|
|
Les
“sciences de l’éducation” di
Bernard BERTHELOT Estratti da uno studio inedito
L’IMPOSTURA PEDAGOGICA Sono ormai più di vent’anni che le riforme che si
abbattono sulla Scuola con una continuità sorprendente concorrono al
suo progressivo degrado. Per Monsieur Claude Allègre, attuale
Ministro dell’Educazione nazionale, la scuola di Jules Ferry non
sarebbe più adatta al mondo di oggi, le missioni che le erano state
attribuite non avrebbero più corso e sarebbe impellente riformarla in
profondità. Tutti gli argomenti sono buoni per giustificare tale
impresa che si pretende di fare a tambur battente e che imputa alla
scuola di Jules Ferry tutti i mali: gli si imputano tutte le tare di
cui soffre la società, dalla violenza all’analfabetismo, dalla
pedofilia alla tossicodipendenza, senza dimenticare la noia che si
presume essa distilli! Non
stupisce affatto che si affidi il timone di questa operazione a
Monsieur Philippe Meirieu, “ ricercatore in scienze dell’educazione ”.
Egli rappresenta, in effetti, il simbolo vivente delle velleità
riformatrici che opprimono la Scuola, dalla « pedagogia per
obiettivi » alla « pedagogia differenziata » delle
quali ci proponiamo di mostrare la filiazione. Tutto questo, lo si
vede, non è affatto una novità ed è da un pezzo che sarebbe stato
necessario allarmarsi e lottare contro i colpi inferti alla scuola,
che non sono affato portati al fine dir rimediare ai mali di cui essa
oggi soffre. Ma ecco che la macchina s’inceppa e il Ministro sembra
ben deciso ad andare oltre l’opposizione degli insegnanti e ad imporre
la sua riforma alla ussara. La forza d’inerzia che ha costituito fin’ora
un’armata inefficace non è più di stagione. La scuola è in uno
stato di legittima difesa, è il servizio pubblico d’insegnamento
ad essere messo indiscussione, è la scuola laica, crogiolo
della cittadinanza e della Repubblica ad essere minacciata. La posta
in gioco è considerevole! Ed è perchè è importante chiarire ai
fruitori della scuola le idee su Philippe
Meirieu, sulle correnti pedagogiche che lo muovono ed alle quali egli
si riferisce, e su ciò che si vuole fare della scuola. Questi
estratti sono frammenti di uno studio più lungo, al momento inedito,
e la cui diffusione trova una giustificazione nell’urgenza della
situazione. I.
Gli "obiettivi", un certo modo di approcciare alla
pedagogia. I
primi segni allarmanti, a riflettere una svolta nel modo di concepire
il ruolo della scuola nella società, risalgono alla comparsa, nel
corso degli anni ‘70, della « pedagogia per obiettivi »
ed all’introduzione di una concezione puramente gestionaria o
tecnocratica dell’educazione. In tutte le opere consacrate agli “obiettivi
pedagogici” non si tratta più tanto di una questione di insegnamento,
quanto di una questione di formazione. Inoltre, la
« formazione iniziale » non è sostanzialmente distinta
dalla « formazione continua » e, per di più, la prima è
concepita sul modello della seconda. Infine, questa “pedagogia” è
regolarmente presentata come una alternativa alla cosidetta pedagogia
tradizionale, della quale si decreta lo stato di crisi acuta e della
quale si denuncia l’incapacità a risolvere le difficoltà
riscontrate con i “giovani”. Alla concezione tradizionale di un
sapere disinteressato, de “la cultura per la cultura”, si
contrappone un insieme di tecniche efficaci. Dal momento che si tratta
di aspirare a risultati definiti a priori, la pratica pedagogica non
si definisce più attraverso i contenuti della conoscenza da
trasmettere, ma attraverso obiettivi definiti al di fuori dei
contenuti. I contenuti non valgono più come mezzi per raggiungere gli
obiettivi. In
un’opera in cui tratta di questi obiettivi pedagogici
[1]
, Daniel
Hameline sottolinea : Nel
momento in cui ci si volge alla pedagogia per obiettivi, si parla
sempre più di ambiti di formazione e la formazione iniziale si
ricollega, a questo punto, a quella permanente in termini di gestione.
E’ proprio la formazione in se stessa ad essere concepita in termini
di gestione. Il moderno discorso industriale invalida il discorso
educativo. La nozione di obiettivo trova allora il senso della propria
fortuna. Perché tutti sanno che essa gioca, in una concezione
gestionaria e menageriale, un ruolo determinante alla giunzione stessa
dell’asse dei progetti con quello dei mezzi. (…) Non
c’è dubbio relativamente al fatto che, per Ralph Tyler,
razionalizzare il processo insegnare-apprendere è trasposizione nel
dominio della scuola delle esigenze che si fanno strada nell’universo
delle imprese.. (...) La funzione insegnante può essere resa
« redditizia » attraverso la pedagogia per obiettivi, come
la direzione attraverso obiettivi razionalizzerebbe la produzione.
Questo parallelo è chiaro. Nel
leggere queste righe si può avere la sensazione che l’autore
sviluppi una riflessione critica sugli obiettivi pedagogici. Ma niente
di tutto ciò, perché egli vuole esporre l’efficacia e il valore di
questa “ingresso nella pedagogia”, ed il fatto che essa s’ispiri
ad una concezione gestionaria e “menageriale” dell’educazione
non sembra preoccuparlo in modo particolare dato che, per lui, si
tratta di un guadagno in termini di razionalità. II.
Obiettivi e comportamenti. Il
termine "comportamento" ha invaso il discorso psicologico,
quindi quello pedagogico per imporsi nel linguaggio corrente fino a
fare la propria comparsa nelle pubblicazioni scolastiche! Ora,
questo termine, che si utilizza innocentemente come sinonimo di
condotta, è fonte delle più gravi confusioni. Tanto lo si utilizza
in questo senso vago di “condotta” che esso raramente rappresenta
un problema, ma non bisogna dimenticare, tuttavia, che la parola è
stata introdotta nel linguaggio psicologico per tradurre il termine
inglese "behaviour"
che è ben lungi dall’essere neutro : mettere il termine "comportamento
" al centro della pratica pedagogica è, che lo si voglia o
meno, un fondarla su una certa idea dell’uomo: quella introdotta da Watson
et Piéron e sviluppata attraverso il beaviorismo. Dunque è
essenziale, a nostro parere, il soffermarsi sul termine “comportamento”,
sulle ragioni della sua emergenza e sulla sua funzione teorica,
particolarmente nell’ambito delle pratiche educative che si rifanno
alla “pedagogia per obiettivi”. E’
interessante notare che il termine, esistente dalla fine del
quindicesimo secolo, è stato ripreso da Pascal all’inizio del
ventesimo secolo per tradurre l’inglese "behaviour". Per
sapere se è Dio che ci fa agire, bisogna esaminarsi meglio attraverso
i nostri comportamenti esteriori che non attaraverso le nostre
motivazioni interiori. Al
di là del problema posto da Pascal – se è Dio che ci fa agire - la
distinzione sulla quale si basa Piéron per tradurre il termine
inglese "behaviour" con il francese
"comportement" sta in questa distinzione tra "fuori"
e "dentro" ; di modo che la parola
« comportamento », nella nuova prospettiva fondata sul beaviorismo,
debba essere interpretato
come "sequenza di atti accessibile all’osservazione". L’espressione
“comportamenti esteriori” o “comportamenti osservabili”
diventa pleonastica.. Che
la "pedagogia degli obiettivi » trovi la propria
giustificazione teorica nel beaviorismo, che la nozione di "comportamento",
nel senso in cui viene definita, rappresenti il presupposto implicito
di questo insieme di pratiche pedagogiche e delle procedure di
valutazione ad esse associate, l’attesta tutta la letteratura ad
essa consacrata : nell’opera di Daniel Hameline “Gli
obiettivi pedagogici”, l'autore afferma fino all’ossessione il
legame tra “obiettivi pedagogici” e “comportamenti osservabili”.
E, dopo aver sostenuto che le intenzioni educative resterebbero vaghe,
confuse, in una parola non
operative qualora gli obiettivi non vengano formulati, Hameline
indica le condizioni essenziali per una loro adeguata formulazione ed
afferma in particolare che: Perchè
una intenzione pedagogica tenda a diventare operativa, essa deve
descrivere un’attività del discente identificabile attraverso un
comportamento osservabile. E
davvero qui si profila un modo di considerare l’educazione. Educere
è : produrre un comportamento. E ancora una volta il termine
« comportamento » dovrebbe essere interpretato nel suo
senso più tecnico e più stretto di « comportamento
osservabile », nel senso, cioè, in cui lo intendono le
concezioni beavioriste. Hameline non fa affatto mistero delle scelte
beavioriste di tale orientameno pedagogico. Egli ne farebbe piuttosto
un punto di forza quando afferma che bisogna adottare e attenersi il
più fermamente possibile alla “regola di ferro” della psicologia beaviorista
che prescrive di basarsi sul celebre schema stimolo-risposta,
con l’esclusione di quelle ipotesi per le quali si passa nel campo
dello spirito (la “scatola nera”) e con l’esclusione di quelle
allusioni alla “conoscenza della via mentale” o alla “coscienza
di sé”. La beaviorista si pone, in effetti, nei termini di “psicologia
oggettiva » che si attiene ai fatti, alla loro osservazione e
alla loro misura, mentre una psicologia che ammetta i « doni
della coscienza » è denunciata come psicologia soggettiva,
mondana, peggio ancora se è possibile, filosofica. La
parola d’ordine dell’orientamento pedagogico fondato su questa
psicologia è dunque « vedere per credere ». Ciò che non
può essere osservato non è di alcun interesse nè gode di alcuna
esistenza. L’insegnante deve quindi essere in grado di osservare sui
suoi alunni gli effetti patenti, incontestabili, dei propri
insegnamenti; deve saper dire in anticipo su quale comportamento egli
basi la sua osservazione ed in quale preciso momento e perché egli
continuerebbe a fallire. Perchè
una intenzione pedagogica tenda a divenire operativa, che essa
menzioni le condizioni in cui il comportamento previsto dovrebbe
manifestarsi, e che essa indichi il livello di necessità cui il
discente è tenuto a situarsi e, infine, i criteri che serviranno alla
sua valutazione.
[2]
E’
già stato segnalato che in tale letteratura, il problema più
frequente riguarda la formazione piuttosto che l’insegnamento e che
la « formazione iniziale » viene più spesso concepita
sullo schema della “formazione continua”. Si vede qui molto
chiaramente che la “formazione”, su cui ci si interroga, attiene
molto di più all’apprendimento
che all’educazione, e il rapporto con la psicologia beaviorista
s’impone ancora una volta perchè quasta psicologia propende
essenzialmente sulla pratica al fine di estrapolare le leggi, ed è in
questo modo che essa studia i meccanismi più elementari. Ora,
il meccanismo di base di tutto « l’apprendimento »
in questa accezione ristretta e tecnica, è il riflesso
condizionato come quello studiato da Pavlov. Produrre un
comportamento è dunque far acquisire un riflesso. Altrimenti
definito: produrre stimoli capaci di stimolare la prevista risposta
comportamentale. “Educare”, se si può ancora utilizzare questo
termine, è quindi condizionare. E non c’è alcuna differenza
di fondo tra il far apprendere il latino a Paul e il far apprendere ad
un ratto come orientarsi in un labirinto. Hameline ha un bel dire che
“la regola di ferro del béhaviorisme"
non può essere seguita fino in fondo e che essa vale soprattutto a
titolo di disciplina e di metodologia: tali presupposti hanno
necessariamente delle conseguenze e queste non sono da poco! Essi
obbligano per prima cosa a porsi la questione cruciale : Che
resterà dell’insegnamento quando si sarà proceduto alla serie di
esclusioni e di riduzioni precognizzate dalle teorie dell’apprendimento
che servono da substrato teorico alle riforme che si vogliono imporre
alla scuola? III.
L'insegnamento in briciole. Che
cosa diventa una « intenzione pedagogica » nel momento in
cui viene formulata in termini oggettivi, cioè nel momento in cui
essa descrive un’attività attraverso un comportamento
osservabile ? E’ infatti a tale condizione che un’intenzione
pedagogica potrebbe diventare operativa e meriterebbe di essere presa
sul serio. Non
ci si stupirà quindi se il primo passo, e potrebbe essere il più
importante, stia nel distinguere le intenzioni « vaghe »
da quelle « operative » e le finalità generali dagli
obiettivi specifici. Al di fuori di questo punto di vista, punto di
fuga, ed è a quello che sono consacrati gli stages che permettono di
formarsi alla « pedagogia per obiettivi », c’è ancora
ciò che proporrebbero, in una moltitudine di esercizi sullo “studio
di casi”, le opere, e sono legioni, che trattano della “pedagogia
per obiettivi”.
[3]
Ci
si legge che insegnare è imparare a “produrre degli obiettivi”, a
passare dalle finalità agli obiettivi specifici. E guai ai
recalcitranti! Essi saranno costretti a sottomettersi: I
maestri dovranno essere sistematicamente spinti dalla
loro formazione iniziale alla definizione degli obiettivi.
[4]
E
gli autori ad insorgere contro questa deplorevole abitudine che
avrebbero gli insegnanti « di esplicitare gli obiettivi
perseguiti in termini di contenuti e non in termini di apprendimento
comportamentale”.
[5]
Sembra
evidente che l'I.U.F.M non sia rimasto sordo a questa raccomandazione. Senza
entrare nei dettagli, è importante comunque sottolineare bene la
distinzione fatta da questi autori tra finalità, scopi, obiettivi
generali ed obiettivi specifici e specificare bene anche il senso
della loro gerarchizzazione. Per
utilizzare la metafora militare, è risaputo che il fine ultimo di una
guerra è la vittoria ma che per raggiungere un tale fine bisognerà
previamente raggiungere una moltitudine di obiettivi limitati :
conquistare una certa città, una certa collina, una certa posizione,
occupare una certa trincea, una tale zona di territorio, etc....
Hameline pone, in materia di educazione, certamente, la domanda :
« fin dove specificare gli obiettivi ? ». Ed ha ben
di che inquietarsi per il rischio di atomizzazione che questa
demarcazione di specificazioni comporta. Gli esempi che fa per
illustrarlo dimostrano che egli è ben lungi dal sottovalutare il
pericolo. -
Primo esempio d’intento educativo
[6]
:
"Gustare l’arte di Fra Angelico". E’ questa un’intenzione
operativa? No, risponde Hameline. Ciò non andrebbe al di là di un
obiettivo perchè non c’è descrizione di un comportamento
osservabile. Gustare
è un’attività fisica che può dar luogo a numerosi comportamenti.
Gustare è una “attitudine”.
[7]
E
Hameline a spiegare che un’attitudine non è osservabile, che si
tratta di una costruzione ipotetica inferita a partire dai
comportamenti. Per mostrare che ogni formatore cerca degli indicatori
dell’efficacia della propria azione sui comportamenti e per far
apparire la distinzione tra comportamento e attitudine, Hameline dà
il seguente esempio : Se
un professore di educazione musicale volesse sviluppare nei suoi
allievi di terza, reticenti, un interesse per la musica barocca
francese, potrebbe formulare, almeno in teoria, un obiettivo
comportamentale del tipo : « Al livello della sua classe di
terza, il discente non lascerà il salotto dei suoi genitori quando
questi ultimi ascolteranno il secondo concerto reale di Couperin".
[8]
Lascio
immaginare quanti obiettivi di questo tipo, comportamentali,
specifici, di micro obiettivi, egli dovrebbe mettere insieme per
soddisfare l’intenzione pedagogica : « suscitare un
interesse per la musica barocca francese negli allievi di
Terza ». E che dire allora dell’intenzione “iper-generale”:
“sensibilizzare gli allievi alla musica classica »? Come d’altra
parte del repertorio, nella gerarchia delle intenzioni ? Certo, Hameline riconoscerebbe che i
suoi esempi sono necessariamente un po’ « forzati », ma
non si può che constatare l’ossessione della « osservabilità »
e dunque della misura, della quantificazione, che prende a volte un
carattere francamente comico (…).
[9]
Esempio
apparentemente più serio : "prendere coscienza dei meccanismi
della lingua”. Si tratta di un obiettivo? No, certamente! Per quanto
riguarda i « meccanismi della lingua” passi ancora, ma questa
esecrabile espressione “prendere coscienza”, che restaura la
categoria “coscienza”, è disonorata dalle teorie beavioriste ed
esclude in tutta evidenza una intenzione così formulata dalla lista
dei possibili obiettivi! Hameline precisa d’altraparte che “i
beavioristi hanno cento volte ragione nel chiedere la proibizione di
un verbo come « prendere coscienza » e nota
« che un tale enunciato, muto sul comportamento che si può
osservare circa la valutazione di una tale presa di coscienza »,
non potrebbe dunque operativizzare una tale intenzione. Si
nota ancora una volta fino a che punto la « pedagogia per
obiettivi » sia dipendente dalla teorie beavioriste e fino a che
punto esse si sovrappongano ai suoi ostracismi. Infine,
un obiettivo operativo : "Citare cinque graminacee
alimentari" ? Obiettivo
modesto, ne converrete, ma che, per Hameline, risponde bene all’esigenza
d’operatività richiesta : esso descrive un comportamento
osservabile perche come dice Hameline « un comportamento
lascia delle tracce ". Citare
rappresenta un’attività che non può che manifestarsi
esteriormente. In un momento o in un altro, un osservatore potrà
vedere l’interessato che fa qualcosa. Un “prodotto” (elencato su
un foglio, registrato su un nastro) può essere raccolto e separato
dalla via mentale del produttore.
[10]
E’
proprio questo che importa, per Hameline, ed
è questo che definisce la « seconda esigenza di
operatività » : che un comportamento, un "fare",
possa essere "separato dalla via mentale del produttore"
e staccato dalle sue motivazioni o dalle sue ragioni, delle quali si
vuole tutto ignorare o delle quali, più precisamente, è
prescritto di non sapere niente secondo la famosa teoria
beaviorista della "scatola nera". Che
il termine d’obiettivo aiuti nella funzione di un occultamento
dei fini è ciò che appare nettamente nella gerarchizzazione
stabilita tra finalità, scopi, obiettivi generali
e obiettivi specifici ; i discepoli della
« pedagogia per obiettivi » hanno un bel dire che la loro
pratica invita soltanto a stabilire un legame tra le finalità più
generaliste e gli obiettivi più specifici. Si vede bene, a leggere
tutte queste opere, che si tratta di stabilire una gerarchia al
contrario che va dagli obiettivi più specifici alle finalità più
generali (...). IV.
Il sacrificio dei contenuti. Daniel
Hameline sottolinea a più riprese che « l’introduzione della
pedagogia per obiettivi non è innocente ». Non si può che
essere daccordo con questa affermazione ; bisognerebbe anche dire
che essa e piena di conseguenze e che la più importante è la messa
in discussione dei contenuti disciplinari e dei programmi d’insegnamento
nel senso in cui vengono tradizionalmente concepiti. D'Hainaut ricorda
questa concezione ed indica perchè, secondo lui, essa non può essere
mantenuta : Un
programma è in principio una lista di materie d’insegnamento
accompagnata da « istruzioni metodologiche » che
eventualmente la giustificano e che danno degli indicazioni sul metodo
o sull’approccio che i suoi autori giudicano più pertinente al fine
di insegnare le proprie materie.
[11]
Di
fatto
[12]
questa
idea di un programma che esprima delle materie d’insegnamento come
anche alcuni indicatori metodologici per ciascuna di esse, articolando
le discipline di insegnamento in un insieme coerente, disponendo una
configurazione ed una evoluzione incerte ma, nonostante questo,
relativamente stabili, sembra a ben guardare indissociabile da una
prospettiva d’insegnamento. Ora,
D'Hainaut rilancia, senza altra forma di processo : Questa
concezione è limitata, superata, insoddisfacente da un punto di vista
razionale ed inadeguata sul piano pedagogico. Bisogna sostituirgli la
nozione di "programma pedagogico operazionale" che
comprende non più una lista di materie, ma una lista di attività, di
saper-fare, di competenze, di saper-essere che gli alunni dovrebbero
manifestare al termine dell’insegnamento.
[13]
Questo
passaggio non potrebb’essere più chiaro : esso congeda senza
alcuna giustificazione e con grande brutalità le discipline d’insegnamento,
allo stesso tempo dei saperi che esse portano con sè, per sostituirle
con dei saper-fare e dei saper-essere. Si
può osservare che ogni volta che si tirano in ballo i programmi e le
discipline d’insegnamento, è per devalorizzare i saperi a vantaggio
dei saper-fare e dei saper-essere. C’è una costante: il
respingimento regolarmente indirizzato all’insegnamento
« tradizionale ». E’ di troppo valorizzare i saperi in
rapporto al saper-fare: allorchè i discepoli di questa pretesa
modernità pedagogica si limitano ai comportamenti osservabili, si
attengono per l’essenziale al saper-fare e al saper-essere. La “pedagogia
per obiettivi”, nello stesso momento in cui valorizza una certa
« ragione pragmatica », manifesta un notevole disprezzo
per il sapere. Essa si da’, con tutta la propria intensità, all’antagonismo
tra tecnica e cultura Gli
“iniziati” avranno riconosciuto in questa terminologia uno dei
topici della « pedagogia moderna »: il famoso trittico
« saper/saper-fare/saper-essere » che ricopre i domini
« cognitivo/psicomotore/affettivo ». I programmi redatti
recentemente, in particolare nell’insegnamento tecnico, lo sono
stati secondo queste categorie. Si parla allora di “referenzialità”.
E questo termine ben corrisponde a ciò che D'Hainaut chiamava di sua
voce « un programma d’obiettivi operativi » o, come egli
dice ancora, “una guida più operativa per l’azione
pedagogica e la sua valutazione” della quale, secondo lui, molti
insegnanti avrebbero la necessità.
[14]
Si
notano bene allora i termini dell’opposizione così come i loro
presupposti: -
centrare l’insegnamento sui contenuti è mettere in primo piano i
saperi e partire dalla domanda inaugurale : “quali saperi
trasmettere ?” Tale domanda ha per posta la cultura ed è nella
cultura che essa può trovare una risposta -
entrare nella pedagogia per obiettivi è effettivamente, e come si è
visto, procedere ad un “capovolgimento ». E’ analogamente
procedere ad un occultamento. E’ un non più domandarsi ciò che vale
di essere trasmesso per non guardare più a ciò che dà la
certezza di trasmettere qualcosa : è un non considerare altro
più che gli effetti pragmatici dell’educazione.
Questi effetti bisogna osservarli e il beaviorismo si ostina a
ripetere che non si può osservare altro che comportamenti ! Ci
si mostrerà tanto più soddisfatti quanto più si sarà potuto
prevedere in anticipo quali comportamenti dovrebbero essere osservati
al termine della « sequenza di apprendimento ».
Sarà questo, in effetti, un riscontro di
« scientificità » ed è uno dei grandi principi della
tecnologia degli obiettivi : se si verifica che un dato
comportamento è prodotto conformemente ad un dato obiettivo, o
conformemente modificato rispetto ad esso, si può concludere la
realtà e l’efficacia dell’azione educativa. Ciò
va da sé senza dire che, in una tale prospettiva, interessa solo la
produzione degli obiettivi o, nel migliore dei casi, essa importa più
della considerazione sui fini, e che non si tratta più quindi di una
questione di cultura Bisogna
partire dal principio che ogni insegnante è attaccato alla disciplina
che insegna
[15]
,
è penetrato del suo valore culturale; bisogna essere convinti inoltre
che tutte le discipline insegnate in un edificio scolastico
[16]
fanno
parte di un’eredità comune che vale la pena trasmettere, che è in
questo la responsabilità principale dell’insegnante perché in ciò
è la sua responsabilità verso il processo di umanizzazione durante
il quale l’uomo educa l’uomo. Dovrebbe essere chiaro che l’umanità
dell’uomo non andrebbe ridotta a meri comportamenti: vedremo che è
tutto il contrario. E’ attraverso l’assimilare i saperi costituiti
dagli uomini che lo hanno preceduto che l’uomo può essere inserito
nell’ordine dell’umanità. Ho detto bene : saperi. E non non
saper-fare e ancor meno saper-essere ! Ed
è su questo preciso aspetto che bisogna denunciare la grande
mistificazione delle « scienze dell’educazione », della
« pedagogia per obiettivi » e delle sue altre filiazioni
[17]
pedagogiche.
Nel momento in cui esse pretendono di centrare i propri confini sui
“discenti, nel momento in cui l’insegnamento tradizionale è
accusato di preoccuparsi essenzialmente dei saperi da trasmettere, del
pregiudizio del discente, ci si rende conto che la « pedagogia
per obiettivi » si preoccupa in realtà delle
« competenze » e delle « prestazioni » che il
“discente” dovrebbe sviluppare per adattarsi ad alla condizione
data di società. Questo passaggio di V. & G. De Landsheere è
esemplare della demarcazione : E’
importante insegnare i comportamenti, i modi di pensare, di sentire e
di agire che hanno un valore nella nostra società e aiutano l’individuo
a divenirne un membro effettivo. Quali competenze essa esige dai suoi
membri? Quali sono, in particolare, le sue caratteristiche per quanto
riguarda la salute, la famiglia, le leggi, il lavoro, la religione e
gli affari civici? La posizione è quindi utilitaristica, funzonale.
Essa è compenetrata con una considerazione metodologica volta ad
evitare lo iato tra la scuola e la vita. Per quanto possibile, l’insegnamento
dovrà essere pianificato in modo tale che le tappe iniziali dell’apprendimento
siano superate attraverso la scuola, ma che tale apprendimento
continui e si rafforzi al di fuori della scuola.
[18]
Punto
di vista utilitaristico : eccola
dunque, la famosa domanda "A che cosa si salda il tutto?".
Qualche appunto: di quale “utilità” si tratta dunque? Di quella
del “discente”, come si pretende quasi sempre, o di quella della
società? Si dirà senza dubbio che si tratta della stessa cosa? Ci
sarebbe dunque tra i due un’armonia prestabilita, e di quale
società si tratterebbe? La domanda è lecita? Prendiamo allora l’esempio
di una società schiavista o in cui regni l’apartheid ! La
funzione essenzialmente adattativa attribuita all’insegnamento
[19]
impone
quindi di formare ciascuno alla funzione che andrà a svolgere nella
società, per suo sommo bene, va da sé: il padrone a comandare, lo
schiavo a obbedire. E’ senza dubbio ciò che si può definire “l’apertura
della scuola alla vita” ! Forse
si dirà che tale obiezione è fuori luogo, che le società di cui si
parla sono democratiche e che, in tali società, non ci sono padroni e
schiavi. Se
ci si limita al passaggio citato, questo è lungi dall’essere
evidente. E’ certamente il caso della "nostra
società », ma questa formulazione estrapolata dal suo contesto
significa che non importa quale società. Inoltre uno schiavo è un
“membro effettivo” della società in cui vive, ha un certo rango
con un certo statuto, è indispensabile al suo funzionamento! Infine,
il modo che hanno gli autori di parlare di “democrazia” si presta,
quantomeno, ad una discussione. Secondo
loro
[20]
,
l'educazione non sarebbe che una questione di cultura, allo stesso
titolo del resto delle filosofie e delle ideologie educative ; da
cui questa idea che le finalità educative non si deducano da una
verità razionale e universale dell’uomo ma dalle necessità dell’azione,
dalla contingenza. Si vede ancora di quale razionalità
[21]
s'ammantino
le "scienze dell’educazione". Si vede bene che tutta
questa concezione dell’educazione si fonda sul “relativismo
culturale” e che ci sono, da questo punto di vista, tanti valori e
tante norme educative quante sono le società e che, dunque, non c’è
verità in materia educativa. Tale
relativismo lo si ritrova in seno alla medesima società sotto forma
di « pluralismo » costantemente presupposto, come se
fosse indiscutibile che una società democratica sia
« pluralista »
[22]
e
"pragmatica", come se si dovesse rinunciare, senza
discussione, a trovare una qualsivoglia universalità nei principi
educativi. L’umanità non è mai posta come un possibile prodotto
della ragione, ma soltanto come un “accordo spontaneo” che le
società tradizionali realizzerebbero ma che le società moderne e
democratiche, pluraliste e pragmatiche, non riuscirebbero più a
trovare. Ciò che caratterizza queste società, secondo V. & G. De
Landsheere, notevolmente, è che « l’umanità spontanea, a
proposito degli scopi più o meno impliciti dell’educazione, è
scomparsa.” In
questo tipo di “democrazie” è quindi necessario esplicitare gli
scopi dell’educazione sotto forma di obiettivi univoci al fine di
concordarle, dato che nessuno di essi può essere fondato su
ragione. In mancanza della possibilità di intendersi sui fini
dell’educazione e sui valori educativi, resterebbero da chiarire gli
obiettivi e resterebbe da concordarli.
[23]
Tanto
più si è nell’ordine dei fini quanto più si sarà in quello dell’equivoco,
del « filosofico »
[24]
che
si confonde, del resto, con l’ideologico. Si tratterà allora di
aggrapparsi alla tecnologia degli obiettivi come ad una zattera di
salvataggio, al fine di trovare l’univocità e la trasparenza, di
ritrovare l’unità perduta.
[25]
Da
cui un curioso paradosso che V. & G. De Landsheere non mancano
peraltro di sottolineare : quanto più i fini che si vogliono
realizzare saranno plurali e relativi, tanto più le tecniche di
produzione degli obiettivi saranno rigorose ed esigenti, a vedere
pignole nella loro formalizzazione. Il modo in cui essi spiegano tale
bizzarria è essa stessa piuttosto “bizzarra”:
La
maggior parte delle scienze attraversa quattro stadi : la magia,
l’empirismo artigianale, il positivismo e, alla fine, il
relativismo. Si
aspira ancora ad una delizia d’argomentazione ! Al posto della
quale, gli autori rincarano in seguito la dose su questo relativismo
ibrido di positivismo che marcherebbe le “scienze dell’educazione”:
Attualmente,
il relativismo pedagogico è affetto sul piano filosofico, teorico, ma
la pratica rientra ancora nella
forma positivistica. Si
può quindi intuire, senza approvare quel poco che tale
« spiegazione » può sottointendere, che in questo spirito
la « pedagogia per obiettivi », che si ritiene essere
entrata nella « fase positiva », rappresenta un notevole
progresso rispetto alla « pedagogia tradizionale » che
resta inchiodata allo stadio di « empirismo artigianale ».
A questo “progresso” corrisponderebbe un altro progresso, teorico
quello, che consisterebbe nel passaggio dal dogmatismo al relativismo
pedagogico. Non
era affatto inutile mettere in piena luce questi presupposti dal
momento che essi hanno la funzione di giustificare una pedagogia
« centrata sul discente ». Daniel Hameline oppone, in
questa prospettiva, due sistemi, l’uno in cui il discente viene
assoggettato, l’altro in cui esso è soggetto della sua formazione: Il
"soggetto"può essere "l'assoggettato" di un
sistema predeterminato in cui egli deve assumere il posto assegnatogli
senza contrattare la propria adesione. Può essere anche l’individuo,
nel momento in cui è il promotore della sua stessa azione, l’”acquirente”
della sua propria formazione: contrattazione, cooperazione,
coproduzione delle sue conoscenze e delle sue conpetenze, delle
conoscenze e delle competenze altrui.
[26]
E
Hameline ad indicare che la "pedagogia per obiettivi", o
come egli dice, "l'inserimento attraverso gli obiettivi",
propone il discente come il « luogo » principale della
transazione perchè : è
lui che integra, è lui che impara, è lui che si determina. E’
quindi lui che si costruisce il congegno.
[27]
Che
non si equivochi! Non è nelle mie intenzioni fare un elogio della “pedagogia
per obiettivi”. La citazione deve semplicemente aiutare a capire
come ci si è potuti far incantare da questo tipo di argomentazioni e
come una tale « pedagogia » manipoli in modo oltraggioso
gli insuccessi e l’angoscia degli insegnati. Non
è facile stimolare l’interesse degli alunni.
[28]
Sono io stesso arrivato, come tutti gli insegnanti, a deplorare la mancanza
d’interesse dei miei allievi per il problema sollevato, o per il
testo studiato. Mi sono spesso augurato che essi adottassero un’atteggiamento
più attivo, più “partecipativo”, che s’inventassero di più,
che contribuissero attraverso le loro domande, le loro obiezioni, i
loro interventi, al progresso della riflessione comune e non ho mai
rinunciato ad ottenere questo surplus di partecipazione. Ma sono
arrivato, nei momenti di scoraggiamento, in quei momenti in cui ho
avuto la voglia di imporre una direzione senza ottenere la minima
adesione, a domandarmi se non fosse un errore il non avere esplicitato
gli obiettivi e averli contrattati. Reazione di cattiva coscienza,
frequente tra gli insegnanti (“Ho effettivamente fatto tutto ciò
che dovevo fare, non sono io interamente responsabile del fallimento?”),
che contribuisce senza dubbio a spiegare il successo delle modalità
pedagogiche più contestabili, quelle che offrono ricette in
prêt-à-penser pedagogico. L'argomento
di Daniel Hameline non può quindi essere sostenuto: esso poggia,
ancora una volta, su una confusione tra « insegnamento e
« formazione ». E di nuovo il termine di “formazione”
dovrebbe essere interpretato nel suo senso più utilitaristico. Se si
domanda al bambino di contrattare sugli insegnamenti che vuole
ricevere
[29]
, è
suo appannaggio che egli si scelga quelli che gli permetterebbero di
realizzarsi pienamente ; senza dubbio lui (ed i suoi genitori)
opterebbero per quelli che si rappresentano come i più utili
[30]
. Che ne
sarebbe allora del Latino, del Greco, della Filosofia? Questa
« pedagogia » pretenziosamente « centrata sul
discente » suppone da lui delle capacità di scelta ed un
discernimento che da soli possano giustificare l’insegnamento in
questione. In realtà, l’argomento invocato non vale che come un
alibi: una tale pedagogia si limita, infatti, ad adattare l’individuo
ai bisogni della società. Il proposito di Louis D'Hainaut
[31]
, quando
egli si propone di precisare il risultato atteso dell’azione
educativa, è perfettamente chiaro : Si
procederà ad un’analisi dei ruoli, delle funzioni e degli stadi che
dovranno poter colmare il discente. Questa analisi si accompagnerà ad
una ricerca delle situazioni in cui egli dovrà giocare tali ruoli,
colmare queste funzioni e raggiungere questi stadi, Bisognerà,
analogamente, in questa occasione, determinare le attitudini
necessarie e desiderabili che il discente dovrà poter manifestare ed
i valori che esse sottointendono. E
si osa parlare di una pedagogia centrata sul discente ! Allo
stesso modo, quando V. & G. De Landsheere approcciano a questo
aspetto, essi citano Durkheim e tale citazione dimostra fino a che
punto la pedagogia in questione sia centrata sul discente : L'uomo
che deve realizzare l’educaziane è noi, non è l’uomo astratto,
ideale, una perfezione umana vista attraverso una filosofia eterna ma l'uomo
quale la società vuole egli sia
[32]
ed
essa (ndt: la società) vuole che egli la voglia
tale da rivendicarla come appartenente alla propria economia
interiore.
[33]
Come
a dir meglio che educare è condizionare e che, relativamente ad una
tale impresa, il beaviorismo sarebbe la tecnica più indicata ?
(...) IV.
Un anti-umanesimo desolante. La
conseguenza, si è visto, è in uno svilimento dei saperi a vantaggio
dei saper fare e dei saper essere. Dove questa trilogia, vera “tartina
alla crema” delle “scienze dell’educazione”, è molto
opinabile per confessione
dello stesso Daniel Hameline in quanto, secondo lui, troppo
profondamente essa soffre di una "frattura ereditata dalla
vecchia psicologia delle facoltà dell’anima » e ricondurrebbe
“vergognosamente” alla distinzione, bollata “col conio del buon
senso” tra il “sentire”, il “conoscere” e il “fare”.
Non discuteremo
questa critica “Hameliniana” della trilogia, sottolineando solo
che gli si potrebbero rivolgere ben altri rimproveri, ci stupiremo
invece dell’argomentazione attraverso cui Hameline sostiene proprio
ciò che, per di più, denuncia : L'insieme
della letteratura sugli obiettivi avvalora questa trilogia. Non posso
allora che proporla alla sagacità critica del lettore come strumento
di cui è insigne la mediocrità, evidente la saturazione ideologica,
ma che funziona. Altrimenti
detto: più va male meglio è, per l’unica ragione che ciò
funziona !! Siamo ai
miserabili sofismi pragmatici ed alla concezione della verità cui ci
viene richiesto di aderire: “ è vero ciò che funziona”! Qualche
domanda, tuttavia : funziona davvero ? Come funziona ?
Perchè funziona ? E magari, soprattutto, per chi funziona? E,
per finire, la domanda di fondo : si può sacrificare
così la verità all’efficacia, l’efficacia e l’utilità
potrebbero riposare in blocco sull’errore ? Il
dibattito è molto antico: è quello degli oratori e dei sofisti
contro Socrate. Il discorso di Hameline, di D'Hainaut, dei De
Landsheere e compagnia è lo stesso che fa Callicrate quado raccomanda
a Socrate di lasciare da parte la filosofia, di imparare la ricerca
della verità a vantaggio di ciò che funziona. Credimi,
mio buon amico, rinuncia alle tue arguzie, coltiva la bella scienza
degli affari, esercita te stesso a ciò che ti darà la reputazione di
un uomo abile. (...)
Prendi a modello le genti che hanno beni, reputazione e mille
altri vantaggi .
[34]
In
materia d’insegnamento bisogna quindi fare la scelta di Callicrate o
quella di Socrate ? Certo, in tutte queste opere nessuno tra i
discepoli della “pedagogia per obiettivi” fa riferimento a
Platone, Qualcuno, magari, fa riferimento a Rosseau ma ciò che dice
ci farebbe piuttosto dubitare della sua conoscenza dell’autore.
Altri si arrischiano a citare Kant, ignorando o fingendo di ignorare
che la dottrina kantiana dell’educazione rappresenta la confutazione
più eclatante delle pratiche degli obiettivi
[35]
. Nel
Gorgia, analogamente e a proposito della retorica, Platone
rifiuta in anticipo e radicalmente questa distinzione oziosa tra
saperi, saper fare e saper essere. A Gorgia, che pretendeva non si
potesse imputare alla retorica il cattivo uso che di essa veniva fatto
da alcuni oratori, Socrate obietta questo principio generale:
Colui
che ha imparato un arte non è tale lo fa la conoscenza di quest’
arte ? Chi ha imparato la carpenteria è carpentiere- oppure no?
Chi ha imparato la musica non è egli un musicista ?
[36]
Che
bisogna dunque imparare ?
La musica o ad essere musicista? Imparare la musica: ciò non
conferisce necessariamente una capacità musicale ? In altre
parole: si può “fare un musicista” invece che insegnandogli la
musica e a suonare uno strumento agendo, per esempio, sul “comportamento”
dell’individuo, modellando un ipotetico “essere musicista”?
Domanda certamente bislacca ma che ne richiama furiosamente un’altra,
con la quale qualche “pedagogista” ispirato pretende di dimostrare
che educare non è ciò che uno crede che sia : "Che
bisogna sapere per far imparare il latino a Paul" ? La
ragione, nonchè il più solido buonsenso, suggerirebbero che sia
assolutamente necessario conoscere il latino e che è a tale
condizione che lo si può insegnare a Paul, a Pierre e a chicchessia. Risposta
inaccettabile
per i tenenti della modernità pedagogica ! Risposta rinviata
ad una « pedagogia tradizionale », sorpassata perchè
centrata sui contenuti e ignorante della situazione di Paul, delle sue
prospettive, delle sue aspettative, delle sue difficoltà etc..., di
modo che il latino, in questo affare, diventa un aspetto relativo. E
non ci si trarrà dall’imbarazzo concedendo che la conoscenza di
Paul può non essere effettivamente inutile. L’approccio
sistemico, tanto potente in Nord America e che governa le
« scienze dell’educazione », interdice che si approcci
alla questione educativa con una tale ingenuità. La "teoria dei
sistemi » comanda, al contrario, che l’atto di apprendere sia
studiato come « il sotto-sistema insegnare-apprendere » di
un sistema più vasto, o di un intrecciarsi di sistemi che fanno
intervenire una folla di attori che citerò a caso e con disordine: il
legislatore, il ministro, i genitori degli alunni e le loro
associazioni, i poteri economici, gli ispettori, la famiglia, i
compagni, i sindacati… Non che abbia finito di citare tutti gli
attori chiamati ad intervenire nel processo educativo e sull’atto di
insegnare il latino a Paul: rinvio gli interessati all’organigrammma
che si trova nell’opera di Hameline già citata, p 61. La
teoria dei sistemi è piena di questi organigrammi a schematizzare le
relazioni tra gli elementi del sistema con frecce in tutte le
direzioni che, oltre a rendere confuse le tabelle, dispensano tutto lo
sforzo di concettualizzazione relativamente a tali relazioni col
pretesto « che un buono schema varrebbe più di un lungo
discorso ». La
moltiplicazione degli organigrammi, col tipo di formalizzazione che li
caratterizzano, conferisce certo a queste opere una piccola
aria “scientifica” che non dispiace ai
discepoli
dell’approccio
sistemico e delle pretese « scienze
dell’educazione ».
Inoltre, l’esplicitazione di queste relazioni richiede la
partecipazione di un notevole numero di specialisti : del
sociologo, dello psicologo, dello psico-pedagologo, del socio-pedagologo,
dello statistico..., sintesi d’insieme delle discipline chiamate a
contribuire all’esplicitazione del sotto-sistema
insegnare-apprendere e a costruire le “scienze dell’educazione”.
Ma,
cribbio, chi
dunque farà imparare il latino a Paul ?
Di
che si tratta infondo ? E verso quale tipo di risposta ci avvia,
molto dolcemente, l’approccio considerato? Si tratta di prender
atto, in particolare, dello stato d’animo di Paul, della sua “psicologia”,
al fine di interrogarsi sul senso che potrebbe avere la sua richiesta
o il suo rifiuto del latino, di considerare il suo ambiente
sociologico per esaminare le influenze che si esercitano su di lui a
proposito del latino. Avrà mai egli bisogno del latino? I suoi
genitori hanno imparato il latino ? A dirla con Brel: è per
essere farmacista (perchè papà non lo era) che il giovane Paul
potrebbe ritrovarsi sui banchi di scuola a declinare "rosa-rosa-rosae"
o, per citare la canzone, ad "imparare nella sua infanzia tuttò
ciò che non gli servirà”? Sta dunque a Paul di deciderlo, o
bisogna contrattarlo con lui? La
risposta è più semplice ed il sociologo come l’economista faranno
presto ad illuminarci : Paul imparerà il latino se fa parte
"des Jules et des Prosper qui f'ront la France de demain
[37]
";
altrimenti che bisogno avrebbe mai di imparare il latino? Siamo
pragmatici. E siccome adesso non ce ne sono più tanti di Jules e di
Prosper, e dato che la « Francia di domani » è molto
difficile ad immaginarsi, egli non ha più bisogno di imparare il
latino! Se la società di questo fine secolo decide che non è più
utile imparare il latino, questa disciplina potrà anche sparire dalle
materie d’insegnamento. E questa scomparsa sarà tanto più indolore
e discreta tanto più ci si sarà abituati a non preoccuparsi più di
tanto dei contenuti disciplinari, quanto piuttosto a “formare l’utile”.
Era un bene per Jules e per Prosper imparare il latino, il greco, la
filosofia e la storia, imparare la matematica per motivi altri che non
la vita quotidiana. Oggi bisogna essere pragmatici, e non perdere più
tempo nello “svago del pensiero”.
[38]
Che
non si voglia che voltare le spalle al sapere e alla cultura, che
dichiarare obsoleti le “umanità”, e l’umanesimo che ne è
inseparabile, in nome di una qualunque « cultura
tecnologica » scelta a sostituirli, non è perdere qualcosa dell’uomo,
perdere il senso dell’umano? Finzione
storica ? Prospettiva apocalittica ed irrealistica ? Come
potrà la Francia, paese di grande tradizione culturale, lasciarsi
trascinare verso tali concezioni e verso tale politica scolastica, in
un tale oblio di se stessa? Ci si potrà rassicurare quanto vogliamo,
ma bisogna dire che un tale processo è già in cammino e che le
prospettive qui evocate e denunciate non rimandano ad un avvenire
lontano ed ipotetico ma un avvenire imminente e certo, se non si fa
niente per evitarlo ! Una
concezione autenticamente democratica ed umanista dell’insegnamento
obbliga a dire che bisogna far imparare il latino al Paul dal momento
che questo lavoro e questa cultura collaborano ad una promozione del
suo essere
[39]
;
non sta alla scuola, nè ad alcun’altra istanza esterna di dire ciò
che Paul dev’essere, ma è alla scuola che spetta in primo luogo il
compito di dare a Paul i mezzi per essere tutto ciò che può essere,
ed è precisamente questo che si chiama educare.
E’ asservire un uomo l’intervenire
direttamente sul suo essere usando dei metodi che sono necessariamente
delle tecniche di condizionamento. Le tecniche d’apprendimento
fondate sul beaviorismo degradano l’insegnamento ad impresa d’asservimento.
I
beavioristi s’indignano, ben inteso, di una tale accusa, anche i
più virulenti, anche i più settari. Ma basta pensare alle loro
concezioni educative, a ciò che essi preconizzano in materia di
educazione ed ai loro metodi per sapere quale peso dare alle loro
indignate proteste. In
primo luogo i beavioristi non si sono mai limitati ai loro studi di
psicologia sperimentale, ma si sono sempre chiamati in ballo, e oggi
più che mai, nel riformare l’insegnamento. Ainsi, Skinner, uno
dei capofila del beaviorismo contemporaneo e specialista dell’apprendimento,
dichiara senza ambiguità : Ciò
che sappiamo dei meccanismi dell’apprendimento, alla luce dei lavori
di laboratorio, dovrebbe spingerci ad agganciarci alle realtà della
lezione e a cambiarle radicalmente. L’educazione scolastica è senza
dubbio il ramo più importante della tecnologia scientifica. Essa
influenza profondamente la vita di ciascuno. Noi non possiamo più
tollerare che le condizioni sfavorevoli di fatto siano da ostacolo
ai progressi straordinari oggi realizzabili. Bisogna cambiare la
situazione di fatto.
[40]
E’
quindi proprio all’insegnamento che i beavioristi intendono
agganciarsi e che essi si propongono di cambiare radicalmente in nome
di una tecnologia scientifica e dei meccanismi dell’apprendimento.
Ora, Skinner, che ha studiato questi meccanismi sugli animali, si
propone, puramente e semplicemente di applicarli all’uomo : I
nuovi metodi volti a modellare e a mantenere in vigore l’apprendimento
rappresentano un progresso considerevole sui precedenti classici, in
uso presso gli addestratori di animali.
[41]
Ci
si potrebbe certo indignare di trovare tali proposte in un’opera
consacrata all’insegnamento, ma è Skinner a stupirsi che si possa
contestare questo modo di trattare il bambino come se fosse un
animale. Egli si difende dicendo di non pretendere che una cosa vera
per un piccione lo sia necessariamente anche per l’uomo. Riconosce
che ci sono enormi differenze tra il comportamento dell’uomo e
quello del piccione, ma giustifica del resto la sua pratica ponendo l’accento
su “eclatanti somiglianze nei meccanismi di base del comportamento”.
[42]
C’è
davvero un antagonismo sostanziale ed irriducibile tra una tale
concezione e un approccio umanista all’educazione. Concediamo anche
a Skinner che ci siano delle somiglianze nei meccanismi di base del
comportamento e che la sperimentazione sui piccioni o sui ratti da
laboratorio
[43]
permetta
di mettere in evidenza interessanti analogie, resta comunque il fatto
che mai l’educazione si potrà analizzare in termini di
comportamenti. Mai le domande poste da Skinner nel suo libro, potranno
essere poste da un educatore degno di questo nome e che sappia ciò
che vuol dire educare: Quale
comportamento si vuole installare ? Di quali rafforzamenti si
dispone? Quali condotte già esistenti sono utilizzabili per avviare
un programma di apprendimento progressivo che avvii, per
approssimazioni successive, alla forma finale del comportamento
auspicato? Comme si devono programmare i rafforzamenti per mantenere
il più efficacemente possibile il comportamento? E
qui non si tratta più dell’addestramento dell’animale, non si
tratta più di trovare « un campo di applicazione per la
produzione di animali addestrati a fini commerciali ». Skinner d’altra
parte dice che questi metodi sono stati utilizzati per dimostrazioni
il cui interesse travalica molto largamente il dominio specializzato
dello psicologo dell’apprendimento
[44]
, e
pretende che non sia affatto “difficile immaginare delle contingenze
di rafforzamento complesse che potrebbero produrre forme differenti di
comportamento sociale”.
[45]
Egli
afferma, d’altra parte, che i problemi che sono state poste
dovrebbero esserlo « quando si profila il problema del
bambino che si avvicina alla scuola primaria." La domanda non
è sapere se il condizionamento così concepito possa essere efficace
e se le conoscenze acquisite sui processi di apprendimento, e che
derivano dalle ricerche su animali, « rimangano
stupefacentemente applicabili al soggetto umano »; la domanda è
sapere se una tale pratica sia legittima, se sia umanamente, e
non solo tecnicamente, pertinente porsi la questione dell’educazione
in termini di comportamento e proporre dell’insegnamento questo
genere di definizione che Skinner non esita a dare:
Insegnare
qualcosa è invitare l’allievo ad impegnarsi in nuove forme di
comportamento chiaramente definite, in occasioni anch’esse
chiaramente definite. Non è sufficiente conoscere ciò che vogliamo
insegnare. La nostra preoccupazione essenziale è che il comportamento
appropriato si manifesti a colpo sicuro nel momento giusto, problema
che, in un’ottica tradizionale, dipenderà dalla motivazione.
[46]
La
prospettiva che Skinner dichiara innovativa, ma che in realtà risale
all’inizio del secolo ed ai primi lavori beavioristi, esclude
radicalmente ogni riferimento ai contenuti della conoscenza e dunque
ai desideri, ai motivi, alle ragioni : il beaviorismo interdice
assolutamente di aprire la famosa “scatola nera”, vaso di
Pandora da cui rischierebbero di fuggire tutti i fatti della
coscienza, residui di una soggettività vilipesa! Così bisogna
imperativamente tradurre in comportamenti tutto ciò che potrebbe
rinviare alla coscienza e alla soggettività, direttamente o
indirettamente, e Skinner si affida per questo alla “scienza
trionfante” che permetterebbe di sostituire alle formulazioni
tradizionali questa nuova prospettiva: Il
pensiero umano deve definirsi in termini di comportamenti reali, che
meritano di essere trattati per se stessi come gli obiettivi concreti
dell’educazione.
[47]
Non
è sorprendente allora che il pensiero sia definito in termini di “comportamenti”,
allo stesso modo del linguaggio o della comunicazione, come del resto
delle discipline d’insegnamento tradizionali, come l’ortografia o
l’aritmetica. Insegnare
l’ortografia, è semplicemente modellare delle forme di
comportamento complesso.
[48]
Skinner
sottopone allo stesso trattamento la storia, la geografia perchè,
quale che sia la disciplina interessata, la definizione che egli dà
dell’insegnamento non cambia : Si
tratta sempre di suscitare delle forme di comportamento specifico e di
guidarle sotto il controllo di stimoli specifici.
[49]
Forse
si penserà che noi lo abbiamo citato troppo, che gli abbiamo concesso
già troppo mettendoci al suo livello ed entrando in questa prospettva
quando sarebbe stato sufficiente dargli il benservito dichiarandola
improcedibile. Certo, ma è importante capire dove la “pedagogia per
obiettivi” affonda le sue radici, non foss’altro che per non
lasciarsi mistificare dalle giustificazioni che avanza. Certi
insegnanti potrebbero essere stuzzicati dalla prospettiva di vedere l’antica
“arte di istruire” trasformata in una “scienza
comportamentale » : è senza dubbio più
impressionante ! Altri si sentono respinti da una tale “metamorfosi”
ma non è talvolta senza una punta di cattiva coscienza che lo
imputano ad una propria incapacità ad « adattarsi ai progressi
della scienza » . Tale argomento non deve impressionare: quasta
“scientificità” di cui i pedagogisti “new age” si
pavoneggiano non è nientaltro che una bluff. Non bisogna lasciarsi
trascinare sul terreno delle raziocinazioni tecniche del quale essi
hanno fatto una specialità e che essi acconciano di una fraseologia
pedante. Tutte
queste opere si accordano sulla pratica, tutte si richiamano al
beaviorismo e alla scienza comportamentale, tutte ammettono gli stessi
presupposti anche se possono divergere su certi aspetti di dettaglio.
Si respingerà, per esempio, la brutalità di Skinner nell’esposizione
delle sue intenzioni e nella sua denuncia della « pedagogia
tradizionale » ; in altre parole, (si respingerà) di
svelare il segreto quando sarebbe invece necessario smorzare lo choc
provocato da queste « nuove ricerche » al fine di non “far
perdere la fiducia nel mestiere dell’educatore”, demagogicamente
qualificato come “uno dei più antichi e dei più difficili di tutti
i tempi”. Ma resta che, se si conviene sull’attutire questo shoc,
è solo per « inserire dolcemente la scienza comportamentale
nella pratica scolastica tradizionale ». E’
tanto più indispensabile risalire alle fonti e smascherare i
presupposti di queste “scienze dell’educazione”
[50]
quanto
più esse si sforzano di rabbonire, di sedurre un nuovo pubblico, di
reclutare nuovi discepoli e di far aderire i recalcitranti. Ora,
bisogna dirlo chiaramente: con questa ottica non c’è compromesso
possibile ! Fare della pedagogia una « scienza
comportamentale » è un fraintendere totalmente la natura dell’uomo
e l’educazione. La “pedagogia per obiettivi” è colpevole di un
enorme controsenso sull’uomo. Certo,
nell’uomo c’è del « comportamentale » cioè del
meccanico e dell’istintivo, e che sia possibile agire sul
meccanismo, programmare a partire da una sequenza di stimoli una serie
di risposte, lo attestano tutte le tecniche totalitarie di
condizionamento. Sarebbe tuttavia un errore ridurre l’uomo a
ciò che egli ha in comune con l’animale ; sarebbe inoltre una colpa
fare dell’educazione una tecnica di condizionamento. Sarebbe
infine il colmo della ipocrisia commettere tale errore e tale
colpa in nome dell’uomo e della democrazia. Decisamente,
non si può educare se non facendo conto sull’intelligenza e sulla
ragione di coloro che si educano, “formando il loro giudizio”,
cioè istruendoli come aveva sì ben visto Montaigne, e permettendo
loro di giudicare bene « il valore delle cose che dovranno porsi
come fini », come diceva Kant. Non
c’è compromesso possibile con la « pedagogia per
obiettivi » e con queste tecniche comportamentali, perchè non
può esserci educazione che al di là del comportamento, al punto
che definirei volentieri l’educazione come ciò che permette d’elevare
l’uomo dai comportamenti alla condotta. V.
Da una pedagogia all’altra : la continuità nel cambiamento In
fin dei conti non è affatto difficile fare il processo alla
« pedagogia per obiettivi » perchè, a meno di non
rivolgersi ai convertiti, è sufficiente esporne i principi essenziali
e riportarne le dichiarazioni principali per suscitare il rifiuto
della maggior parte degli insegnanti o degli educatori. E’ dire a
che punto i primi teorici di questa pedagogia, in particolare persone
come Skinner o come Tyler
[51]
, siano
poco « raccomandabili » : il loro francese brutale, o
il loro cinismo all’americana rende le loro proposte oltraggiose
nell’istante stesso in cui ne chiarisce i presupposti. Infatti, e
non è un paradosso, i successi di questa pedagogia attengono per l’essenziale
all’ignoranza delle sue fonti e dei suoi principi. Non sarebbe
quindi un consiglio eccessivo di leggere i testi fondanti e informarsi
[52]
. I
« pedagogisti » di oggi si vogliono più sottili di quelli
del passato e si adoperano a tarare o a nascondere i legami giudicati
senza dubbio troppo compromettenti, E’ curioso, in effetti, che i
“ricercatori in scienze dell’educazione” assortiscano le loro
porposte con una sequenza di dinieghi al fine, verosimilmente, di
mettersi al riparo da un certo numero di attacchi e particolarmente
dai rimproveri che noi andiamo a rivolgere alla “pedagogia per
obiettivi”: sbriciolamento dell’insegnamento, sacrificio dei
contenuti e anti-umanesimo in particolare. Così
l’opera di Philippe Meirieu e Michel Develay
[53]
dal
titolo evocatore : Emile, reviens vite...ils sont devenus fous,
nella quale gli autori, rispondendo al rimprovero di
« pedagogismo », formulano queste dichiarazioni di
principio sul ruolo essenziale della scuola e sul valore dell’istituzione
scolastica
[54]
. A
nostro sentire, la Scuola resta un’istituzione essenziale
intantochè, precisamente, essa sfugga alle pressioni dell’ambiente
e garantisca a tutti i bambini un
accesso ai saperi essenziali. Già
Philippe Meirieu, in L'école, mode d'emploi
[55]
, vero
manifesto del "pedagogismo"
[56]
, afferma
fermamente che la funzione della scuola è proprio nella trasmissione
dei saperi
[57]
e
conclude con un vibrante peana a favore dell’umanesimo
pedagogico : Il
discorso umanista è logorato, (...) ma non si è finito di
riscoprirne le virtù ; dacchè le ideologie sono state costrette
a lasciare i manichini di legno sui quali dormivano, dacchè hanno
dovuto affrontare le intemperie della strada e le loro cuciture hanno
ceduto da tutte le parti, dacchè si è rinunciato ad abbigliarsi per
la « grande serata », gli orpelli umanisti sembrano
ritrovare un’aria di giovinezza. (...) Si riesce anche a vedere che
ci sono alcuni brandelli del vecchio abito di Socrate, che abbiamo
custodito in eredità, che noi proteggeremo dalla barbarie.
[58]
Tali
affermazioni e tali citazioni potrebbero suscitare dell’entusiasmo
se non fossimo diventati diffidenti. Sarà dunque la fine della
devalorizzazione dei saperi, della messa in discussione dei contenuti
disciplinari, dell’infeudazione della Scuola all’Impresa! Tanto
che Merieu, in un articolo del Monde datato 24 Febbraio 1996, denuncia
« l’arrivo massiccio di una didattica tecnicistica che fa
sistematicamente l’impasse sulle questioni etiche e sulla dimensione
propriamente pedagogica della scuola ». Alla fine, avremmo
trovato in Philippe Meirieu un giustiziere della “didattica
tecnicistica” caratteristica della “pedagogia per obiettivi”, ed
un apologeta di ciò che è esattamente il suo opposto, il sapere di
una pedagogia pregna dei valori, della cultura, della “dimensione
etica della scuola” e della sua autonomia rispetto ai gruppi di
pressione economica, così come rispetto agli interessi mercantili ai
quali i “gestionari dell’educazione” avrebbero preteso di
sottometterla. Ma
è necessario, ohimè, guardare
le cose più da vicino. In primo luogo perchè questo rifiuto di una
« didattica tecnicistica » è puramente tattico : non
lo si vedrà che in fondo. Perchè Merieu non rompe assolutamente con
i principi della « pedagogia per obiettivi », che egli
riprende comunque per l’essenziale e, infine, perchè questa
pedagogia si è ben imposta nei fatti
ispirando i programmi d’insegnamento ed estendendosi a discipline
sempre più numerose sotto l’ala di quegli stessi che pretendevano,
per lo meno, di respingerne gli eccessi L’umorista
ha detto che, a partire da una certa età, egli si sbagliava nello
« scegliere tra l’avere una buona coscienza e l’avere una
buona memoria ». Le “scienze dell’educazione” nonostante
siano molto giovani, hanno già scelto il partito della buona
coscienza. Coloro che in un primo tempo hanno portato la
« pedagogia per obiettivi » all’apice, ora non esitano
ad attaccare i presupposti comportamentalisti più cinici, sembrando
adesso più inclini alla prudenza: Philippe Meirieu riconosce che,
sono circa una ventina d’anni che la “pedagogia per obiettivi”
ha fatto la sua comparsa, essa ha imposto di nominare il comportamento
previsto dall’alunno come una specie di “igiene pedagogica”.
Egli ricorda in una nota anche che : l'pera
di Viviane et Gilbert De Landsheere Définir les objectifs de l'éducation
che presenta, per la prima volta in Francia, un panorama molto
completo di lavori americani sugli obiettivi, non esita a riferirsi a
Skinner e alle « macchine per insegnare » e a ricusare le
obbiezioni che vedrebbero nell’insegnamento programmato un pericolo
di meccanicizzazione .
[59]
ma
si impegna in modo evidente a limitare la portata di questa
riflessione notando che « il prezzo da pagare per tale pedagogia
sarebbe particolarmente brutto »: A
parte il fatto che essa sembra ridurre gli allievi a ratti in un
labirinto e che l’apprendimento dell’addestramento esclude
quasi completamente le interazioni tra i discenti – delle quali
tuttavia si riconosce oggi il carattere particolarmente positivo –
essa sacrificherebbero molto spesso gli obiettivi di “alto livello
tassonomico”.
[60]
Si
era percepito, in effetti, che non è sufficiente affermare che si
vuole che l’alunno “comprenda” , “pregno di coscienza
di » ; si era ben visto che non è sufficiente aggiungere
gli avverbi – affermando che si vuole che l’alunno comprenda
« davvero » o « profondamente » - per chiarire
le cose… Allora, si era finito col rinunciare a queste
generalizzazioni per attenersi a comportamenti osservabili: ci si
accontentava di domandare all’allievo
“di enumerare”, di “recitare col cuore” di “completare
delle frasi tronche”, “di associare”, “di identificare”, di
“classificare”, etc. Si era finito semplicemente con l’abbandonare
alcune nostre esigenze perché non si arrivava a tradurle in termini
di comportamenti osservabili .
[61]
Ecco
qua, in tutta evidenza, un riconoscimento del valore della
« pedagogia per obiettivi », dei progressi che essa
avrebbe permesso di raggiungere in rapporto ad una pedagogia
« tradizionale » decisamente troppo vaga, incapace di
precisare le proprie intenzioni e di renderle operative. C’è
certamente, nello stesso tempo, la constatazione di alcuni limiti e
lacune di questa pedagogia ma, a riassumere, le sue insufficienze
sarebbero meno pregiudizievoli per l’apprendimento che non le
carenze della pedagogia “tradizionale”. E’ proprio in questo
senso che Meirieu ricorda, per esempio,
« completare frasi tronche », “identificare,
elencare », etc…. Si saranno, in particolare, riconosciuti i
Q.C.M
[62]
che
hanno invaso le valutazioni scolastiche in numerose discipline.
Esercizi operativi, certi, secondo i criteri delle tecnologie
educative, ma che risultano anche sterili in un buon numero di casi!
La riflessione di Meirieu è di taglio : rinunciare a
« certe esigenze », come egli ha affermato pudicamente,
col pretesto che non le si potrebbe rendere « operative »
è anche rinunciare all’atto essenziale dell’imparare ed è
acconsentire a sacrificare l’allievo, a cui non si permette di
cogliere il senso di ciò che fa. Quante generazioni sacrificate da
questa riforma? Certamente,
ma senza dubbio questo non era che l’uovo che si dova per forza
rompere per fare la frittata. Attualmente, più un problema di
sacrificare qualche esigenza che stia all’imperativo d’osservabilità.
Merieu annuncia l’era della grande riconciliazione: della
comprensione e della misura, del senso e dell’operatività, libero
di rinunciare per questo all’osservabilità. E’ dimenticare che
questa impotenza o questa incapacità di tradurre le esigenze inerenti
l’atto di apprendere in termini di comportamenti osservabili è
ricusata dalla pedagogia alla quale egli si riferisce e che non ci si
potrebbe adattare ad una tale limitazione. Viviane
et Gilbert De Landsheere avevano rifiutato l’obiezione secondo cui
ciò che è "più importante, nell’educazione, si sottrarrebbe
alla misurazione” e, citando R.
Ebel : Se
si pretende che un prodotto dell’educazione sia importante, ma non
misurabile,verificate la chiarezza con cui esso è stato definito. Se
è possibile una definizione operativa, il prodotto può essere
misurato. In caso contrario è impossibile verificare se il prodotto
sia davvero importante.
[63]
Questa
affermazione è certamente pienamente contestabile e bisognerebbe qui
dare ragione a Merieu se
non si fosse tirato fuori dalla necessità di argomentare su questo
soggetto. Dacchè si
riconosce qualche legittimità alla “pedagogia per obiettivi” non
si ha il diritto di concedere valore ad una esigenza che si è
incapaci di tradurre in termini di comportamento osservabile: o questa
non è stata definita chiaramente o, se non può esserlo, ed ha la sua
importanza, è addirittura la sua realtà ad essere messa in dubbio.
Merieu si impantana dunque nelle sue stesse contraddizioni quando
aggiunge: Si
esce dunque dal beaviorismo sommario, si tiene conto degli atti
mentali nella loro complessità, nella loro globalità, ma anche nella
loro radicale invisibilità, e si accetta l’idea che i comportamenti
permetterebbero solamente di fare delle ipotesi su « ciò che
passa nella testa del soggetto che impara ». Non si
arrossirà più nell’affermare che l’importante era proprio che
gli alunni comprendessero.
[64]
Sembra
di sognare ! Udite udite : l’importante è, in effetti,
che gli allievi capiscano: a differenza di Meirieu noi non siamo mai
arrossiti nel dirlo. Meirieu osa dunque, al presente, oltrepassare la
« regola di ferro » beaviorista: “non formulare l’intenzione
pedagogica se non in termini di comportamenti osservabili”; egli non
esita più, audacia suprema, ad aprire la “scatola nera” e a
formulare obiettivi di “seconda generazione” e di “terzo tipo”!
Bisognerà tornare sulle definizioni di questi obiettivi ma si può
fin da oggi sottolineare la curiosa proprietà degli « obiettivi
pedagogici » di passare da una generazione all’altra e di
mutare, a seconda delle necessità della causa! Ci sarà ben di che
ironizzare sulla serietà e sul rigore delle pretese “scienze dell’educazione”. Sul
piano dei principi, bisogna comunque dire che il fatto di
indirizzarsi da soli un’obiezione non impedisce che essa
possa essere essere invocata anche da altri. Ciò vale per Meirieu
e per Hameline quando ritornano sulle loro posizioni passate per farsi
senza dubbio accreditare dai propri lettori alcuni errori o
rinnegamenti. Così,
nella undicesima edizione dell’opera di Daniel Hameline Les
objectifs pédagogiques en formation initiale et en formation continue,
datata al 1993
[65]
, si trova
una postfazione intitolata "L'éducateur et l'action sensée".
L’autore vi sottolinea che : l'entrata
nella pedagogia degli obiettivi con tutto il suo corteo di sviluppi
sapienti che hanno arricchito il decennio 1979-1989, può
rappresentare una forma superiore dell'azione insensata. Non
ci si aspettava tanto ! E’ vero che Hameline aggiunge che essa
"può assicurare all’intelligenza e all’azione un luogo
privilegiato per il loro incontro fortunato" : Se
tale non fosse la mia convinzione, avrei chiesto che si fermasse la
pubblicazione di questo libro come si mette fine ad una cattiva
azione.
[66]
E
si dovrebbe aggiungere che questa azione sarebbe da considerarsi tanto
più malvagia tenuto conto del fatto che le tirature si sono succedute
dal 1979 al 1993. Hameline indica del resto, nella sua introduzione
alla ottava edizione : Ecco
un libro che è stato regolarmente richiesto, senza contare le
innumerevoli fotocopie degli esercizi che ha generato che lo destinano
a diventare, come diceva non senza una certa enfasi Guy Jobert alla
sua uscita, « l’opera più fotocopiata di Francia ».
[67]
Si
presume che una tale opera, così spesso citata, così spesso
fotocopiata, talmente richiesta debba avere, per il suo autore, una
certa importanza e non soltanto dal punto di vista economico. Ora, la
ragione invocata per accettare che se ne prolunghi la pubblicazione,
è alquanto costernante: Il
libro avrebbe potuto essere effettivamente una cattiva azione se fosse
stato redatto con un grande spirito di serietà. (...) Quello che va’
è che lo si è fatto senza dargli eccessiva importanza. (...) Non
arriverò a dire di questo libro che è una buona farsa. E pertanto...
[68]
Nel
momento in cui Hameline aggiunge questo "e pertanto..." egli
lascia quanto meno planare il dubbio. Che si prenda gioco del suo
lettore è una cosa, perché questi, da parte sua, sarebbe caduto nell’errore
di mettere nella lettura più serietà di quanta non ne abbia messa l’autore
nella scrittura, ma non vorremmo essere al posto di Bertrand Schwartz
che ha fatto la prefazione dell’opera e che giudica il “libro
rimarchevole, perché rigoroso, onesto, preciso, chiaro,
coraggioso". E Schwartz conclude rallegrandosi del fatto che
Daniel Hameline l'abbia scritto : a che affidarsi? Le
« scienze del’educazione » sono quindi delle
« scienze » molto sigolari e che evolvono con una
rapidità sorprendente, al punto che gli autori citati sono costretti
a far seguire alle loro opere postfazioni nelle quali esprimono, solo
qualche anno dopo la prima pubblicazione, delle notevoli evoluzioni.
Hameline, nella sua postfazione intitolata "l'éducateur et
l'action sensée", riconosce che nelle scienze dell’educazione
l’andatura è zagagliante, barcamenante, che non può essere che
sensato lo sbarazzarsi dalla « ingenuità dei percorsi
rettilinei » e che è tale necessità a giustificare i corsi e i
ricorsi, se non addirittura le scappatoie . Pertanto,
tutto diventa possibile e
può ammantarsi della « scientificità » così concepita.
La “pedagogia per obiettivi”, che costituisce un momento
inaugurale delle “scienze dell’educazione”, che si sforza di
trasformare la “vecchia arte d’istruire” in una tecnica
comportamentale” può allora, in occasione dell’uno o dell’altro
dei suoi ricorsi, essere relativizzata e anche denigrata ma
ulteriormente potrà di nuovo essere invocata grazie ad uno di questi
spettacolari capovolgimenti ai quali ci si dovrà abituare, nel nome
della “scienza” e dopo aver perduto “l’ingenuità dei percorsi
rettilinei”! Si
assiste ad un rivolgimento di questo tipo nell’opera collettiva di Michel
Tozzi, Patrick Baranger, Michèle Benoît e Claude Vincent
[69]
con
prefazione, giustamente, di Philippe Meirieu. Gli autori s’impegnano
a mostrare come la “pedagogia per obiettivi” possa essere
applicata all’insegnamento della filosofia e come essa possa essere
feconda. Dopo aver stabilito, in poche parole,
la diagnostica e affermato la necessità di una
« rivoluzione copernicana » nella pedagogia, gli autori
propongono il rimedio : la « pedagogia per
obiettivi »
[70]
. Dopo uno
sproloquio sulle finalità, gli obiettivi generali e gli obiettivi
specifici, gli autori menzionano una obiezione che non gli può essere
sfuggita e che senza dubbio non si è mancato loro di fare : Si
può reagire molto vivacemente contro questa pedagogia comportamentalista,
sottesa da una psicologia beaviorista e da una filosofia utilitarista.
[71]
In
effetti, si può reagire e, a noi sembra, si deve farlo!
Ora, lungi dall’argomentare, i nostri filosofi si limitano a
constatare che, quali che siano i rimproveri che si possano muovere a
questa pedagogia, il rifiutarla equivarrebbe a “buttare via il
bambino insieme all’acqua del bagno” . (...) Meirieu,
che non manca mai l’occasione di scrivere la prefazione delle opere
che vanno nel senso delle proprie scelte pedagogiche, eccelle in quest’arte
dello slalom a proposito della « pedagogia per
obiettivi », sforzandosi di mettere dalla sua parte sia i suoi
partigiani che i suoi detrattori, bilanciandosi senza posa tra l’elogio
e la denigrazione. Ora, stranamente, nell’opera già citata Emile,
reviens vite...ils sont devenus fous, Meirieu protesta a sua volta
in forma di un « elogio della polemica », giura di voler
« rompere con la pratica del
passo sbieco » e s’impegna a prendere seriamente i punti di
vista, le inquietudini e le critiche dei suoi interlocutori come dei
suoi avversari
[72]
.
Benissimo! Prenderemo quindi atto di questa dichiarazione,
sottolineando che l’unico modo di prendere sul serio un autore e
proprio quello di prenderlo
in parola. Se Philippe Meirieu rompe effettivamente con la pratica del
« passo sbieco » si dovrebbe almeno essere certi di
trovarlo là dove pretende di essere, qualora si volesse ingaggiare
con lui un combattimento leale. Bisognerà,
ohime, disincantarsi piuttosto rapidamente perché lui ha presto
dimostrato un incontestabile talento nell’arte del “passo sbieco”:
la sua opera ne offre molti esempi, segnatamente l’argomentazione
invocata a favore dei diritti del bambino. (...) VI. La “ pedagogia differenziata ”, ovvero quale scuola
secondo Philippe Meirieu ? Philippe
Meirieu, che si è fatto fare da Daniel Hameline la prefazione di una
delle sue opere più note, L’école, mode d’emploi, vi
introduce la pedagogia che, secondo lui, dovrebbe essere considerata
come lo sbocco di tutti i balbettamenti, corsi, ricorsi, contorsioni,
barcamenamenti e rovesciamenti anteriori, vale a dire la “pedagogia differenziata ”.
La prima edizione data al 1985 e Meirieu già si domanda, nel 1990, in
una « postafazione », se la « pedagogia
differenziata » non sarebbe già superata, cosa che
permetterebbe di dire, se questo fosse il caso, che se c’è una cosa
che le pedagogie sanno programmare è proprio la loro stessa
obsolescenza. Che ci si rassicuri comunque, Meirieu ci spiega perchè,
nel 1990, questa pedagogia non è « superata » : e
sarebbe perchè essa riassume, in una qualche misura, i momenti
precedenti della riflessione e delle pratiche pedagogiche, perchè
essa corrisponderebbe ad una specie di “ pédagogia
perennis ” manifestando qualche cosa di sé nelle correnti
anteriori e, dunque, essa sarebbe verità. Nella
prima parte della sua opera Meirieu percorre quindi le tappe
successive che hanno, secondo lui, permesso alla « pedagogia
differenziata » di uscire dalla sua crisalide. Ed egli immagina,
per rendere tale gestazione più affascinante, di chiedere a Gianni,
ragazzino in fallimento scolastico, di fare una passeggiata da Freinet,
dalle “piagetiens”, da Summerhill, da Rogers che lo piazza su “la
linea di tiro degli obiettivi”, che lo ammette alla presenza di
Freud, di sociologi, che lo ammettono al collegio unico dove lo fanno
anche sedere alla commissione Legrand e che, infine, lo depone sulla
soglia della “pedagogia differenziata” scelta per dare il verdetto
[73]
. Ci si
perdonerà di non cercare in questa opera le soluzioni pedagogiche
promesse, ma di trovarci una interessante testimonianza delle
avversioni e delle inclinazioni di Merieu in materia scolastica, una
specie di confessione in cui l’autore la dice lunga sulla scuola che
detesta e sull’importanza delle sue repulsioni nella genesi delle
proprie concezioni pedagogiche. Possiamo analogamente svelare quelle
intenzioni che presiedono al “bricolage” da cui scaturisce la “pedagogia
differenziata” e la rispettiva importanza delle diverse correnti cui
essa s’ispira. Meirieu
detesta la scuola in cui all’inizio ha messo Gianni, quella che fa
di lui un disadattato, un « mascalzone » e che decide di
rinnovarsi. In epigrafe a queste tribolazioni di un alunno attraverso
le diverse correnti della pedagogia, Meirieu cita questo brano da I
ragazzi di Barbiana, lettera a una maestra di scuola : Gianni
aveva quattordici anni. Distratto, allergico alla lettura. I
professori avevano deciso che era un mascalzone. E può essere
che non avessero completamente torto, ma questa non era una ragione per
respingerlo in questo modo.
[74]
Questa
scuola, che produce il fallimento scolastico, che designa i bambini
come « mascalzoni », che se ne sbarazza senza scrupoli,
ognuno l’avrà riconoscuita : è la scuola
« tradizionale ». Aggettivo di per sè carico di tutti i
rimproveri e di tutti gli anatemi, è la scuola della Repubblica, è
la nostra ! Poiché si tratta di descriverla subito in
modo tale che nessuno osi più reclamarla, o rivendicarla sia pure
minimamente. Questa scuola si tratta prima di tutto di denunciarne i
difetti e di dichiararla in crisi : tale è soprattutto la
finzione di Meirieu, non è sorprendente che il primo episodio abbia
per titolo « la bocciatura”. Questo quadro della scuola ha
soprattutto la funzione di respingere e
sarà interessante confrontare, attraverso un avvincente scorcio,
questa immagine all’immagine di una scuola definita moderna, come
Meirieu chiama quella dei suoi desideri : Gianni
talora ascoltava. Di tanto in tanto egli osservava, con un interesse
divertito, le nostre sedute di lavoro…. Ma ciò non durava a lungo;
alla prima occasione se la filava dietro le quinte, abbandonava la
lezione per rovistare nella borsa che gli serviva da cartella, prima
di interromperci con un grido di sorpresa o con un insulta indirizzato
a quelli, buoni allievi attenti, che si sforzavano di ignorarlo. E’
una scuola che, come si puà vedere, distilla una noia profonda
[75]
e
da cui i ragazzini non hanno tutti i torti a voler sfuggire. Ben si
capisce Gianni. Non si riesce a capire come, in una siffatta scuola,
ci possano essere dei « buoni allievi », attenti perdipiù !
A
fronte di questa scuola polverosa, una scuola che risponda ai reali
bisogni degli allievi esige un rovesciamento totale di prospettiva.
Meirieu descrive una lezione di sesta in cui si applica la “pedagogia
differenziata”: In
questa classe regna apparentemente un gran disordine : tre
allievi preparano un dettato sotto la responsabilità di uno dei loro
compagni ; quattro immaginano una recita aiutandosi con un gioco
di tarocchi ; un altro ascolta, grazie a delle cuffie, le
informazioni alla radio ; ne
farà presto una sintesi alla classe : vicino a lui, un altro
prepara un’esposizione mentre un terzo dà l’ultimo tocco a un
pannello sul quale a ricopiato e illustrato un poema ; più
lontano, alcuni giocano a tombola e mettono su dei cartoncini le
terminazioni dei verbi ; nel corridoio, un piccolo gruppo prepara
una scena di un pezzo di Molière, ma il loro tono di voce distrae un
po’ i tre o quattro lettori silenziosi, assorbiti dalla lettura di
un romanzo... Il maestro abbandona allora i sette otto allievi che
seguiva nell’esercizio di fare una brutta copia, per intimare agli
attori di fare meno chiasso. Non
si avrà la crudeltà di far notare che in questa classe non regna apparentemente
ma realmente un grande disordine ! Si vede bene che
Meirieu vuole contrapporre ad una scuola in cui gli allievi si
annoiano e dalla quale dunque si defilano, una scuola in cui ciascuno,
assorbito da un compito del quale si è investito, obbedisce alle
regole che si dà: altrimenti detto contrapporre (ndt) a una scuola
della dipendenza una scuola dell’autonomia in cui regna un certo
ordine immanente allo svolgimento delle attività. Non si sa molto
quanto al fatto se in questa descrizione egli sti facendo riferimento
ad una “esperienza reale” e, al limite, poco importa. Sembra
nondimeno che « la sposa sia troppo bella » e che il
quadro appaia tanto idilliaco quanto il precedente è caricaturale. Fa
pensare ad un articolo de L’Express
[76]
in
cui il giornalista descrive i miracoli del metodo pedagogico “ hands
on ” (le mani in pasta) in una scuola di Chicago,
perchè è da queste parti che siamo ormai invitati a cercarci i
nostri modelli : Due
ragazzini di CM2 si congratulano gioiosamente alla fine di un corso di
algebra ; altri discutono un problema di geometria nell’aula
della ricreazione, come se discutessero di una serie televisiva. (...)
In questa scuola elementare concepita nell’ambito di un quartiere
degradato della zona
occidentale di Chicago, quattrocento allievi, in grande maggioranza
neri e che vivono in ambienti sfavorevoli scoprono un nuovo modo di
imparare. Dei somari inveterati si appassionano intanto per la
lezione... Anche
se si fosse inclini a credere nei miracoli e a pensare che tali metodi
possano avere le virtù e l’efficacia che gli si attribuiscono, che
si trattasse della « pedagogia differenziata » di Meirieu
o del metodo “ hands on ” di Léon Lederman che si
vorrebbe sperimentare in Francia grazie agli sforzi di Georges Charpak
[77]
, sarebbe
necessario chiedersi in
che consisterebbe una tale efficacia. Si tratta sempre per
Meirieu, per Lederman, per Charpak e, ben inteso, per Allègre di
rendere operativa una “ pedagogia del concreto ”
se non addirittura « delle estremità del filo ”, vecchia
strofa, e di vantare le virtù della “ pedagogia del
gioco ” vecchio refrain già denunciato da Hegel, poi da Alain : Non
ho molta fiducia in queste (...)
invenzioni per mezzo delle quali si vuole istruire e divertirtendo.
(...) Non potete far gustare al bambino le scenze e le arti come si
gustano le caramelle alla frutta. L’uomo si forma attraverso la
fatica, i suoi veri piaceri se li deve guadagnare, deve meritarli.
Deve dare prima di ricevere. E’ la legge !
[78]
E’
un ben vecchio dibattito, che i maestri della scuola pubblica hanno
dopo molto tempo troncato a scapito dei pedagogisti che volevano fare
i « buffoni », mestiere che ricordava Alan sarà certo
ricercato e ben pagato, ma « segretamente disprezzato »
Perchè allora ritornarci e cosa si tratta allora di far
passare ? Si
vede bene che la scuola
detestata da Meirieu è una scuola in cui si lavora, in cui si
chiedono ai bambini dei sacrifici e degli sforzi. Non si argomenterà
qui dei ricordi che Meirieu potrebbe aver serbato quanto alla sua
propria scolarità; bisognerà trovare un’altra ragione per spiegare
che un tale vecchiume è qui evocato proprio come l’idea chiamata a
rivoluzionare la pedagogia
[79]
. Si dovrà
vedere che il pensiero di Meirieu
così come delle correnti pedagogiche cui si richiama, è dopo più di
vent’anni impregnato dei postulati della « pedagogia per
obiettivi », cosa che Merieu per di più riconoscerebbe. Nella
sua lezione modello, in effetti, il maestro, dopo essere stato accanto
ai diversi gruppi, indica che “il prossimo corso sarà consacrato a
un controllo dell’espressione scritta valutato a partire da tre
criteri: la correzione della frase, l’ortografia e la struttura
della narrazione” e ricorda che “ognuno di questi punti è dettagliato
sul modulo degli obiettivi del mese” Un
tale modulo di obiettivi, di cui Meirieu dà un esempio, è tanto più
indispensabile in quanto esso fissa «un « piano di lavoro
individuale » per ogni allievo.
[80]
Bisogna
avere elaborato un programma di obiettivi che, essendo stato
comunicato agli allievi, rappresenta il filo conduttore del
lavoro ; è rispetto ad essoi che ci si orienta, è ad esso che
siriferiscono le attività
dell’allievo (ndt) ; è esso ad indicare i dati e i contenuti
delle valutazioni. Inoltre, questo programma generale deve essere
concordato con ciascuno...
[81]
Si
vede a che punto la « pedagogia differenziata » è
solidale con la « pedogogia per obiettivi » e a che punto
essa ne sia dipendente. Si potrà anche rifare, come ne L’école,
mode d’emploi, ad altre correnti pedagogiche, ma ciò non cambia
niente : queste correnti sono esse stesse sovvertite dalle
pratiche degli obiettivi o, quando non lo sono, si fa finta di non
vederle ! Bisogna ricordare fino a che punto la “pedagogia
differenziata” sia fatta di pezzi e di brandelli i più disparati. E
che è per merito di tale bricolage se essa può allo stesso tempo
avvalersi di Freinet e del beaviorismo, di Summerhill e di Piaget, etc... Contrariamente
a quanto pretende Meirieu, gli insegnanti che si sollevano oggi come
ieri contro il « pedagogismo » non sono infeudati ad una
scuola « barbosa » e « immobile »
[82]
, ma
estendono il loro attaccamento a la scuola laica e repubblicana,
esprimono un’esigenza di rigore e di coerenza che gli impedisce di
accettare come una scienza quella che è una giustapposizione
d’influenze eteroclite e contraddittorie. Sarebbe
molto ingenuo farsi sottomettere dai dinieghi di Philippe Meirieu e
dalla suo panegirico, tanto patetico quanto ambiguo, a favore di un
qualsivoglia umanesimo educativo
[83]
. Dato che
l’attualità più recente ha posto questo personaggio sulla ribalta
della scena, diventa legittimo pensare che ci siano degli orientamenti
pedagogici per i quali egli militi dopo anni in cui intanto si è dato
da fare per imporli, tanto più che ne ha i mezzi politici. Ed è
questa la missione che gli è stata ufficialemnte affidata da Claude
Allègre. E’ necessario allora saper bene che: *
quando egli denuncia i limiti di un beaviorismo e quando
pretende allontanarsene , non
è credibile, *
le sue espressioni di obiettivi concettuali, di obiettivi
procedurali, di obiettivi nucleari, di obiettivi « del terzo
tipo » e di altri, mancano come minimo di charezza, di rigore,
di pertinenza, in breve di credibilità, *
l’argomento secondo il quale la “ pedagogia
differenziata » potrebbe moderare i
« differenziali » tra le correnti antagoniste della
pedagogia attuale è un’impostura, *
l’argomento secondo il quale la “ pedagogia
differenziata ” avrebbe la vocazione per incontrarsi con
« uno sperimentalismo positivo incapace di far luce sui suoi
stessi presupposti ” non è meno illusorio, in
breve, che quando Philippe Meirieu si appella al “ potere
agli alunni per lottare contro la passività dei loro maestri
[84]
, dimostra fonp a che punto egli sia uso associare alla demagogia indirizzata
agli alunni il disprezzo riguardo ai loro insegnanti. Non è
stupefacente che Monsieur Allègre, nelle sue provocazioni, ceda a
questa doppia inclinazione. VII.
Stato d’urgenza. Philippe
Meirieu non è saltato fuori dal niente : ha un passato e dei
progetti, egli opera già da qualche tempo nel mondo delle
« scienze dell’educazione » e della formazione dei
docenti ; le sue concezioni pedagogiche e le sue idee sulla
scuola hanno sia il favore di François Bayrou che quello di Claude
Allègre dato che è stato consigliere dell’uno e dell’altro, ed
è pertanto direttamente che egli è chiamato a mettere in pratica le
sue idee e a iscriverle in una trasformazione radicale della scuola.
Le grandi manovre sono già cominciate: vasta operazione mediatica
sulla stampa, alla radio, alla televisione. Il pubblico è informato
della « consultazione » che, dagli allievi agli insegnanti
e ai dirigenti scolastici, è chiamata a rispondere alla
domanda ; « Quali saperi insegnare nei
licei ? ». Nello stesso tempo, i maestri, i professori e i
dirigenti scolastici sono invitati a pronunciarsi sui ritmi scolari e
a sottomettersi alle sentenze pretesamente incontestabili dei “cronobiologi”,
allorchè il “nuovo contratto per la scuola” di François
Bayrou continua ad applicarsi negli istituti. Dopo la nomina del
Ministro Claude Allègre all’Education nationale, le nuove misure
che piovono sulla scuola, cospirando per sbriciolarla, si vanno ad
aggiungere ad altre più vecchie che avevano preparato il
terreno : messa in discussione dello status di funzione pubblica,
« deconcentrazione » del movimento dei professori, messa
in discussione dei diplomi nazionali e in particolare del baccillerato.
Non si finisce più di
fare la lista dei brutti colpi inferti alla scuola. In questa
situazione, non si dvrebbe invocare l’ignoranza, che non è altro se
non una scusa pietosa, per non fare niente e incrociare le braccia!
Sarebbe del tutto condannabile anche il cantare le virtù dell’adattamento,
come il rassegnarsi col pretesto che non ci sarebbe altra scelta.
[85]
La
mobilitazione è tanto più necessaria tanto più è
diventata urgente.
E’ sufficiente, per convincersi, oltre al treno di misure invocate,
comparare la scuola pubblica e laica che si è data la Repubblica con
i modelli cui si retende di conformarla. Si tratta di esaminare i
presupposti sui quali poggiano le concezioni pedagogiche che si
pretende di applicare alla scuola e la loro origine. Si tratta di
considerare le poste in gioco per opporsi a questa impostura ! In
un articolo che egli consacra alle “scienze dell’educazione”
Jacques Muglioni
[86]
osserva : la
“ pedagogia per obiettivi », apporto principale delle
« scienze dell’educazione », si basa su una psicologia
del comportamento che ha tratto i propri modelli dalla psicologia
animale. La psicologia del comportamento si presenta come una “psicologia
di reazione”, il comportamento si definirebbe come rispoata (o
reazione) ad una data situazione, (...) in certe condizioni l’uomo
viene trattato come un automa. Si capisce l’origine storica di
questa concezione strumentalista dell’uomo, se si fa notare che il
beaviorismo è contemporaneo del taylorismo. Jacques
Muglioni fa ancora questo appunto, che “ l’assenza deliberata
di riferimento filosofico è in realtà il segno di un dogmatismo
temibile ”. Il dogmatismo dei discepoli di questa
pedagogia, Monsieur Meirieu in particolare, va in effetti di pari
passo con l’odio per la filosofia manifestato da Monsieur Allègre :
egli riconosce pudicamente la sua assenza di gusto per la filosofia,
come la sua mancanza di competenza in tale disciplina senza tuttavia
respingerla più di tanto, ma nomina nei suoi libri i tre grandi
colpevoli per quanto attiene allo stato pietoso dell’insegnamento in
Francia : Platone, Descartes, Auguste Comte
[87]
!
Nessuno di questi filosofi darebbe, e ce ne vorrebbero di più, l’esempio
del dogmatismo: è a Messieurs Meirieu e ad Allègre che si dovrà
porre questa domanda: in nome di che si pretende di imporre un dogma e
di trasformare la scuola nel suo nome? E’ questo sostenibile, quando
si scorgano le scelte che lo sottointendono? *
La psicologia comportamentalista è imposta
come una verità indiscutibile, posta al di là di qualsiasi esame e
di qualsiasi critica. *
L’educazione non è più considerata come l’atto culturale
per eccellenza, attraverso il quale una generazione tramette i propri
saperi alla successiva e attraverso il quale l’adulto inserisce il
bambino nell’ordine dell’umanità. Al posto di questo, la
pedagogia non è altro più che un’applicazione della psicologia “scientifica”
che trova i propri modelli nella psicologia animale – come dire che
è una branca dell’etologia. Non
è che eludendo il problema del senso e rapprentadosi l’intelligenza
umana sul modello puramente deterministo e meccanicistico de « l’intelligenza
animale », che si può progettare di sottomettere l’essere
umano ad un addestramento. A partire da qua, ogni confusione e ogni
sconvolgimento diventa possibile e prevedibile, staffettato dalle
ideologie scientiste alla moda: la società umana è descritta sul
modello delle società d’insetti e potrebbe quindi essere retta
dalle leggi naturali del mercato e dai meccanismi inamovibili dell’evoluzione;
la condotta umana è identificata con un comportamento direttamente
indotto, un sistema di stimolo-risposta triviale o sofisticato (poco
importa) che sia possibile orientare in funzione di determinati
bisogni
[88]
. L’educazione,
privata di ogni senso del trasmettere, può allora condizionare in
tutta comodità (...). L’esclusione
dei saperi, verso la quale procedono queste « pedagogie »,
a vantaggio dei « metodi », ha come conseguenza
inevitabile la sottrazione dei contenuti culturali e di fatto la
devalorizzazione dell’idea stessa di cultura. Non c’è più niente
da imparare, sarà sufficiente “imparare ad imparare”. La formula
è fiorita a tal punto che tutti quelli che si piccano di educazione
si credono obbligati ad usarla! Infatti, essa non ha altro senso se
non quello di andare a detrimento di: imparare ad imparare, bisogna
imparare qualcosa, imparare dei metodi a scapito dei contenuti o, come
si dice ancora, “fare la metodologia” a cui si pretende di ridurre
la pedagogia (...). Dobbiamo, nello stesso modo, interrogarci su queste parole d’ordine « molto attuali » di pluri-disciplinarietà, o interdisciplinarietà (se è possibile trasversale) e su ciò che esser nascondono. Il semplice attaccamento ad un disciplina d’insegnamento dovrebbe già rendere sospettosi: pluri o inter-disciplinarietà può essere, a condizione che esse non concentrino l’attenzione sulle discipline tra le quali si è deciso che vengano stabiliti dei legami. Sarebbe il colmo se questi approcci finissero in un nulla disciplinare. Ora, bisogna ben constatare che, più spesso, l’approccio pluridisciplinare si oppone confluttualmente all’approccio disciplinare e che la ricerca di “competenze trasversali” tiene in poco conto le discipline e i saperi che permettono di acquisirla. (...) Se
la scuola di Jules Ferry non
sembra più apprezzata da Claude Allègre, in quanto colpevole, a suo
sentire, di obsolescenza e di un’inadeguatezza al mondo moderno, e
se l’insegnamento francese soffre, notoriamente a causa di Platone,
Descartes e Comte, di una astrazione eccessiva, il modello di scelta
di Claude Allègre si
situa, non c’è di che dubitarne, oltre Atlantico, negli U.S.A,
paese della scienza e delle tecnologie trionfatrici. L’Inglese non
è finito con il non essere, per il nostro Ministro, una lingua
straniera? Ora, la “pedagogia per obiettivi” è comparsa in USA e
si è allargata in un vuoto culturale spaventoso. Perché è quella
scuola che si presume debba fornirci un modello per la scuola di
domani, vediamo almeno di capire di che si tratta e consideriamo
questo problema che è, làggiù, di una bruciante attualità: “Perché
il piccolo John non saprebbe leggere?”. O, in senso più lato, come
fa notare Hannah Arendt : “ Perché il livello scolastico
della scuola americana media resta così tanto al di sotto dei livello
medio attuale di tutti i paesi europei?” Gli articoli di Hannah
Arendt, riuniti nell’opera intitolata La crise de la culture,
sono stati scritti tra il 1954 e il 1968. Bisogna confessare che, in
seguito, non sarà stato più solo il piccolo Jhon ad avere problemi
con la lettura, ma anche il piccolo Jean e si può pensare che casi
analoghi producano effetti identici. Ora, Hannah Arendt enuncia le
cause che, secondo lei, hanno avuto negli Stati Uniti questi effetti
così deplorevoli, due risvegliano particolarmente l’attenzione : Sotto
l’influenza della psicologia moderna e delle dottrine pragmatiche,
la pedagogia è diventata una scienza dell’insegnamento in generale,
al punto da affrancarsi completamente dalla materia da insegnare.
E’ professore, pensate, colui che è capace di insegnare... non
importa cosa. La sua formazione gli ha insegnato a insegnare e non a
padroneggiare un soggetto particolare. (...) Inoltre,
nel corso dei decenni recenti, questo ha portato a trascurare
completamente la formazione dei professori nelle loro stesse discipine,
soprattutto nell’ambito delle scuole secondarie. Dato che il
professore non ha bisogno di conoscere la sua propria disciplina, si
arriva spesso al punto che egli ne sa poco più dei suoi allievi. .
[89]
E’
dunque una constatazione. Vi si ritrovano i tratti ed i presupposti
tipici delle “scienze dell’educazione” e delle tecnologie
educative : l’influenza della psicologia moderna, (essenzialmente
della psicologia comportamentale e del beaviorismo) e l’influenza
delle dottrine pragmatiche che impregnano tutte le correnti di
pensiero nei paesi anglosassoni. A tale proposito si può dire che il
pragmatismo e’ stato per l’America ciò che
Descartes è stato per la Francia: si noti che campo Claude
Allègre ha scelto ! Le tecnologie pedagogiche sono ancora denunciate da Hannah Arendt come un pretesto per « affrancarsi dalla materia d’insegnamento ». E’ proprio quello che raccomandano le “scienze dell’educazione”, e non è che al prezzo di un tale artificio che esse si fanno considerare come scienze. Hannah Arendt invoca un’altra ragione che mostra bene come ciò che ci si dispone ad imporre qui abbia avuto conseguenze catastrofiche ed un ruolo pernicioso nella « crisi della cultura » oltre Atlantico : L’idea
che ha trovato la propria espressione concettuale sistematica nel
pragmatismo è che non si puà sapere
e comprendere ciò che si fa da soli ; la sua messa in
opera nell’educazione è tanto elementare che evidente:
sostituire, più che sia possibile, il fare con l’imparare.
[90]
E
Hannah Arendt dimostra molto chiaramente che tutti questi effetti,
connessi e solidali, ben risultano dallo stesso percorso e dalla
medesima « filosofia implicita » : Se
non è stato considerato come molto importante che il professore
domini la sua disciplina, è perchè si voleva obbligarlo a conservare
l’abitudine di imparare acchè egli non trasmettesse un
« sapere morto » come si dice, ma perchè al contrario
egli non smettesse di mostrare come tale sapere si acquisti.
[91]
Questa intenzione che, secondo Hannah Arendt, non è affatto nella genesi della « crisi dell’educazione negli USA », si traduce oggi in Francia all’interno I.U.F.M. (Instituts Universitaires de Formation des Maîtres), nella forma di un vero e proprio odio per la cultura, cosa di per sé inquietante in un ambito che ha la responsabilità della formazione degli insegnanti. Il professore è invitato a non sapere troppo, non molto più degli allievi, perchè si possa instaurare tra loro e lui uno scambio paritetico, presuntamente formatore per tutti!! Hannah Arendt indica ancora : L’intenzione
avocata non era di insegnare un sapere, ma di inculcare un saper-fare ;il
risutato fu una specie di trasformazione
dei istituiti d’insegnamento generale in istituti professionali,
che hanno fatto registrare notevoli successi quando si è trattato di
imparare come portare una macchina, come battere a mecchina o come
comportarsi bene in società e
essere popolari, ma che sono una collezione di fallimenti quando si
sia trattato di inculcare ai bambini le conoscenze attraverso un
programma.
[92]
Si
ritrova la ben celebre trilogia “saper, saper-fare, saper-essere”
e si verifica, una volta di più, che questa separazione tra i tre
termini gioca sempre a sfavore dei saperi, tutti sacrificati in
questa faccenda, a vantaggio degli altri due termini. Ciò
che importa di vedere oggi è che queste concezioni sono già state
applicate laggiù ed hanno già prodotto i loro effetti, ed è alla
luce di queste conseguenze calamitose che Hannah Arendt giudica la
loro inadeguatezza innata. Non ci resta quindi che porci la domanda essenziale : con quale diritto ci viene imposta una riforma che ha già dato prova di inanità. Chi è più colpevole: colui che dà forma all’idea di una tale impresa, colui che la mette in opera, colui che si dimostra incapace di trarre lezione dai fallimenti altrui, colui che acconsente e si sottomette, per ignoranza o per vigliaccheria? Con che diritto, e sotto quali pressioni ci si dà da fare, oggi più che mai, nell’organizzare la distruzione della scuola E’ poco dire che c’è un’urgenza ! La difesa della scuola, nel
momento in cui non è più assicurata da quelli che l’hanno in
carico e che si sforzano, al contrario, di sbriciolarla, spetta ad
ogni insegnante che diventa, sua malgrado, l’ultimo bastione. Bernard Berthelot
[1] Daniel Hameline : Les objectifs pédagogiques en formation initiale et en formation continue. ED. ESF, 1979, p 29 et 30. [2] Daniel Hameline, op.cité, p 62. [3] Oltre all’opera di Hameline, se ne possono facilmente citare altre, ugualmente famose, e che si riferiscono per lo più le une alle altre ; Définir les objectifs de l'éducation, de Viviane et Gilbert de Landsheere ; Comment programmer une séquence pédagogique, de Propham et Baker; Des fins aux objectifs de l'éducation de Louis D'Hainaut, e molte altre ancora. [4] de Landsheere & de Landsheere : Définir les objectifs de l'éducation. [5] de Landsheere & de Landsheere, ibidem [6] gli esempi citati si trovano nel già citato libro di Daniel Hameline : Les objectifs pédagogiques en formation initiale et continue. [7] Ibid. [8] ibid. , p 125 [9] ibid. , p 125 [10] ibid. [11] Ibidem [12] Ci si potrebbe soffermare più a lungo su questa definizione e mettere in discussione certi termini. Tuttavia, per il momento, ci accontenteremo. [13] Louis D'Hainaut, op.cit., p 21 [14] Può essere che certi insegnanti si divertirebbero di disporre di una lista di istruzioni, che gli basterebbe seguirla, e che si augurassero quindi di disporre di « referenziali », tanto per la formazione che per la valutazione, senza aspirare ad essere quindi niente più che dei manovali della pedagogia. E’ vero che la libertà pedagogica, come ogni libertà, può essere un fardello a portarsi. Noi abbiamo la “debolezza” di esserci inesorabilemnte affezionati ! [15] Per questo, beninteso, che egli insegni una disciplina. Ora, lo statuto degli insegnanti è da questo punto di vista a seconda del libello istituzionale in cui essi si situano: dall’istitutore che insegna l’insieme delle discipline, al "professeur d'enseignement général des collèges" (P.E.G.C.), "bivalente", al professore specializzato nella sua disciplina. E’ certamente quello in gioco. [16] E’ esattamente ciò che viene messo in dubbio nel questionario distribuito agli insegnanti nella cattedra di consultazione nazionale avviata da Claude Allègre nel gennaio 1998, e in cui egli domandava ai professori dei licei e cosa la loro disciplina contribuisse alla cultura comune di tutti i liceali e quali fossero le conoscienze che, nei programmi di tali discipline, sembravano obsolete, o addirittura inutili, nel medesimo tempo in cui veniva chiesto agli alunni ciò che gli sembrava inutile e senza interesse tra ciò che essi imparavano al liceo. [17] Sarà oggetto della seconda parte di questa riflessione dimostrare che gli attuali frutti della « scienze dell’educazione » (pedagogia differenziata e tutto ciò che ha rapporto con l’interdisciplina « trasversale » la metacognizione), malgrado le proteste e i dinieghi, non sono che disavventure della “pedagogia per obiettivi” . [18] V. & G. De Landsheere, op. cit. [19] On ose dire, de l'école !! [20] Si tratta sempre dell’opera già citata di V. & G. De Landsheere. [21] Questa razionalità non è niente altro che una ragione tecnica, striminzita, nel senso in cui gli economisti parlano di « razionalità economica », e senza dubbio non è un pericolo se si è lontani dal buon senso, o dalla ragionevole « capacità di distinguere il vero dal falso » che, secondo Cartesio, è “la cosa più condivisibile del mondo” ”. [22] Non si tratta qui, lo si sarà capito, di pluralismo politico (multipartitismo etc), ma di pluralismo educativo (pluralità di sistemi e di istituzioni scolastiche...). [23] Si comprende ancora l’importanza che assumono, in una tale prospettiva, le "tecniche della comunicazione", che non rappresentano altro che « tecniche di concordato », dei cui non si considerano che gli effetti pragmatici. Io mi riferisco qui, ben inteso, a « l’analisi trasazionale » e alla « programmazione neurolinguistica ", attraverso le quali si pretende di dare soluzioni ai problemi di relazione. [24] Ecco di che alimentare la diffidenza verso le "scienze dell’educazione", e del ruolo che esse pretendono di riservare alla filosofia nelle loro costruzioni. [25] E’ come se si pretendesse di compensare una totale ignoranza sugli « imperativi categorici », diffidando prima di tutto del loro carattere categorico, attraverso esigenze assolutamente oziose sulla formulazione degli « imperativi di abilità », come se per di più fosse il caso di negoziarli! [26] Hameline, op.cit., p 190 [27] Hameline, ibid. [28] Le bonheur d'apprendre, di François De Closets, che lascia intendere che gli insegnanti stroncherebbero sul nascere la curiosità degli alunni, la loro fame di conoscienza, tradisce una reale ignoranza della condizione docente attuale e delle mentalità degli adolescenti. Nel momento in cui l’autore richiama questa o quell’altra questione, che egli ha abordato in uno dei suoi prodotti di volgarizzazione scientifica, e nel momento in cui pone come brioso di per sé l’interesse che gli adolescenti dovrebbero provare per tale questione, egli si inganna grossolanamente ! Nel momento in cui egli afferma che compete ai professori “motivare gli alunni”, svegliare il loro gusto per la conoscenza, stimolare il loro appettito, non ha affatto torto : è di gran lunga ciò che essi fanno nella maggior parte dei casi. E’ nel momento in cui lascia intendere che ciò sia facile e che sia sufficiante applicare delle ricette ben conosciute, che è in errore. [29] Si vede anche, a partire da lì, i rischi di un sistema d’insegnamento che si basa sempre di più, e sempre più presto, su una scelta di opzioni. [30] Ecco perchè ci si può legittimamente arrabbiare quando il Ministro chiede ai liceali di pronunciarsi su quello che dovrebbe essere, secondo loro, il liceo di domani, su ciò che sarebbe necessario imparare, impararci, e che sarebbe giudizioso escludere. [31] D'Hainaut, op.cit., p 33 [32] Souligné par nous. [33] Souligné par nous. [34] Platon, Gorgias, 486 C [35] Vedere, a tale proposito, le Traité de pédagogie e "idée d'une histoire universelle au point de vue cosmopolitique". [36] Platon, Gorgias, 460 b [37] Jacques Brel, Rosa. [38] L'école ou le loisir de penser, questo è il titolo che è stato dato alla raccolta di testi pedagogici di Jacques Muglioni, Inspecteur de philosophie, e vecchio decano de l'Inspection Générale, morto nel 1996. [39] Cosa che non ha, beninteso, niente a che vedere con una qualsivoglia tecnica che si proponesse di agire sul « saper-essere » di Paul, dato che non si tratta di altro che di insegnargli il latino. E’ a Paul che competerà di sapere cosa dovrà essere e come, per essere, egli potrà usare le conoscenze acquisite. [40] B.F. Skinner : La révolution scientifique de l'enseignement, 1968 [41] Skinner, ibid. [42] Ibid., p 100-101 [43] Si guarderà con interesse al parallelo stabilito nell’opera di Skinner tra i meccanismi sperimentali destinati a studiare il comportamento dell’animale da una parte, e le « macchine per insegnare » di cui Skinner propone l’uso nelle lezioni dall’altra (Photos des pages 48 et 49). [44] Se la gente come Skinner più umilmente confinasse le proprie ricerche nel campo della ricerca di base e della psicologia sperimentale, si potrebbero molto semplicemente considerare queste ricerche e le loro analogie tra comportamento animale ed umano per ciò che sono. Abbiamo visto come le loro ambizioni e i loro propositi siano ben altri. Proponiamo dunque di rispedirli ai loro cari studi e gli chiediamo di non immischiarsi più nell’insegnamento! [45] Ibid., p 17-18 [46] Skinner, op.cit. [47] Ibid. [48] Ibid. [49] Ibid. [50] In questo dato momento del loro sviluppo, cioè negli anni ’70. Nella seconda parte vedremo che, se le formulazioni cambiano, i presupposti rimangono comunque gli stessi sotto altri nomi. [51] Ralph Tyler è uno degli autori che più ha contribuito alla definizione degli obiettivi pedagogici e dei loro criteri di operatività e ciò negli anni ’50. Daniel Hameline fa riferimento a lui e a lui s’ispira largamente nell’opera già citata. [52] Queste opere sono legioni, ma più che alle opere che annoiano i propri lettori con una pletora di considerazioni tecniche, è interessante fare riferimento a quelli che si propongono di argomentare a favore di queste pratiche pedagogiche. Si scopre che questi argomenti sono curiosamente reversibili. [53] Questi autori sono entrambi professori in « scienze dell’educazione » a l'Université Lumière-Lyon 2. Intervengono in numerosi domini, in particolare in quello della formazione dei maestri e degli organici educativi. Philippe Meirieu, molto presente in queste formazioni e in numerose pubblicazione, a titolo di autore o di presentatore, è d’altra parte il fondatore dellìassociazione "Apprendre". Attraverso i suoi scritti, le sue attività e la sua associazione, egli ispira ampiamente le « riforme » che si abbattono sulla scuola e che rischiano, in un futuro prossimo, di snaturarla. E’ stato incaricato della missione da Claude Allègre. [54] Emile, reviens vite... ils sont devenus fous, p181 [55] Questa opera è stata pubblicata nel 1985 dalla raccolta "Pédagogies" diretta dallo stesso Philippe Meirieu, con prefazione di Daniel Hameline. Non è necessario spingersi molto lontano gli appoggi ! [56] Ce terme est, bien entendu, un terme critique et ne saurait être assumé par Meirieu. [57] Meirieu, op.cit., p 88 [58] ibid., p 169-170 [59] Meirieu, Emile, reviens vite..., p 157, également L'école, mode d'emploi, note 1 p 67. [60] Meirieu vuol dire che, nella gerarchizzazione degli obiettivi qual’è quella che emerge dalle classificazioni fatte dai « tecnologi della pedagogia », gli importa di non sacrificare quelli che dovrebbero essere messi nella parte alta della gerarchia, di conoscere gli obiettivi più generali, quelli che si riferiscono agli scopi e alle finalità. Ma noi abbiamo vosto che, secondo Hameline, essi sarebbero « male operativi » perchè non osservabili, che sarebbero, in un certo senso, gli « obiettivi specifici dei poveracci ». [61] Emile, reviens vite..., p 158 [62] Questionari di Scelta Multipla, in cui è sufficiente spuntare la casella che corrisponde alla risposta giusta. [63] in Définir les objectifs de l'éducation, op.cit.p 19 [64] souligné par nous. [65] Rappelons que la première édition de cet ouvrage, souvent cité, date de 1979. [66] Hameline, op.cit., p 197 [67] Ibid., avant propos pour la huitième édition. [68] Hameline, op.cit., p 198 [69] Apprendre à philosopher dans les lycées d'aujourd'hui, Hachette Éducation, 1992 [70] La P.P.O, si deliziano di scrivere per manifestare senza dubbio la loro intimità con questa « pedagogia "pédagogie". [71] op.cit., p 32 [72] Emile, reviens vite...ils sont devenus fous, p 19 [73] Chi non nota che la consultazione dei liceali non fa altro che riprodurre oggi questa partecipazione di Gianni alla commissione Legrand e mettere gli alunni « consultati » sulla soglio dei miracoli rimedianti della pedagogia che gli viene astutamente suggerita, indignandoli contemporaneamente verso la scuola che essi ancora frequentano. [74] Cité page 27. [75] Si capisce meglio che Meirieu cerca a tutti i costi una conferma di questa noiosità nei questionari indirizzati ai liceali. E’ a questa condizione che potrà tirar fuori dal suo cappello la scuola nuova nella quale si fa la bella vita. Scommettiamo che i giochi sono già fatti : L’école, mode d’emploi data al 1985. [76] L’Express, n° 2389, du 22 au 28 février 1996. [77] L’articolo data febbraio 1996. A gennaio 1998, le domande poste ai liceali, agli insegnanti e al personale s’ispirano in modo molto evidente ai presupposti di questo preteso metodo e ai suoi pretesi successi. Claude Allègre apparirebbe bene, nelle opre che a commissionato dulla questione, come il compagno o l’ereditiere dei Lederman, Charpak et Cie. Egli ha tuttavia un problema, e non dei minori nel momento in cui si pretende di sottomettersi alle esigenze del metodo scientifico : nessuno è stato testimone di queste esperienze (?), e i destinatari di questa grande consultazione (?) non sono stati a conoscenza dei protocolli sperimentale che li avrebbero dovuti governare ! [78] Alain, Propos sur l’éducation. [79] Il ne suffira pas non plus de dire que Meirieu n’est pas le seul à s’être engagé dans cette voie : il partage en effet ce point de vue avec bon nombre de “ militants ” de la “ pédagogie active ” et d’adeptes de la “ pédagogie nouvelle ” dont on remarquera simplement qu’elle est ainsi désignée depuis plusieurs décennies, ce qui commence à faire date ! [80] Philippe Meirieu, L’école, mode d’emploi. Des méthodes actives à la pédagogie différenciée, E.S.F, p 136 et 137. [81] Ibid., p 138. [82] Que valent d’ailleurs de tels arguments : on a vu avec quelle facilité on pouvait les renvoyer aux envoyeurs. Qui prendra la responsabilité, en les employant, de faire de la question de l’école un simple effet de mode ? [83] Op.cit., p 170. [84] Ibid., p 171. [85] “ “Il mondo cambia, cambiamo con lui”,… “Bisogna pure adattarsi”. Non lasciamoci ingannare da questa retorica del cambamento che coinvolge l’analfabetismo informatico, che non è altro che pedagogia del condizionamento. Il terrorismo della novità viene proppo spesso a paralizzare qualsiasi messa in discussione di prospettiva, a dissuadere qualsiasi riflessione personale considerandola retrograda e sotto informata. ” Régis Debray, Que vive la République, Points, p 210. [86] Decano de l’inspection générale de philosophie de 1971 à 1983, L’école ou le loisir de penser, Editions du C.N.D.P, p 170. [87] Il titolo del libro di Monsieur Allègre, nel quale egli fa l’apologia di un certo tipo di scienza, o di una certa idea della scienza, è tutto un programma : La défaite de Platon. [88] J. Muglioni facendo notare che il beaviorismo è contemporaneo del taylorismo, può sicuramente ben dire che questa modo di concepire l’uomo e la società si accorda perfettamente alle teorie economiche liberali, che l’educazione che vi si ispira serve perfettamente la mondializzazione liberale e le gli interessi « determinati » altro non sono che quelli del mercato. [89] Hannah Arendt, La crise de la culture, p 234. [90] Ibid. [91] Ibid. [92] Ibid., p 234, 235. |
La pagina
- Educazione&Scuola©