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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Insegnamento e apprendimento

di STEFANO STEFANEL
Dirigente scolastico IC Pagnacco (Ud)

        Durante questo anno ponte e in attesa delle nuove Indicazioni nazionali, o qualunque nome gli venga dato, nelle scuole si è fermato il dibattito su tre oggetti fondamentali ed "interrotti" della didattica: la valutazione degli alunni e la necessità che questa valutazione trascenda la scheda quadrimestrale e diventi fortemente orientativa; i nuclei fondanti disciplinari e inter o pluridisciplinari che non pare interessino qualcuno nonostante la pubblicazione dello "socle" francese; i curricoli d’istituto, che sono dei documenti spesso poco più che formali, se pure ci sono. Tutti e tre questi oggetti misteriosi vanno a confluire su uno dei punti centrali della scuola italiana: l’orario di insegnamento.

        Il vuoto lasciato tra il 1999 e il 2001 dai Ministri Berlinguer e De Mauro ha lasciato ampio spazio all’”avventura” della Riforma Moratti. Le contestatissime Indicazioni nazionali, che ancora oggi qualcuno chiede vengano abrogate prima dell’emanazione delle nuove, coprivano un buco evidente, visto che i Programmi nazionali erano stati abrogati dal DPR 275/99 e vigeva una provvisorietà assoluta con quell’intreccio tra Programmi abrogati ma utilizzabili e Curricoli degli Istituti spesso neppure redatti. Se la scuola ha digerito male la Riforma Moratti è anche perché ha scambiato per professionalità il rifiuto a priori di tutto ciò che non nasceva dal basso, anche se questo voleva solo dire mantenere tutto fermo a fronte di pesanti richiami europei per risultati nel complesso deludenti.

        Credo che tutto questo sia avvenuto anche per la rigida determinazione dei docenti italiani a non voler discutere il proprio metodo di insegnamento basato sull’orario rigido settimanale e il proprio metodo di valutazione basato sull’identità ritenuta ineliminabile tra insegnante e valutatore. Il meccanismo su cui si basa la scuola italiana contraddice tutte le esperienze europee o dei Paesi più competitivi, ma poggia su questa dualità condivisa: le settimane di lezione devono essere uguali tra di loro perché questo è il modo migliore per insegnare il Programma; chi insegna deve anche valutare.

        La rigida divisione del monte ore annuale in orari settimanali tutti uguali tutela l’insegnamento - e infatti i Contratti collettivi nazionali parlano sempre di orario settimanale, - ma penalizza fortemente l’apprendimento degli alunni e li lega a schemi temporali che non sono più i loro. Il Mondo, che "incredibilmente" va avanti facendo in modo diverso da noi, ritiene che l’insegnamento più efficace sia quello modulare. Noi abbiamo dato il nome di modulo ad uno schema di distribuzione dei docenti nella scuola elementare, senza che ciò avesse alcuna attinenza con la parola originale. L’insegnamento per moduli (totale, ad esempio, nella scuola finlandese, parziale in quelle di lingua tedesca) presuppone una valutazione delle competenze, delle conoscenze e delle abilità acquisite modulo per modulo e non attestate una volta a quadrimestre o in forma generica su interrogazioni, compiti o prove su argomenti decisi dal docente. Inoltre l’insegnamento modulare non è molto interessato alla valutazione attraverso aggettivi (non sufficiente, sufficiente, buono, distinto, ottimo) o attraverso numeri, ma solo alla valutazione dei livelli di apprendimento realmente raggiunti.

        L’idea che l’organizzazione scolastica in quanto tale sia alla base del deficit di apprendimento degli alunni non pare trovare molta attenzione tra i docenti italiani, eppure da qualsiasi parte si guardi il problema sempre ai docenti si ritorna:

  • alta dispersione scolastica legata ad una scuola secondaria di 1° grado che non sa colloquiare con quella di 2° grado e viceversa;

  • esami non selettivi;

  • orientamento che non frena la dispersione;

  • debolezza congenita nell’uso veicolare dell’inglese;

  • attenzione spasmodica alle equazioni e un disinteresse totale per gli algoritmi (che tanto interessano India e Cina);

  • impossibilità di trasmettere alle altre scuole e al mondo del lavoro la reale consistenza delle competenze acquisite;

  • voti o giudizi che vengono letti solo da alunni e famiglie e non hanno alcuna rilevanza sociale.

        Ho citato solo alcuni punti eclatanti che stanno in cima all’attuale crisi della scuola italiana e non so se il metodo migliore per risolvere questi problemi sia quello di innalzare l’obbligo scolastico a 16 anni senza riformare seriamente nulla.

        Sono tra coloro che ritengono che la scuola italiana si scrollerà di dosso le pastoie dell’idealismo gentiliano solo quando smetterà di scambiare il proprio cattivo umanesimo per la via maestra da seguire. Non è chiaro a nessuno cosa si isdegna oggi nelle scuole italiane (i vecchi programmi? i curricoli redatti ai tempi di Berlinguer? le indicazioni nazionali? i curricoli che il Ministro Fioroni ha invitato a redigere nelle scuole con la nota del 31 agosto? i contenuti dei libri di testo? altro?), ma quello che è significativo è che a nessuno pare essere interessato o stupito da questo. Mentre in tutto il Mondo ferve il dibattito sui nuclei fondanti del sapere, da noi la gestione del sapere da disseminare è demandata alle case editrici. I libri sono pessimi e le scuole scoppiano di fotocopie, ma nessuno vuole prendere la questione per il suo verso fondamentale e quasi nessuna scuola vuole provare a costruire testi e ipertesti didattici in forma autonoma.

        La valutazione è stata tolta dalla complessità introdotta dal portfolio morattiano e riportata nel limbo delle opinioni dei docenti. E questo perché la valutazione quadrimestrale può tenere in vita azioni didattiche obsolete come i “compiti in classe mensili” di italiano, matematica e inglese o le interrogazioni con le domande a sorpresa. Tutto questo si declina poi in un tempo non logico, con salti da una settimana all’altra sullo stesso argomento e con una didattica seriale che garantisce solo l’insegnamento così come è inteso dai docenti, ma non l’apprendimento degli allievi. Aumenta tra i docenti la critica nei confronti degli stili educativi delle famiglie, delle scarse capacità di attenzione e di autocontrollo, di tempi e metodi di studio degli allievi, quasi che tutte queste cose non nascano mai dai metodi utilizzati per insegnare. Le famiglie in difficoltà presentano alla scuola richieste assurde e si dimostrano interessate quasi esclusivamente al tempo scuola, quasi che i contenuti di quel tempo non abbiano valore.

        E’ paradossale che le leggi degli ultimi dieci anni declinino sempre un monte ore annuale, mentre i contratti continuino a declinare monte ore settimanali. Le scuole fanno quello che possono, con l’autonomia schiacciata da sedimenti antichi che difficilmente sono modificabili, anche perché i dirigenti parlano a voce alta di professionalità, ma poi chiedono come tutti sanatorie e contratti che li garantiscano soprattutto dall’essere valutati. Se la scuola italiana arretra, i docenti sono insoddisfatti, gli alunni non apprendono come dovrebbero, la dispersione è alta forse qualcosa sarà da rivedere. Chissà che utilizzando gli studi sullo sviluppo degli apprendimenti non si comprenda come alcune discipline è meglio insegnarle in forma seriale e altre in forma modulare. Così magari finisce lo sconcio della lotta per non avere ore buche, per avere il sabato libero, per non venire a scuola alle otto, per avere tutte le settimane uguali e si inizierà realmente a sottoporre il proprio insegnamento all’unica valutazione accettabile: quella del reale apprendimento degli alunni.


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