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La valutazione degli alunni (*) di STEFANO STEFANEL
Premessa. Circa vent’anni fa insegnavo nella Scuola Media di Rivignano ed avevo un alunno, Ennio, molto intelligente ma disinteressato allo studio, già bocciato per due anni di seguito ed affidatomi in quanto a quel tempo ero un “giovane” professore con la fama di essere capace di reggere i peggiori soggetti della scuola. Questo Ennio voleva lavorare i campi col padre e il fratello per prendersi una Porsche allo scoccare dei 18 anni. E con quella Porsche andare a ragazze. Tutto il resto era contorno. Ennio era intelligente e io ritenevo che fosse meglio fargli avere il diploma di terza media piuttosto che bocciarlo una terza volta. Un giorno mi ero spazientito perché, più gli facevo domande molto facili di storia, più lui stava zitto e si agitava. Così gli ho detto: “Ennio, ma tu preferisci imparare a memoria venti righe e poi dirmele all’esame o che ti dia due o tre bastonate sulla schiena e lasciamo perdere con la storia?” Ennio fu deciso ed impulsivo: “Stefanel, lasciami uscire che vado a prendere il bastone”. Non vedo Ennio (che ho promosso) da vent’anni, ma credo faccia l’agricoltore, abbia una famiglia, voti per il centro destra. Eppure io, come tutti, volevo valutarlo con una “domanda delle cento pistole”, cioè volevo valutare il suo processo formativo attraverso un quiz su nozioni. La valutazione degli alunni. Ennio mi è tornato in mente leggendo la contorta prosa del Ministro, laddove parla della valutazione degli alunni nella Nota di indirizzo del 31 agosto 2006. Il concetto di “sobrie schede di valutazione” aveva messo in moto un meccanismo di oggettiva richiesta da parte delle scuole e dei sindacati di modelli ministeriali uguali per tutti, più facili da compilare a mano che da stampare al computer, ma poi la nota del 10 novembre 2006 ha di fatto confermato che ogni scuola fa quello che ritiene opportuno, valutando,comunque, ciò che sta prescritto nella Riforma Moratti.[1] Provo a ragionare sulla valutazione degli alunni, senza alcuna pretesa di fermare l’onda neocentralista che sta avanzando in nome dell’autonomia, ma solo per esporre alcune considerazioni, legate ad un’analisi sull’argomento che sta attraversando la scuola di cui sono dirigente[2]. Il Portfolio con la sua travagliata vita aveva aperto nelle scuole veri cantieri progettuali. Interessante è notare che i cantieri hanno avuto impulso più da due Circolari (la 85 del 2004 e la 84 del 2005) che da norme di legge (il d.lgs 59/2004 o prima ancora il DPR 275/99) e questo la dice già lunga sull’autonomia scolastica e la percezione che di questa hanno molte scuole e molti dirigenti. Il Portfolio stava spostando l’attenzione dal formalismo della valutazione degli alunni ad un confuso ma vivace itinerario sostanziale da percorrere sul concetto complessivo di valutazione del processo formativo. Il Portfolio stava instillando nelle scuole italiane il dubbio che la valutazione fosse altro dal dare solo voti alle “superiori” e dal trasformare tutto in “non sufficiente-sufficiente-buono-distinto-ottimo” alle “medie” e alle “elementari”. Inoltre con il dibattito sul Portfolio stava perdendo peso quella “frase in fondo” alla scheda che ci si ostina a chiamare “giudizio analitico” in dispregio a Kant. La positività processuale. La valutazione degli alunni nella scuola italiana è condotta attualmente in forme così autoreferenziali e poco scientifiche. Tutto questo renderebbe necessaria una ridefinizione totale della questione, in linea con quanto chiede l’Europa. Il Portfolio aveva introdotto nelle scuole un processo di “autoanalisi” sulla valutazione degli alunni che andava ad analizzare il complesso degli argomenti da valutare (abilità, conoscenze, competenze, capacità, attitudini, ecc.). L’elemento caratterizzante la positività del dibattito sul Portfolio non è stato tanto la redazione di un modello o la esaustività di quel modello, quando l’aver spostato l’attenzione dalla scheda di valutazione ad un più complesso spettro “oggetti” da valutare. Direi che se la mia critica all’attuale sistema di valutazione ha una sua congruenza, diventa necessario capire quali sono gli “oggetti” della valutazione degli alunni e di questi tenere poi conto, perché ad ogni oggetto deve corrispondere un preciso strumento di rilevazione e valutazione. Le competenze non vengono rilevate dalla scheda di valutazione, mentre è fondamentale che oggi nella scuola lo siano: nel Portfolio era possibile considerare anche competenze sviluppate nell’extra scuola o laterali rispetto al processo tradizionale di apprendimento degli alunni, mentre nella scheda di valutazione no, soprattutto se redatta con un modello unico nazionale. Pensiamo alle seguenti situazioni, che forse sarebbe il caso la scuola iniziasse a certificare e valutare: v certificazione della sola competenza veicolare della L1 laddove questa è diversa da quelle insegnate a scuola, anche attraverso la valutazione della diversa rilevanza sociale ad esempio del ghanese o dell’arabo rispetto allo spagnolo; v certificazione di particolari parti disciplinari: penso ad esempio all’insegnamento degli algoritmi, insieme o in alternativa alle equazioni; v descrizione e monitoraggio di percorsi così individualizzati da essere al limite della personalizzazione; v valutazione delle attività opzionali, sia che costituiscano un accrescimento della curricolarità, sia che costituiscano “materie” o “discipline” autonome; v possibile attivazione di un sistema dei crediti anche all’interno della Scuola primaria e Secondaria di 1° grado al fine di rendere effettivamente biennale i periodi didattici e non considerare i bienni solo come una definizione formale di cui non tenere conto; v conoscenze e abilità degli alunni in ambiti e materie non comprese nelle classi di concorso, ma pienamente integrate in quello che sono i saperi sociali necessari: penso alle nozioni di meccanica, alla conoscenza dei motori a scoppio, alla conoscenza del funzionamento dei circuiti elettrici, a nozioni di agricoltura, alla competenza sulla coltivazione di verdure e frutti, ecc. che molti alunni sviluppano fin dai primi anni della Scuola primaria e che nella Scuola secondaria di 1° grado finiscono per professionalizzare anche al di là degli intenti delle scuole; v valutazione del rapporto tra tempo scuola, compiti per casa, impegno sportivo per i ragazzi che praticano l’agonismo per scelta personale e/o familiare e che non vedono questa scelta tenuta in considerazione nell’ambito valutativo, quasi che partecipare ad un Campionato italiano o ad un Campionato europeo o addirittura del Mondo o Olimpico (si pensi alla ginnastica artistica) sia un fattore privo di interesse per la scuola; v valutazione delle competenze musicali e strumentali con l’avvio di percorsi di approfondimento; v valutazione del tutoraggio che gli alunni possono realizzare nei confronti dei propri compagni o dei docenti in alcuni settori (musica, informatica, ma anche lingue straniere laddove la propria L1 non è l’italiano, ma è ad esempio l’inglese o il francese). Mi fermo qui perché il mio non vuole essere la proposta per un elenco di competenza da valutare, ma solo un elenco di possibili “casi” su cui riflettere. Sono tra coloro che ritengono che il Portfolio su tutto questo aveva iniziato a mettere in moto riflessioni, che ora il Ministro Fioroni con una semplice nota ha interrotto. La brutalità del “si suggerisce di soprassedere” della Circolare allegata alla Nota mostra disprezzo verso chi ha lavorato nell’applicazione della Riforma Moratti. E tutto questo ha un valore politico ed ideologico, anche nel momento in cui spezza il legame tra valutazione degli alunni e analisi delle componenti di questa valutazione. Il pubblico della valutazione degli alunni. Per i motivi sopra esposti non è di minore importanza verificare qual è il reale pubblico della valutazione. In regime di autonomia e di responsabilità le scuole non possono non considerare chi sono i loro interlocutori, in un settore così delicato come è quello della valutazione degli alunni. La valutazione degli alunni ha un pubblico ristretto: sia la scheda di valutazione, sia il Portfolio della Moratti contano su un pubblico di lettori molto ridotto. Ci sono molti redattori della scheda (le équipe pedagogiche) e questi si riferiscono nella maggior parte dei casi ad un pubblico così delimitabile: v un alunno v due genitori v quattro nonni. Nessun altro legge quelle schede e meno che meno gli insegnanti delle classi successive, quelli che cambiano o quelli di una scuola diversa. Penso di poter sostenere che in Italia non più del 50/55% dei lettori capisca correttamente il contenuto della “frase in fondo” (giudizio analitico), mentre il 100% dei lettori conta quanti sufficienti o buoni o ottimi un alunno ha, indipendentemente dalla materia in cui li ha acquisiti. Penso inoltre di poter osservare che il 100% dei lettori non corrisponde al 100% dei potenziali lettori, visto che molti potenziali lettori la scheda non la leggono per niente. Ci sono zone colte d’Italia in cui la percentuale di comprensione della “frase in fondo” (giudizio analitico) sarà del 70% e zone rurali o in difficoltà culturale in cui sarà del 30%, ma quello che mi sento di sostenere è che molti lettori, ammesso che leggano, non capiscono quello che c’è scritto. E allora perché e per chi scriverlo? E perché trasformare ogni cosa in aggettivo, dato che non di giudizio sintetico si tratta (sempre in spregio a Kant), ma di semplice aggettivo (“Distinto”: come un Lord inglese). La questione del pubblico della valutazione è molto sottovalutato da tutti coloro che vogliono una scheda unica che valuti o certifichi conoscenze o abilità o competenze a livello nazionale, perché mi pare costoro non si rendano conto della pericolosità di far confluire in un unico luogo cose diverse, che troppo spesso il “pubblico” non comprende. Proprio perché alunni, genitori e nonni si aspettano la valutazione, la sua riduzione a poco (quanti buoni e quanti distinto ci sono nella scheda) e non compreso (la criticità di troppe “frasi in fondo”) costituisce il modo in cui la scuola banalizza se stessa cercando di rendersi leggibile dall’utenza. E questa pretesa di leggibilità diventa quasi patetica allorché l’utenza non comprende e tutto il mondo ci sta dicendo che la nostra scuola valuta male e produce dispersione. La scuola italiana oggi con gli strumenti di cui si è dotata è in grado di certificare solo ed esclusivamente la promozione alla classe o al periodo successivo, tutti gli altri metodi certificativi non possono passare dalla scheda di valutazione. Tutti concordi sulla necessità di una scheda nazionale. Anche se palesemente contro le norme dell’autonomia mi pare ci sia una richiesta molto ampia di scheda unica nazionale, anche se tutto è stato rinviato di un anno. La frase del Ministro Fioroni più volte citata, “L’attestazione di traguardi intermedi via via raggiunti negli apprendimenti sarà affidata a sobrie schede di valutazione” (Nota del Ministro del 31 agosto 2006), viene da molti considerata come il salvifico approdo al porto sicuro della scheda compilata su modello nazionale, quasi che le schede legate alla legislazione precedente la Riforma Moratti abbiano mai certificato qualcosa. Mi pare che sia all’attuale Ministro che al precedente stiano a cuore più le coperture della debolezza della valutazione italiana che l’analisi la sua reale qualità. Ridurre tutto il processo formativo ad aggettivi e frasi che non chiariscono cosa realmente l’alunno sa o non sa (anche fare) è uno di quei processi che allontanano sempre di più la scuola italiana dagli obiettivi di Lisbona, che sono sostanziali e non formali, come invece lo è la nostra valutazione. Ci sono moltissimi maestri e professori che danno nel primo quadrimestre un voto più basso per poterlo poi “alzare” nel secondo quadrimestre, così in alcune classi della Scuola primaria ci sono molti distinto e nessun ottimo a febbraio e molti ottimo e pochi distinto a giugno: un vero capolavoro di “scientificità casalinga”, perché una valutazione del genere può essere fatta a priori (come direbbe a questo punto anche Kant) senza tenere in alcun conto il processo formativo. Se leggiamo autori come Tiriticco, Spinosi, Cerini[3] troviamo gli stessi argomenti di quelli enunciati da Piero Cattaneo su “Scuola & didattica”[4]. Sembra quasi che due anni di dibattito e di analisi abbiano solo dimostrato che le scuole siano capaci di fare confusione quando devono applicare la loro autonomia. I paladini del centralismo in nome dell’autonomia non riescono a leggere insieme gli articoli 4 e 10 del DPR 275/99, quasi che le parole non abbiano più un senso laddove il centralismo mentale della pedagogia italiana gliene vuole dare un altro. L’art. 4, infatti, lascia alle scuole del curricolo, dell’opzionalità e della facoltatività il compito di individuare “modalità” e “criteri di valutazione degli alunni nel rispetto della normativa nazionale”. Mentre l’art. 10 assegna al Ministro il compito di adottare “nuovi modelli per le certificazioni, le quali indicano le conoscenze, le competenze e le capacità acquisite e i crediti formativi riconoscibili”. Non so se il testo risponde alla volontà comunicativa dell’estensore, ma certamente quello che ne viene fuori è un quadro molto chiaro: lo Stato indica alcuni standard, le scuole modulano la valutazione periodica. Cosa c’entri questo con la scheda di valutazione unica proprio non lo so, ma se si vuole stroncare la riflessione sulla valutazione degli alunni allora è proprio il caso di stampare, l’anno prossimo, una “sobria” scheda nazionale con voci tutte uguali e invitare le scuole a preparare foglietti sparsi per le attività opzionali e facoltative in modo che ricomincino a valere meno di zero. La frase in fondo. Mi permetto di analizzare due “pessime pratiche” in uso nella scuola di cui sono dirigente. Ho trascritto a caso due “frasi in fondo” di una classe 4^ (Primaria) e 2^ (Secondaria di 1° grado). Le due frasi non hanno nulla a che vedere con un giudizio analitico, ma la loro attenta analisi permettere di evidenziare gravi problemi comunicativi. Questi problemi comunicativi tolgono all’attuale metodo di valutazione degli alunni anche quel minimo di scientificità comunicativa che si richiederebbe nei confronti delle famiglie. Tra l’altro le “frasi in fondo” da me riportate sono assolutamente normali e accettabili e comunque in linea con quello che le scuole normalmente producono. E sono state scelte rigorosamente a caso. Analizzate nel dettaglio indicano poca riflessione, molta confusione terminologica, nessuna notizia chiara trasmessa all’utenza.
La via d‘uscita. Forse esiste una via d’uscita, ma anche questa sta tutta nella professionalità dei docenti e dei dirigenti scolastici. Prendendo spunto dall’esperienza inglese penso sarebbe interessante costruire dei modelli per la valutazione del valore aggiunto. Una docente che deliberatamente valuta nel primo quadrimestre con un giudizio o voto inferiore per poi alzarlo nel secondo quadrimestre si troverebbe molto in imbarazzo a dare conto del “valore aggiunto”, laddove si analizzasse la sua valutazione per più anni scolastici. Ci sono poi dei modi molto semplici per calcolarlo (dare un punteggio ai giudizi sintetici ed individuare altre voci, quali l’impegno, il comportamento, il civismo, ecc.): in questo caso il valore aggiunto verrebbe calcolato in maniera soggettiva, ma evidente. Ci sono poi anche modi più sofisticati, che combinano la valutazione degli apprendimenti a quella delle capacità o potenzialità e si spingono fino alla certificazione delle competenze. Potrebbe anche essere interessante verificare quante sono le competenze che una scuola ritiene necessarie, in attesa che il Ministero dica la sua, e poi confrontare quello che ha pensato la scuola con ciò che il Ministero definirà o, in assenza di questo, almeno con lo “socle” francese, pubblicato anche in italiano[5]. Ma ci sono anche meccanismi di analisi di situazioni particolari, valutate attraverso il metodo dell’acquario e che sono fondamentali nella scuola (uso della biblioteca, uso di internet, uso del computer, uso degli strumenti musicali o artistici, uso delle tecnologie redazionali, ecc.). Credo sia importante problematizzare il percorso della valutazione e situarlo nello spazio della società che si evolve, cercando di cogliere anche la valutazione nel suo sviluppo “storico critico”, per accompagnare la crescita dell’alunno nell’organizzazione in cui studia. Laddove poi questa organizzazione è a legami deboli e in forte processo di apprendimento tutto questo non può non riflettersi su come e perché l’alunno è valutato, in funzione formativa, orientativa e, possibilmente, obiettiva.
[1] “…ivi compresi gli insegnamenti o attività facoltativo-opzionali, e del comportamento degli alunni” ! [2] Sul sito www.pavonerisorse.it e su quello www.icpagnacco.it è stato pubblicato a inizio settembre il testo “Un anno vissuto pericolosamente. La certificazione delle competenze nell’Istituto comprensivo di Pagnacco” che fornisce la dettagliata informazione sul processo certificativo messo in atto nell’Istituto comprensivo di Pagnacco in provincia di Udine. Il lavoro è stato reso possibile solo dall’applicazione della Riforma Moratti e dal tentativo di spostare la valutazione degli alunni dalle conoscenze e abilità alle competenze. [3] Si vedano i tre volumetti editi da Tecnodid della collana “Notizie della scuola” n° 9 (1-15 gennaio 2005), n° 8 (16-31 dicembre 2005) e l’allegato al n°2-3 (16 settembre-16 ottobre 2006) che con una ricca serie di interventi e in tempi diversi sostengono la necessità di una scheda predisposta a livello ministeriale uguale per tutto il territorio nazionale. [4] Piero Cattaneo, Valutare gli apprendimenti scolastici: status quaestionis, “Scuola & didattica” n° 4 del 15 ottobre 2006. [5] Francia: lo zoccolo comune delle competenze, sul sito www.adiscuola.it. |
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