti” della ricerca si sostituisce il processo e l’attività di ricerca, che in quanto tale riguarda più il soggetto che l’oggetto; così il problema dei “saperi” essenziali che aveva costituito il leit-motiv della riforma berlingueriana, e che trovavano un fondamento nella pedagogia bruneriana, viene superato; non si tratta di definire ciò che va insegnato o appreso, né il modo come si conosce. Non è in gioco il “che cosa” si insegna, (o almeno non solo, si dice nelle raccomandazioni) né il “come si fa”, ma il “chi”. L’ordine logico di una serie di costrutti scientifici, vi si dice, deve coincidere con quello psicologico ed etico (?) di chi se ne appropria. Ancora: non basta che qualcosa sia scientificamente certo, ma dobbiamo riuscire a rendere quel qualcosa in una nostra verità esistenziale. Francamente trovo pericoloso quel richiamo all’etica riguardo alla conoscenza, che potrebbe alludere a “verità” eticamente inaccettabili e come tali da scartare. A parte ciò, tuttavia bisogna riconoscere che il presupposto di un rapporto strettissimo tra soggetto e oggetto della conoscenza è condivisibile, a determinate condizioni. Questo è ciò che viene definita la nuova “rivoluzione copernicana”, anche se a ben vedere gran parte di ciò che viene affermato costituisce la sostanza stessa del costruttivismo, non di un costruttivismo solipsistico, più che sociale. Inoltre il costruttivismo, si sa, non elimina né vuole eliminare la “durezza” della realtà e quindi degli “oggetti” della scienza, come la stessa rivoluzione copernicana di Kant non abolisce il carattere oggettivo della “cosa in sé”. Qui si rischia invece di ritornare all’esse est percipi di Berkley. Con la messa tra parentesi dei “saperi” oggettivi infatti il rischio è che si torni al semplice “incontro tra anime” di ascendenza idealistico- spiritualistica (alla Lombardo-Radice, Giuseppe, per intenderci). C’è voluto molto, come dicevo prima, per introdurre nella Scuola italiana la cultura della Programmazione, proprio a causa del pregiudizio idealistico che ha sempre combattuto contro una visione del sapere “discontinuo” e “discreto” che punta sull’analisi dei contenuti, anche se a volte ciò ha portato all’oscuramento del soggetto che apprende; ma occorre evitare il rischio di annullare gli oggetti di apprendimento come inessenziali al fine di educare il soggetto in sé. Su questo punto occorre, a mio parere, essere ben fermi e riprender il dibattito sui nuclei essenziali delle discipline, sulle reti concettuali e tutto ciò che aveva costituito oggetto di ricerca nell’ultima fase della discussione durante l’elaborazione dei curricoli prima della cesura del 2001.
PERSONALIZZAZIONE E PROGRAMMAZIONEVenendo allo specifico didattico, i PSP dovrebbero, così almeno sembra ( e si dice espressamente nelle “Linee guida della formazione” dell’aprile 2003) eliminare la “vecchia” programmazione, come logica conseguenza dell’eliminazione dei programmi, anzi non solo dei programmi ma come dicevo prima anche dei “curricoli”. Ora siamo tutti d’accordo che i Programmi sono superati e che la logica programmatoria classica (quella per intenderci degli obiettivi e delle performance oggettivamente e preventivamente determinati) va aggiornata e in effetti è stata abbondantemente aggiornata, almeno da parte dei docenti più avveduti e … aggiornati. Negli ultimi anni, ho detto prima, si è parlato tanto di programmazione per concetti, per moduli e infine di programmazione curricolare, dove il curricolo rappresenta la progettazione di un percorso calato nel particolare di una classe o al limite del singolo alunno, come nel caso del PEI per l’handicap. All’istruzione programmata classica degli anni 50/60 si è sostituito “curricolo di Istituto o di classe o addirittura del singolo, grazie proprio alla lezione del costruttivismo e delle nuove scienze cognitive (anche se più nelle enunciazioni che nella pratica; ma la scuola elementare in questo è all’avanguardia, grazie a i Programmi dell’85). Ora da parte di Bertagna si propone di superare il curricolo per completare l’abbandono dell’uniformità delle prestazioni e ..rovesciare la vecchia impostazione dei programmi. Cito da un articolo di Bertagna comparso su Tuttoscuola del marzo 2003. Nella programmazione curricolare, ci dice Bertagna, è successo che l’uniformità venisse trasferita dal livello nazionale a livello di scuola o di classe. Occorre andare altre; e allora “Ai docenti è richiesto non più di transitare “dal generale culturale al particolare personale (che era poi l’ individualizzazione dell’insegnamento) ma di operare “dal particolare personale al culturale” (pag. 127). A parte la fumosità di tale espressione, sembrerebbe di dover predisporre per ciascun alunno un “programma individuale” una specie di PEI come previsto dalla 104. [3]Tralascio i problemi concreti e pratici della costruzione di questi PSP, che, stando alle Linee guida per la formazione sostituirebbe ogni altra forma di “programmazione” Mi soffermerei solo su tre aspetti: I) la procedura gerarchizzata e standardizzata delle operazioni richieste per la predisposizione del PSP che sembrano proporre non solo una pedagogia di Stato (come era in parte avvenuto in passato e con lo stesso Berlinguer) ma addirittura una didattica di Stato. Il docente deve avere ben chiari gli obiettivi formativi generali della scuola primaria e il profilo in uscita del I Ciclo, entrambi stabiliti a livello nazionale (art. 8 del DPR 275) nonché gli OSA (composti da conoscenze e abilità) che rappresentano “gli standard obbligatori del servizio” che le Scuole sono tenute ad erogare; da qui parte per definire le UA in cui sono contenuti gli “obiettivi formativi” riferiti alle competenze del singolo allievo, metodi, attività e verifiche, che devono poi confluire nel Portfolio. Il tutto concordato o contrattato con i soggetti, le famiglie prima e gli studenti poi. Non è chi non veda l’artificiosità e la complessità di tutto questa procedura, anche se da una lettura attenta si possono riscontrare gli stessi termini presenti nell’art. 8 del DM 275/99 II) Il secondo aspetto è quello della valutazione degli apprendimenti . Bertagna chiarisce molto bene (Tuttoscuola marzo 203) che bisogna abbandonare la logica “prestazionistica” che ha caratterizzato la scuola italiana dal 1977 in poi (si riferisce alla 517? Come mai questa non viene mai citata? Occorre chiarire se è stata abrogata o meno, perché come vedremo alcune parti della 517 confliggono con le Indicazioni). Il prestazionismo, dice ancora Bertagna, è di tipo “selettivo” ed è associato a comportamentismo, pragmatismo ed efficientismo pedagogico. La personalizzazione elimina questi vizi e quindi si potrebbe dire è …. antiselettivo! Ora che il comportamentismo e l’efficientismo pedagogico siano vizi da superare ce ne eravamo accorti da tempo: la Scuola italiana dapprima non li aveva accolti quando si volle introdurli alla fine degli anni 50 e poi li aveva mal sopportati nell’ultimo decennio berlingueriano. Il fatto è che qui si giunge a mettere in discussione che possano esistere degli “standard di prestazione di apprendimenti degli allievi”. E’ vero che esiste l’INVALSI, ma questo non ha alcun valore di giudizio sui singoli e sulle Scuole; la soluzione di questa apparente contraddizione starebbe in una “interlocuzione continua” tra Invalsi e scuole. Ammesso che sia possibile, si ripresenta comunque il problema: come si valutano gli alunni al termine di un ciclo? La risposta è che sta al docente formulare gli standard di prestazione non prima dello svolgimento delle UA ma “in maniera fenomenologia, assestandoli riflessivamente in un continuo interscambio tra a-priori e a –posteriori, tra progetto ed esperienza” (pag. 30 Tuttoscuola) Qui si coglie la differenza di fondo tra “individualizzazione” che propone percorsi differenziati per raggiungere risultati possibilmente omogenei e la “personalizzazione” che esclude in partenza la possibilità di esiti omogenei. La prima tiene conto di personalità diverse, di stili di apprendimento personali, di attitudini e interessi diversificati per raggiungere risultati comunque comparabili. La seconda prevederebbe percorsi formativi differenziati, che darebbero vita a una sorta di insegnamento su misura e per di più proposti magari dalle famiglie. Il tutto in una classe in cui è previsto un “insegnamento a carattere prevalentemente omogeneo e unitario” e di tipo “frontale” (Linee guida, pag. 19-20) per 18/21 ore. La figura del maestro-tutor, così come viene concepita e cioè come maestro prevalente, entra in contraddizione proprio con l’esigenza della personalizzazione: se egli deve trascorrere la maggior parte del tempo con il gruppo-classe, non riuscirà certamente a “personalizzare” il proprio insegnamento. Al di là del rischio di una scuola come “servizio a domanda individuale”, c’è il rischio che la personalizzazione riproduca le caratteristiche preesistenti negli allievi, mentre dovrebbe se bene intesa tendere a costruire “percorsi di apprendimento coerenti con la valorizzazione delle potenzialità di ciascun allievo” (Vertecchi INSEGNARE n.3/4 2003, pag. 10). Eppure si parla spesso di “livelli essenziali delle prestazioni” stabiliti centralmente, il che comporterebbe che tutti debbono poter raggiungere dei livelli minimi accettabili III) Ultimo aspetto, non meno importante è il rapporto tra l’attenzione al singolo alunno e la necessità di guardare al gruppo-classe, senza trascurare il contesto più ampio del plesso o dell’Istituto. I PSP sembrano guardare solo al primo e poco si preoccupano delle relazioni che pure costituiscono un elemento fondamentale del processo di insegnamento-apprendimento. Come dice giustamente A. Rocca “A scuola gli alunni crescono vivendo la relazione con i coetanei, con gli insegnanti e con il sapere, in una sorta di decentramento da sé” per cui il concetto di personalizzazione “va qualificato con il carattere della relazionalità che è proprio della persona umana”( “Verso i PSP”, da “Il Maestro” , mensile dell’AIMC, maggio 2003)
Possibili soluzioniDa quanto detto prima emerge la necessità che i PSP non si sostituiscano alle precedenti programmazioni curricolari, ma ne siano al più una specificazione. In sostanza i cosiddetti “obiettivi formativi”, che nella versione di Bertagna rappresenterebbero la sintesi tra conoscenze e abilità, vanno individuati a livello dapprima trasversale (all’interno del team docente, o equipe come si voglia chiamare, che nelle Scuole secondaria è il Consiglio di classe) e quindi a livello disciplinare o di ambito sull’intera classe, tenendo conto della situazione di partenza del gruppo classe e dei singoli allievi. Solo in un secondo momento si potranno individuare percorsi “differenziati” o addirittura personalizzati, qualora si presentino situazioni che meritino una specificazione ulteriore. D’altronde non è una novità quella del cosiddetto “patto formativo” tra la Scuola e il singolo alunno, come previsto dalla Carta dei servizi di qualche anno fa. Salvo il fatto che di quella Carta nessuno si ricorda perché la fervida fantasia dei nostri ministeriali ha prodotto e stratificato una serie di documenti di vario genere, a partire dal PEI per passare al Progetto di istituto per arrivare al POF. Ma nessuno ha abolito la “Programmazione educativa e didattica” di cui parlano i Decreti delegati del 74 e che ha trovato una sanzione legislativa successivamente con la 517/77. Occorre ripartire quindi dal concetto di Programmazione educativa e didattica, che è di pertinenza del Collegio, e nella quale sono fissate le mete formative e didattiche per un particolare tipo di scuola (quello che oggi viene chiamato il PECUP e che va adattato a livello di singola istituzione scolastica), compresi gli “standard minimi” ( o per usare la nuova terminologia “ i livelli minimi”) a cui occorre che tutti gli allievi devono conseguire, si tratti di comportamenti o di conoscenze e abilità. Di qui si origina, come si diceva, la programmazione collegiale a livello trasversale del gruppo classe (da parte del Consiglio di classe o dell’equipe pedagogica) e in ultima istanza si perverrà alla elaborazione di un documento personalizzato. Ma, come ben evidenzia il Frabboni in un suo articolo di alcuni mesi fa “L’introduzione nella vita della classe di PSP è possibile a condizione di dar via-libera alla Didattica delle classi eterogenee. Questa richiede procedure di insegnamento dagli elevati coefficienti di personalizzazione didattica (attenta cioè ai livelli-capacità e ai tempi-modalità di apprendimento di ogni allievo/a) pur assicurando – nel contempo- dinamiche e “vissuti” di classe (sott. mia) ricchi di contrappunti emotivi-affettivi ed etico-sociali attraverso le naturali dinamiche di gruppo” (Scuola e Didattica, La Scuola, Ottobre 2002) Non è chi non veda in questa impostazione un arricchimento reale della programmazione come normalmente è intesa nella pratica didattica; una vera sfida che richiede tuttavia un elevamento notevole della professionalità docente, che solo con il tempo e con una adeguata formazione si potrà raggiungere. E’ questa la vera Riforma, che da destra o da sinistra non si può non condividere.
2) MODULI O EQUIPE
L’introduzione dei moduli dapprima sperimentalmente nel 1986 e poi per via legislativa nel 1990 fu materia di grandi discussioni come la questione dei rientri pomeridiani. Ricordiamo da una parte le opposizioni dei genitori, le polemiche e le accuse soprattutto ai sindacati dall’altra di aver cercato attraverso il team del modulo di salvaguardare semplicemente l’occupazione magistrale di fronte al grande calo demografico degli anni 90. Gli stessi maestri, specie quelli più “garantiti” dall’anzianità, fecero enorme resistenza ad abbandonare una tradizione (quella del maestro unico) che aveva in Italia una lunga storia alle spalle. Poi la “novità” fu digerita, le ragioni pedagogiche finirono con l’affermarsi su altre motivazioni e anche se non scomparvero mai i nostalgici del maestro unico, si accettò che il team e una specializzazione maggiore da parte dei maestri evitava uno dei difetti presenti nella vecchia organizzazione e cioè il rischio della “tuttologia” da una parte e l’eccesso di influenza di una sola figura sugli alunni, nel bene e nel male, dall’altra. Senza contare il vantaggio di una collaborazione tra docenti, il superamento della autoreferenzialità e la ricchezza che nasce dal confronto e dal dibattito. Certo i problemi non mancavano e nel corso della verifica, a cinque anni distanza dalla 148/90, si notò come uno degli effetti della “specializzazione” dei maestri nei tre ambiti era che al posto dell’unità del sapere si era affermato un disciplinarismo spinto, sconosciuto fino ad allora nelle elementari; si avvertì come il modulo aveva provocato un eccesso di docenti in classe che a volte erano addirittura superiori al numero degli alunni: 3 docenti “comuni”, uno di inglese, uno di religione e magari 1 di sostegno e 1 di informatica. Un numero sproporzionato per una classe magari di 10 allievi, quanti se ne trovano a volte nelle scuole di montagna. Se la figura del maestro unico era rischiosa in certi casi, 6 maestri in effetti introducono elementi di deresponsabilizzazione e scarsa riconoscibilità da parte dei genitori, i quali hanno in molte occasioni manifestato sconcerto e difficoltà a riconoscere il “maestro” del proprio figlio. Ed ecco la proposta di limitare al minimo specie nelle prime classi queste figure ricorrendo alla figura del maestro prevalente, tra l’altro già previsto nella 148 (C.M. 196 del 1996). Non si può nascondere che a volte i team erano assai poco collaborativi e perfino conflittuali con riflessi gravi sull’educazione del bambino, come quando in una famiglia c’è contrasto tra le due figure genitoriali. La scelta della Commissione Bertagna di introdurre il maestro-tutor, il quale nei primi tre anni deve essere presente con l’intera classe per almeno 18 ore, sta provocando lo stesso sconcerto soprattutto tra i maestri i quali sanno che in questo modo potrebbero tornare a occuparsi dei tre ambiti e dovranno almeno nel primo ciclo accantonare la propria “specializzazione”. Lasciamo da parte le accuse di voler tornare al “maestro unico” perché chiaramente non stanno in piedi; infatti il numero delle figure presenti in classe può arrivare anche in questo caso a 6 ( e forse anche più), perché occorre tener conto dell’IRC, dell’inglese, dell’informatica e dei laboratori che dovranno essere affidati ad altri. Così come non è previsto che le 18 ore in presenza della classe debbano essere necessariamente “lezioni frontali”; certo potranno anche essere tali, ma questo dipende dalle scelte metodologiche dell’insegnante e dalla suddivisione dei compiti nell’equipe pedagogica. Pensare ai docenti di “laboratorio” come a dei docenti di serie B, a me pare derivi dal vecchio pregiudizio per cui il fare è inferiore al pensare e meraviglia che a preoccuparsene siano docenti che magari che hanno fatto della pratica laboratoriale un metodo normale di insegnamento. Ecco l’equipe pedagogica che sostituisce il team: ma c’è davvero una differenza sostanziale? E’ proprio detto che si introducano così delle gerarchie tra gli insegnanti? E’ proprio inevitabile che il tutor diventi una specie di responsabile unico a cui gli altri dovranno semplicemente “far corona”? Il rischio indubbiamente esiste, come prima si è detto che nel team c’era il rischio della conflittualità. E allora sta al dirigente operare perché questi rischi siano minimi, sta ai docenti dell’equipe evitare la prevaricazione da parte del tutor. Insomma non è il numero di ore assegnate al docente-tutor che di per sé sconvolge impedisce di lavorare in team. Dove esiste da sempre un clima di collaborazione e di scambio di esperienze, la “pari dignità” è assicurata dalla …. pari professionalità, che non sempre è presente nella realtà attuale. A me sembra in conclusione che si enfatizzino i risultati positivi realizzati in questi anni ( e non in tutte le scuole) attraverso i moduli e non si vedano invece gli aspetti negativi che si accentuano con il passare degli anni. Quanta “trasversalità” è stata realizzata davvero e quanta flessibilità? La 148 parlava di possibilità di rotazione tra gli ambiti, anche per evitare una specializzazione eccessiva: nelle mie esperienze ho trovato che a cambiare sono stati solo i supplenti e coloro che hanno ottenuto un trasferimento, per cui hanno dovuto “adattarsi”. Quanto al tutoraggio si è sempre detto che occorre “accompagnare” l’alunno nel percorso formativo, instaurare con i singoli un rapporto di aiuto e di scambio il più possibile “personalizzato” e questo può essere fatto indubbiamente meglio se esiste una figura “prevalente”. Va inoltre ribadito il carattere unitario del sapere, specie nei primi anni delle elementari, e questo è più facile se si evita una “parcellizzazione” spinta delle discipline. Aggiungo infine che non è del tutto giustificato collegare la questione del “tutor” con quella del maestro prevalente, come giustamente mi ha fatto notare in una missiva personale lo stesso Bertagna. La verità è che finora si è “primarizzata” la discussione sul tutor, dimenticandosi che tale figura si ritrova non solo nell’ultimo ciclo delle elementari (dove non esiste vincolo di orario e quindi potrebbero tornare benissimo i moduli), ma anche nelle Medie e nelle Superiori. In questi due ultimi gradi scolastici da tempo è stato affidato al docente coordinatore del Consiglio di classe il compito di dirigere il team, di seguire personalmente la situazione complessiva della classe e, se necessario, dei singoli alunni in particolari casi nonché di mantenere un rapporto “privilegiato” con i genitori. Nessuno ha mai inteso questa funzione come una posizione gerarchica o prevaricante. Per queste ragioni non trovo che il dibattito sul “tutor debba caricarsi inevitabilmente di significati “pericolosi” come si è voluto a tutti i costi vedere. Si tratta di approfondire l’argomento in quella logica dello ZELOS, di cui parlavo all’inizio più che dello Ftonos
POSCRITTO: e il Liceo?
Dum Romae disputatur ………….. Ancora una volta il dibattito sulla Riforma complessiva della Scuola italiana rischia di appannare o far passare in seconda linea l’urgenza di una riforma delle superiori e in particolare dei Licei. E’ vero, c’è stato un documento elaborato da una Commissione molto nutrita (dove, a quanto sembra, abbondavano gli universitari e scarseggiavano gli operatori in attività) che ha prodotto il PECUP del percorso Liceale. Un documento molto criticato che sembra non tener conto di tutto il dibattito che da almeno trent’anni ha interessato il mondo scolastico a proposito del concetto di “licealità” che non può rifarsi ad Aristotele per il semplice fatto che la nuova “polis” non è l’Atene del IV secolo a.C. Eppure di documenti a tal proposito se ne sono visti almeno in questo ultimo decennio, ed anche di tentativi di innovare specie in quel troncone considerato meno permeabile ai cambiamenti, che è il Liceo Classico. Chi scrive ha partecipato in parte al processo di cambiamento e di sperimentazione a partire dai primi anni 90 con il Progetto “Brocca” , poi aggiornato con il Proteo, e soprattutto ha cercato “sul campo” tramite progetti autonomi di rendere il Classico una Scuola al passo con i tempi, sempre innestando tali innovazioni in un solido terreno di “conservazione” (non ho paura ad affermarlo) dei fondamenti. Le linee ispiratrici si possono ricondurre a quattro filoni:
Per ciascuna di esse ci sarebbe da scrivere tanto; il fatto è che ….. si è già scritto. Basta riprendere ancora una volta i Documenti del “Brocca” e aggiornarli! Almeno questo è il punto di vista del sottoscritto.
[1]
Il testo dell’art. 2 alla lettera l è stato modificato rispetto al
precedente, il quale parlava di “piani di studio” e basta, e recita
pertanto “ l)
i piani di studio personalizzati, nel rispetto dell'autonomia delle
istituzioni scolastiche, contengono un nucleo fondamentale, omogeneo
su base nazionale, che rispecchia la cultura, le tradizioni e
l'identità nazionale, e prevedono una quota, riservata alle regioni,
relativa agli aspetti di interesse specifico delle stesse, anche
collegata con le realtà locali.
[2] Il curricolo della singola istituzione scolastica, definito anche attraverso un'integrazione tra sistemi formativi sulla base di accordi con le Regioni e gli Enti locali, negli ambiti previsti dagli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 può essere personalizzato in relazione ad azioni, progetti o accordi internazionali [3] P.S. Dalla sintesi riportata da qualche sito del nuovo D.L. (poi ritirato) sembrava chiarita meglio la relazione tra Programmazione di classe e PSP, nel senso che questi ultimi “potevano” innestarsi nella programmazione di classe. |
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