Milano, 21 novembre 2003
Incontro sul primo decreto attuativo della legge 53/2003
Presenti il Prof. Giuseppe Bertagna, Direttore CISEM, e
il Dott. Massimo Nutini, Commissione scuola Anci nazionale
…ma la scuola, si ritira?
Proposte e perplessità degli enti locali
di Massimo Nutini
Dedicato a chi mi ha esortato, dopo l’uscita del libro
La riforma Moratti e le autonomie scolastiche e locali,
a misurarmi con un lavoro di maggiore consistenza critica.
I Comuni e le riforme del sistema d’istruzione
Non vorrei che qualcuno ritenesse che i Comuni debbano essere coinvolti
nella discussione sui modelli organizzativi del servizio scolastico solo
in relazione alle questioni sociali o alle competenze loro assegnate
dalla normativa obsoleta, per quanto in gran parte vigente, che
definisce le funzioni relative alla somministrazione delle strutture e
dei servizi di supporto e di assistenza scolastica.
Ancora di meno vorrei che si pensasse ai Comuni come a enti che
potrebbero docilmente subentrare in spazi e servizi che qualcun altro ha
pensato, e attribuito loro, in modo implicito, senza un aperto confronto
sulle prospettive generali, sugli obiettivi e sulle risorse.
Si tratta di questioni delle quali certo dovremo discutere, sicuramente
anche in relazione ai modelli organizzativi, ma sono qui per affermare
che gli enti locali hanno da dire la loro su tutto ciò che sta capitando
alla scuola nel nostro paese e hanno da esprimere preoccupazioni e
proposte confrontandosi con l’impianto complessivo, e non solo con parti
di esso, dell’intera riforma del sistema educativo d’istruzione e
formazione.
Sarebbe un grave errore ritenere questa una presunzione: pensare che ci
siamo montati la testa a seguito del nuovo ruolo assegnato dalle norme
sul decentramento amministrativo, prima, e dal nuovo Titolo V della
Costituzione, poi.
La storia della scuola in Italia testimonia che gli enti locali sono, da
sempre, partecipi alle trasformazioni del sistema educativo e, non di
rado, animatori di innovazioni e riforme di questo sistema.
Mi pare utile ricordare, in questa sede, due esperienze che introducono,
in realtà, il contributo che intendo portare con questo intervento.
I vecchi doposcuola comunali
Nella seconda metà degli anni sessanta mi sono ritrovato a discutere con
il Sindaco di un piccolo comune sulla necessità di organizzare un
servizio di doposcuola comunale, per la scuola elementare.
Si voleva andare incontro alle richieste di tanti cittadini, che avevano
bisogno di lasciare i figli a scuola anche di pomeriggio.
Espletate le procedure necessarie per l’attivazione del servizio, si
presentò il problema di definire quali attività dovevano essere svolte
durante le ore pomeridiane. Si decise, semplicemente, di chiedere alla
scuola cosa era meglio per quei ragazzi e si organizzò, sull’argomento,
un incontro con il direttore didattico e con le insegnanti del plesso.
Che cosa ci fu suggerito? Vi lascio un attimo per pensarci…
Ci venne detto che questi ragazzi, nel pomeriggio, dovevano fare i
compiti.
Dovevano fare i compiti.
Nel primo incontro con le giovani insegnanti comunali, assunte a tempo
determinato per il doposcuola, dicemmo che il loro compito era …far fare
i compiti.
Non era ancora trascorso un mese dall’inizio delle attività che, un
sabato mattina, tutte le insegnanti del doposcuola piombarono in Comune
chiedendo un incontro immediato con il Sindaco e con l’Assessore alla
pubblica istruzione.
Che cosa era accaduto per avere bisogno un intervento così urgente?
Le giovani insegnanti non volevano far fare i compiti!
Ed erano venute a dire che:
“Non tutti ne hanno necessità, molti di loro hanno bisogno di altre
cose, di altre attività… sono di dieci classi diverse, hanno compiti
diversi; ne risulta una situazione frustrante e ingestibile, per noi e
per i ragazzi… Gianni e Manuela sono bravissimi a dipingere, con loro si
potrebbe fare… il nonno di Paolo potrebbe venire a raccontare la sua
storia avventurosa… Gennaro, che è una vera tragedia dal punto di vista
strettamente scolastico, è sempre allegro e simpatico, potrebbe recitare
e, inoltre, sa smontare la bicicletta …le “Maestre” del mattino certo
non si sono accorte di queste potenzialità e attitudini, continuano a
riempirlo di compiti, qualcuno dati in più, per punizione …perché non
provare a valorizzarlo e a motivarlo a partire dai suoi interessi
…vogliamo parlare con il Direttore!”.
Quante esperienze simili a questa sono state vissute in Italia in quegli
anni? E quante volte, a partire dalla questione dei compiti, ci siamo
trovati a discutere della scuola tutta intera …quasi che sotto a quella
questione “di dettaglio” ci fosse un iceberg, enorme, sommerso?
In toscana ce ne sono state sicuramente tante. Forse non è un caso se
quel signore con i capelli ricci, di una famosa filastrocca di Gianni
Rodari, era proprio di Scandicci, e nemmeno se Clotilde Pontecorvo ha
presentato, tanti anni or sono, uno studio sul primo tempo pieno del
Comune di Bagno a Ripoli.
In quel Comune, proprio per superare i limiti del doposcuola, fu
sperimentata una pionieristica scuola a tempo integrato che poi confluì
tra le prime esperienze di tempo pieno, per le quali la legge 820/1971
aveva previsto le prime possibilità di realizzazione.
Nelle stanze del Comune, il personale della scuola e quello dell’ente
locale, …e quante assemblee con i genitori!, progettavano e
riprogettavano, anno per anno, il modello organizzativo del servizio
scolastico.
L’esperienza delle sezioni “ponte” tra nido e materna
Qualcosa di simile è accaduto una decina d’anni più tardi quando, per
rispondere alle pressioni delle famiglie che chiedevano una maggiore
risposta alla domanda di asilo nido, abbiamo pensato di inserire bambini
di due anni e mezzo nelle sezioni dei tre anni della materna.
Eh sì! Proprio l’anticipo, quello che stiamo tanto criticando in questi
giorni, per come è previsto dalla legge 53. Proprio l’anticipo,
l’abbiamo sperimentato prima, e da tanto tempo, nelle scuole comunali.
Ma come lo abbiamo fatto?
Le sezioni “ponte” come le chiamano al Comune di Roma, o “primavera”
come le chiamano in Emilia Romagna, o “Ni-Ma”, come le chiamiamo nel
Comune di Prato, mettono insieme una quindicina di utenti in età di
materna con una decina di utenti in età di nido.
Il personale assegnato è pari a due educatrici di nido e due insegnanti
di materna, dove gli utenti in età di nido effettuano un orario anche
pomeridiano, e ad una educatrice di nido e due insegnanti di materna,
nei casi in cui gli utenti in età di nido effettuano solo un orario
mattutino.
Il rapporto utenti/educatori è rispettoso, per gli utenti di età
inferiore ai tre anni, agli standard definiti dalle normative regionali
in materia. Gli spazi e gli arredi sono riprogettati, anche per tenere
conto delle necessità degli utenti più piccoli. Il piano dell’offerta
formativa è rielaborato in relazione alle caratteristiche di questa
nuova fascia d’utenza. Non si attivano sezioni di questo tipo, che
sottraggono di fatto posti alla scuola dell’infanzia, in presenza di
liste d’attesa per tale servizio.
Si tratta di poche, limitate, esperienze in quanto, com’è facile
intuire, la garanzia di adeguati standard qualitativi comporta costi di
difficile sostenibilità per gli enti locali.
Vedremo, più avanti, che lo Stato non ha previsto alcuna risorsa
aggiuntiva per l’attuazione dell’anticipo nella scuola dell’infanzia,
ma, prima di cambiare argomento, non voglio tralasciare un cenno ad uno
dei principali motivi per il quale i Comuni, che hanno avviato questa
esperienza, resistono alle difficoltà economiche che ne derivano, e
continuano a portarla avanti.
Nelle sezioni “ponte” tra nido e materna avviene un confronto tra due
diverse professionalità educative, quella dell’educatrice e quella
dell’insegnante, che rappresenta un’opportunità unica di formazione in
servizio: l’attenzione ai rapporti con le famiglie ed al cosiddetto
curricolo implicito dell’educatrice si confronta, e a volte si scontra,
con le competenze organizzative e di programmazione dell’insegnante.
È
un confronto dal quale, ambedue le figure, ne escono arricchite e
trasformate. Queste sezioni rappresentano, quindi, veri e propri
laboratori della continuità nei servizi da zero a sei anni. A tutte le
educatrici e le insegnanti viene offerta la possibilità di svolgere tale
esperienza.
Vorrei sottolineare, a proposito di modelli organizzativi, che le
modalità di utilizzazione del personale educativo sono lasciate
all’autonoma decisione di ogni singola scuola. Abbiamo conosciuto
esperienze nelle quali tutte le insegnanti ruotavano nei turni
indipendentemente dalla presenza degli alunni di riferimento e altre
dove le educatrici e le insegnanti costruivano i loro turni per rimanere
nelle fasce di presenza degli alunni di riferimento.
Ciò di cui di cui vi sto parlando ha nomi: autonomia e collegialità.
Solo che il concetto, in questo caso, è applicato addirittura al singolo
plesso, alla singola scuola, che è poi tenuta a verificare e a
relazionare sul modello adottato.
Vi invito a pensare alla differenza tra questo modello di autonomia,
sperimentato dai comuni nei servizi alla prima e seconda infanzia, e un
modello che preveda scelte operate, nell’ambito di un intero istituto,
sulla base di modelli organizzativi suggeriti centralmente.
Vi invito a pensare a quanta diversità può esserci tra un’autonomia,
come quella a cui ho fatto cenno, esercitata in un quadro di risorse,
umane, strumentali e finanziarie certe e un’autonomia proclamata senza
alcuna certezza sulle risorse disponibili.
Vi invito a riflettere, infine, prendendo spunto da questa breve
narrazione, sui motivi per i quali è universalmente riconosciuto il
contributo che i Comuni hanno dato per la crescita dell’attenzione ai
temi dell’educazione infantile e sui motivi per i quali l’esperienza nei
servizi per l’infanzia dei Comuni italiani costituisce un punto di
riferimento per le riflessioni che si svolgono nella comunità
scientifica internazionale.
Le risorse per l’anticipo nella primaria
La relazione tecnica che accompagna, nel suo iter presso la Conferenza
Unificata e presso le Commissioni parlamentari competenti, la bozza del
primo decreto attuativo della legge 53, relativo alla scuola
dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione, si dilunga per
dimostrare che il decreto in questione non determina nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica e che, di conseguenza, non è necessario il
preliminare e propedeutico provvedimento legislativo che stanzi le
occorrenti risorse finanziarie, per come obbligatoriamente previsto, in
presenza di maggiori oneri, dal comma 8 dell’art. 7 della stessa legge
53.
Intendo dimostrare, in questa sede, invece, che la mancanza di ulteriori
risorse finanziarie renderà impraticabile l’attuazione del decreto sia
nella sua versione ufficiale attuale (cioè l’articolato, per come
approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri del 12 settembre
scorso) sia, e ancor di più, nella sua versione ufficiosa (quello che si
impara, cioè, dalle parti illustrative che, in modo poco ortodosso, sono
state inserite nel testo disponibile sul sito istituzionale del Miur).
Parliamo, per adesso, solo dell’anticipo.
Le risorse stanziate per tale intervento sono stabilite dall’art.7,
comma 5, della 53 in 12.731 migliaia di euro per l'anno 2003, 45.829
migliaia di euro per l'anno 2004 e 66.198 migliaia di euro a decorrere
dall'anno 2005. Spalmando sugli anni scolastici tali somme (il gioco
degli otto dodicesimi e dei quattro dodicesimi) si ricava che le risorse
per gli anni scolastici 2003/2004 e 2004/2005 sono, rispettivamente,
43.284 migliaia di euro e 59.408 migliaia di euro.
Tali somme, in realtà, sarebbero destinate dalla legge non solo al
finanziamento dell’anticipo nella scuola primaria, ma anche a quello
della scuola dell’infanzia. Su questo torneremo più avanti. Proseguiamo,
per adesso, con i conti, prendendo per buona la scelta, in realtà molto
discutibile, che è stata operata nel non riservare alcuna risorsa per
l’anticipo nella scuola dell’infanzia.
La circolare con la quale sono state riaperte le iscrizioni per attuare
l’anticipo nell’elementare nell’anno scolastico 2002/2003, la n.37 del
11 aprile 2003, porta in allegato una tabella dalla quale si evince che,
con la somma destinata a tale anno si è resa disponibile una dotazione
aggiuntiva di 1472 posti.
Applicando gli stessi parametri si può calcolare che con la somma
destinata per l’anno scolastico 2003/2004 si potrà attivare una
dotazione aggiuntiva di 2020 posti.
I
potenziali utenti dell’anticipo erano, nell’anno scolastico in corso,
circa 87.000. Hanno utilizzato tale opportunità in circa 23.000; poco
più del 25%. Ipotizzando l’estensione massima dell’anticipo (i nati fino
ad aprile) abbiamo che potenziali utenti dell’anticipo saranno, per
l’anno scolastico 2003/2004, circa 175.000.
Quale percentuale di adesione dobbiamo ipotizzare, per il prossimo anno
scolastico? Non possiamo certo basarci sul numero degli utenti che si
sono espressi in tal senso nella prima attuazione della legge. Sappiamo
tutti che le iscrizioni sono state riaperte in fretta dal 18 al 30
aprile, periodo nel quale le scuole sono state aperte, tra vacanze di
Pasqua, 25 aprile e primo maggio, solo due giorni!
Forse non possiamo neppure basarci sui sondaggi di gradimento resi noti
prima dell’approvazione della legge, che rilevavano un notevole
gradimento di tale opportunità.
Utilizziamo un dato medio: ipotizziamo solo il 50% degli aventi diritto.
Una percentuale inferiore, considerata la dovuta sottrazione della parte
di utenti che già anticipava con il sistema della primine,
significherebbe un’oggettiva e pesante smentita dell’interesse delle
famiglie per tale modificazione ordinamentale.
Ebbene, considerando che per accogliere i 23.000 utenti anticipatori
dell’anno in corso sono stati necessari circa 1230 posti d’organico
(risulta, infatti, che circa 240 posti, dei 1472 disponibili, sono
residuati ed utilizzati per la generalizzazione dell’inglese), si può
facilmente calcolare che per i circa 57.000 utenti aggiuntivi
ipotizzabili per il prossimo anno scolastico (circa 80.000 meno i circa
23.000 che già hanno liberato posti anticipando nell’anno precedente)
sarebbero necessari ben 3.000 posti mentre, come abbiamo appena visto,
le risorse stanziante ne possono finanziarne solo 2020.
Voglio ancora sottolineare che il ragionamento, puramente matematico,
che ho appena svolto comporta una stima al ribasso, in quanto non tiene
conto di alcuni fattori che quasi certamente provocheranno una
lievitazione nella necessità di organico in incremento.
Il primo di questi fattori è la buona probabilità che l’adesione
all’anticipo sia ben più alta della percentuale qui ipotizzata.
Il secondo fattore è l’esponenzialità delle esigenze di organico in
relazione all’incremento dell’utenza. Credo risulti a tutti evidente che
le prime migliaia di utenti in aggiunta hanno maggiore possibilità di
trovare posti nel completamento del numero massimo degli alunni per
classe. Con l’aumentare del numero, invece, la probabilità che risulti
necessario lo sdoppiamento di alcune classi diviene sempre più alta.
Il terzo fattore è la certezza del diritto. Vi invito a chiedervi cosa
potrebbe accadere se tutti gli utenti cui viene offerta la possibilità
di anticipare di un anno decidessero di avvalersi di tale opzione? Come
si potrebbe dir loro, a un certo punto, che i posti sono finiti? Come
proporre un anno d’attesa per l’esercizio di un “diritto dovere
legislativamente sanzionato”?
Visti questi semplici ragionamenti risulta molto facile azzardare una
previsione.
Non ci sarà, per il prossimo anno scolastico, la possibilità di
concedere la facoltà di anticipo dell’iscrizione per tutti i nati nel
periodo gennaio-aprile 1999. Ovvero, se ci sarà una disposizione in tal
senso, si dovrà procedere a finanziare, con un provvedimento successivo,
ulteriore ed urgente, un aggiuntivo incremento degli organici.
Da più parti è stato suggerito al Ministro di programmare una gradualità
nell’attuazione del provvedimento di cui stiamo trattando.
Sarebbe possibile in questo modo realizzare quel coinvolgimento dei
protagonisti principali del sistema, che risulta tanto enfatizzato
quanto poco praticato.
Purtroppo, gli attuali responsabili del Ministero (si vedano le
dichiarazioni del sottosegretario Aprea qui a Milano, proprio pochi
giorni fa, che va in giro a dire che al decreto non sarà aggiunta una
virgola e che già è stata prenotata una Gazzetta Ufficiale di metà
gennaio per la pubblicazione) preferiscono fare il gioco degli annunci
trionfalistici, salvo poi adottare provvedimenti affrettati e “tampone”,
come è avvenuto per i due decreti estivi dei progetti nazionali di
sperimentazione, pur di non prendere atto che le difficoltà che le loro
proposte incontrano sono segno dell’oggettiva necessità di un maggiore
approfondimento e non frutto di un oscuro complotto ordito da chissà
chi.
Preferiscono, come vedremo poco più avanti, delegare a provvedimenti
amministrativi (DM e circolari) alcune scelte fondamentali che invece
dovrebbero essere operate con decreti legislativi. Pare che in questo
modo si riesca a confondere le idee sia ai partiti di opposizione sia a
quelli di maggioranza, Ministro Tremonti compreso.
Le risorse per gli altri interventi
imprescindibili per l’attuazione della riforma
Oltre all’insufficienza delle risorse per gli organici, dobbiamo
registrare la totale assenza di previsioni finanziarie, in alcuni casi,
e l’inconsistenza del piano programmatico finanziario presentato ai
sensi dell’art.1, comma 3, della legge 53, in altri casi.
Abbiamo già visto come non si intenda, e come risulti impossibile,
destinare alla scuola dell’infanzia alcuna parte delle somme finalizzate
all’anticipo. In relazione a questa scelta, non regge la motivazione
secondo la quale nella scuola dell’infanzia dovrebbe avvenire un
semplice scorrimento di utenti: tanti ne entrano e tanti ne escono, in
quanto anticipatori per la primaria.
Questo ragionamento, peraltro discutibile, non tiene conto del fatto che
si è sempre ritenuto necessario, in relazione all’anticipo per
l’infanzia, sia una riduzione del numero di alunni nelle sezioni che
accoglieranno i più piccoli sia l’introduzione di specifiche
professionalità.
Come sarà possibile realizzare ciò, senza un centesimo di euro ?
Oltre a ciò non è previsto alcun trasferimento aggiuntivo a favore dei
comuni, per gli arredi, i servizi di supporto, i libri di testo, etc. E
i finanziamenti per l’edilizia si mantengono su cifre al di sotto della
spesa storica sostenuta dallo Stato con i piani triennali della legge
23/96, unica norma in Italia specificamente destinata alla
qualificazione del patrimonio di edilizia scolastica.
Si legge, nel piano finanziario, che tali interventi sarebbero di
competenza esclusiva dei comuni e delle province; si afferma che gli
interventi dello Stato devono essere intesi unicamente ad adiuvandum.
Un’affermazione del genere rappresenta una vera provocazione nei
confronti degli enti locali. Non stiamo parlando, infatti, del
mantenimento del sistema come attualmente organizzato. Siamo di fronte a
modifiche ordinamentali che impongono la disponibilità di un numero
maggiore di aule, di arredi, di beni, di servizi…, che implicano spese
ingenti. Queste spese aggiuntive e straordinarie devono essere
finanziate dallo Stato.
Mancano poi le risorse per concretizzare la disposizione, dettata
dall’art.2 della legge 53, secondo la quale deve essere assicurata la
generalizzazione dell’offerta formativa e la possibilità di frequenza
alla scuola dell’infanzia. Anche in questo caso, nella bozza di decreto
attuativo, altro non è rintracciabile se non un rinvio ai finanziamenti
iscritti annualmente nelle legge finanziaria e alla compatibilità con la
finanza pubblica. Senza alcun termine, senza alcuna scadenza. Non c’è un
impegno dello Stato a raggiungere tale obiettivo in un periodo di tempo
certo e dichiarato.
Stesso destino è riservato praticamente a tutte le previsioni della
legge. Una strana catena di provvedimenti …che non provvedono: la legge
delega che altro non finanzia (e, come abbiamo visto in modo
insufficiente) se non l’anticipo; un piano finanziario indefinito nel
tempo e indeterminato nelle cifre; i decreti legislativi delegati che,
se il buon dì si vede dal mattino, altro non faranno che rinviare a
successivi provvedimenti amministrativi. Il tutto subordinato
prioritariamente alle compatibilità finanziarie.
Il rompicapo del tempo scuola e del tempo mensa
Si discute molto, in questi giorni, sulla questione del tempo scuola
possibile con quanto disposto dalla bozza di decreto e della questione
di chi svolgerà l’assistenza agli alunni durante la consumazione del
pasto.
Non sono pochi i commentatori che leggono nel decreto la cancellazione
di ogni possibilità di un tempo superiore alle ore nello stesso indicate
e la cancellazione della presenza obbligatoria degli insegnanti nel
tempo dedicato alla mensa.
Il Ministero smentisce in pubblici comunicati e ha anche inserito,
scelta originale e non ordinaria per una bozza di decreto, degli
specchietti illustrativi e interpretativi lungo l’articolato pubblicato
sul sito ufficiale.
La Conferenza Unificata e le Commissione parlamentari competenti hanno
ricevuto, invece, una bozza senza i commenti con allegate due
relazioni, una illustrativa e una tecnica, i cui contenuti si discostano
dai commenti contenuti negli specchietti diffusi tramite internet.
Non voglio qui dilungarmi sulle questioni di metodo (troppe ce ne
sarebbero da dire!); voglio pronunciare, senza timore di smentita, tre
affermazioni:
1) L’attuale
stesura del decreto non garantisce in alcun modo che l’organico degli
istituti venga dimensionato in modo da permettere una estensione del
tempo delle attività educative oltre le 30 ore settimanali, per la
scuola primaria, ed oltre le 33 ore settimanali per la secondaria di
primo grado;
2) L’attuale
stesura del decreto non garantisce in alcun modo che l’organico degli
istituti venga dimensionato in modo da assicurare la presenza del
personale insegnante durante il momento della mensa;
3)
E’ falso quanto affermato, per tranquillizzare l’utenza, negli
specchietti illustrativi diffusi dal ministero, quando si dice che “il
tempo scuola raggiunge le 40 ore settimanali e si caratterizza come
tempo pieno degli alunni” e anche quando si dice che “alla definizione
dell’organico d’istituto concorre la quota oraria derivante dal numero
dei rientri previsti che comprende il tempo dedicato alla mensa”.
Non voglio dire con questo che non è possibile, magari per i primi anni,
che venga assegnato, pur sempre nei limiti delle disponibilità
finanziarie, un organico per garantire le attività appena elencate.
Voglio dire che non si intende garantire per legge il diritto delle
famiglie di avere un servizio corrispondente alle loro richieste. Si
vuole demandare a provvedimenti amministrativi successivi l’eventuale
“concessione” di tali servizi. Si vuole, in sostanza, far dipendere
interamente dagli equilibri politici, all’interno della maggioranza e
tra maggioranza e opposizione, ai rapporti di forza con i sindacati,
alla misurazione della pressione delle famiglie, quello che invece
dovrebbe essere assicurato da una norma di carattere generale.
In questo modo si crea un’oggettiva situazione d’incertezza che
penalizza le famiglie che dovranno, di anno in anno, studiare la legge
finanziaria e le circolari ministeriali per capire quale e quanta scuola
potranno avere i loro figli.
In questo modo si uccide l’autonomia degli istituti scolastici: Quale
autonomia senza alcuna certezza di risorse? E quale progettualità
nell’elaborazione dei modelli organizzativi e didattici potrà mai essere
esercitata?
In questo modo si mina alla base ogni proficua relazione tra scuole ed
enti locali, sia per la costruzione di un sistema integrato nel quale le
risorse e gli interventi, ma anche la progettualità e le idee, di ogni
soggetto interagiscono nell’interesse comune, sia per la stessa
razionalizzazione nell’uso delle risorse che unicamente da una
programmazione locale dei servizi può essere realizzata.
Prima di illustrare, conclusivamente, le proposte dell’Anci, vorrei
soffermarmi un attimo sui contenuti di alcuni specchietti esplicativi
che il Miur ha inserito nel decreto.
In tali illustrazioni si usano due argomenti per rassicurare le
famiglie, in relazione al tempo scuola.
Il primo argomento è la vigenza di due norme: l’art. 131, comma 7, del
Testo Unico dell’istruzione, il quale stabilisce che nell’orario di
lavoro dei docenti è compresa l’assistenza educativa svolta nel tempo
dedicato alla mensa; l’art. 26, comma 10, del CCNL ultimo, secondo il
quale il servizio di mensa rientra a tutti gli effetti nell'orario di
attività didattica.
Queste due norme in realtà non garantiscono nulla in relazione
all’orario del servizio scolastico: esse definiscono unicamente
l’obbligatorietà e l’esigibilità di una mansione nei confronti del
personale. L’orario del servizio scolastico e l’orario di lavoro dei
docenti sono cose diverse e non immediatamente sovrapponibili.
L’altro argomento è l’affermazione che il terzo comma dell’art. 7 della
bozza di decreto, secondo il quale il tempo dedicato alla mensa non è
compreso nel tempo della attività didattiche, risulta identico al comma
che regolava, nella legge 148/90, l’orario del modello modulare.
Questa affermazione è esatta, ma si tace che, nella legge 148, c’era un
articolo che blindava l’organico della scuola elementare in tre
insegnanti ogni due classi (art.121, comma 2, del T.U.) e un altro
articolo che prevedeva altre due tipologie d’orario: una di 37 ore
settimanali e una di 40 ore settimanali (art.130, commi 1 e 2 del T.U.).
Credo che tutti siano in grado di capire cosa veniva fuori dal combinato
disposto di questi tre articoli e di confrontarlo con cosa viene fuori
dal combinato disposto del nuovo decreto che, dopo aver escluso dalle
attività didattiche, quelle dei commi 1 e 2, il tempo mensa, stabilisce,
al comma 4, che l’organico d’istituto è costituito per garantire
unicamente le attività di cui ai commi 1 e 2.
Non so dire quanto le famiglie possano sentirsi rassicurate da una
normativa del genere o quanto le scuole si siano tranquillizzate
prendendo per legge, come un po’ sono abituate a fare, le
interpretazioni ministeriali; certo è che qualunque osservatore attento,
e i comuni devono essere annoverati in questa categoria, si rende
facilmente conto che gli specchietti esplicativi altro non sono,
passatemi un espressione molto usata in Toscana, che specchietti per le
allodole. Questo, a meno che l’articolato non venga modificato
accogliendo le proposte emendative avanzate dall’Anci in sede di
Conferenza Unificata.
Le preoccupazioni e le proposte dell’Anci
Il titolo di questo contributo pone, in apertura, un quesito: …ma la
scuola -ci si chiede- si ritira?
Tale interrogativo vuole evocare due significati.
Il primo di questi è la preoccupazione per il restringimento,
quantitativo e qualitativo, del servizio scolastico.
È
noto a tutti che le politiche per la qualificazione e la
razionalizzazione della spesa, nel sistema d’istruzione, sono state
avviate da governi precedenti a quello attuale (basti ricordare, in
particolare, il DL 8 agosto 1992 e la legge 449/97, cosiddetta
finanziaria di Maastricht).
Il problema di fondo, senza addentrarsi in alcun modo (in questo
ragionamento) nel giudizio di valore sui due progetti di riforma, sta
nel fatto che la legge 30/2000 prevedeva la riduzione di un anno, nel
percorso scolastico complessivo. Tale riduzione mitigava di molto gli
effetti dei tagli d’organico che nelle leggi finanziarie erano già
previsti.
La legge 53/2003, invece, oltre che ripristinare il tredicesimo anno del
percorso complessivo dell’istruzione, ha preso in carico (forse sarebbe
il caso di dire, letteralmente, “in collo”) un mezzo anno in più di
utenti che vengono spostati dall’asilo nido alla scuola materna.
Queste due scelte, insieme alle maggiori riduzioni di spesa che sono già
state disposte, realizzano una miscela esplosiva: la riduzione del
servizio, in tutti gli ordini di scuola, appare di fatto una scelta
obbligata.
Il secondo significato del “si ritira?” è , invece, legato alla
preoccupazione che il sistema educativo abbandoni il modello inclusivo
che oggi lo caratterizza. La nota presa d’atto dell'impotenza e della
rassegnazione della scuola (Davide) nei confronti dei fallimenti
scolastici derivanti principalmente dall'ambiente sociale e familiare di
provenienza (Golia).
Quasi che la scuola non dovesse più annoverare tra i suoi compiti quello
di rendere concrete pari opportunità per tutti e quello di creare
condizioni per il successo scolastico di ognuno. Esattamente l’opposto,
e lo dimostrava il racconto che ho fatto in apertura sul passaggio dai
dopo scuola al tempo pieno, di un’idea che vede, invece, inscindibili
gli obiettivi dell’istruzione e della formazione da quelli
dell’inclusione e della partecipazione.
Se abbiamo bisogno di un sapere critico, e non credo vi sia alcun dubbio
su questo; se non vogliamo individui incapaci di partecipare attivamente
ai processi lavorativi, sociali, alle stesse relazioni interpersonali;
se non vogliamo ambienti di vita pieni di quel mix micidiale che è dato
dalla superficialità, dall’indifferenza e dalle chiacchiere, allora
forse dobbiamo ripensare a questa idea di rigida divisione dei compiti
tra i vari soggetti del sistema dell’istruzione, dell’educazione e della
formazione.
Se però questa dovesse essere la strada prescelta, allora come comuni
non potremo che chiedere che si facciano i conti. Se la scuola non fa
più alcuni servizi, che precedentemente svolgeva, o anche se non li
garantisce più nella stessa quantità e qualità, allora si deve
quantificare finanziariamente la somma economizzata dallo Stato e tale
somma deve essere trasferita ai soggetti che subentrano nello
svolgimento di tali competenze.
Mi raccontava l’Assessore di Ravenna che alcuni comitati di genitori
hanno consegnato al Comune, pochi giorni or sono, settecento firme di
genitori che chiedevano garanzie per il tempo pieno. Sapete a chi era,
unicamente, indirizzata la lettera? Al Sindaco e all’Assessore! Manco
ci avevano pensato di scrivere al Ministero!
E allora, al
Ministero, abbiamo scritto noi. Anche a nome e per conto dei nostri
cittadini.
Nel documento
che abbiamo consegnato al primo incontro della Conferenza Unifica per
l’espressione del parere, previsto dalla legge delega prima
dell’approvazione in via definitiva del decreto, abbiamo sollevato tutte
le questioni cui ho fatto cenno, ed abbiamo avanzato anche numerose
proposte emendative.
Non è stato
per niente un incontro semplice e si prospetta una battaglia molto aspra
dalla quale, però, confidiamo di ottenere dei risultati che, se non
altro, dovrebbero attenuare la compressione della scuola italiana che
deriva dalla versione attuale del decreto.
Riporto in
estrema sintesi gli emendamenti che abbiamo proposto in Conferenza
Unificata:
Art.
4, comma 1; aggiungere: “Le scuole primarie e le scuole secondarie di
primo grado possono essere aggregate in istituti comprensivi,
comprendenti anche le scuole dell’infanzia che gravitano sullo stesso
territorio”
Art.
5, comma 1, sostituire la prima riga come segue: “La scuola primaria,
accogliendo e valorizzando le diversità individuali, ivi comprese
quelle derivanti dalle disabilità, dalle provenienze culturali e
geografiche e dalle situazioni di disagio sociale, promuove lo
sviluppo” ecc…
Art.7, comma 1, sostituire le parole: "è di 891 ore" con: "è di almeno
891 ore"
Art.7,
comma 2, sostituire le parole: "ulteriori 99 ore" con: "ulteriori 198
ore"
Art.7, comma 2, al secondo capoverso, dopo: "le predette richieste
sono formulate all'atto dell'iscrizione." inserire il seguente
periodo: "Le ore aggiuntive per le quali la famiglia avrà optato fanno
parte, a tutti gli effetti, dell'esercizio del diritto-dovere di cui
all'art.4, comma 1".
Art.7, comma 3, al termine del comma 3 aggiungere: "che, ove previsto,
sarà comunque gestito dalla scuola come momento educativo"
Art.7, comma 4 e Art.10, comma 4, inserire in entrambi i commi dei due
articoli, dopo le parole: "Allo scopo di garantire le attività
educative e didattiche di cui ai commi 1 e 2" le seguenti parole:
",nonché l'assistenza educativa da parte del personale docente nel
tempo eventualmente dedicato alla mensa, fino ad un totale di 231 ore
annue,”.
Art.12 comma 1, al termine del primo comma aggiungere:” d’intesa con
l’Anci.”
In sostanza abbiamo lanciato al Ministero una duplice sfida. Da un lato
abbiamo chiesto di scoprire le reali intenzioni in relazione alle
risorse e all’investimento politico che si intende fare sulle autonomie
scolastiche e locali; dall’altro abbiamo proposto modifiche
all’articolato che non potranno non essere accolte integralmente se le
tante enunciazioni che in questi giorni vengono fatte rappresentano
impegni seri ed in buona fede e non mere dichiarazioni propagandistiche.
Ferme restando le gravi preoccupazioni sull’impianto complessivo della
riforma, staremo a vedere, se non altro su questo ultimo punto se saremo
capaci di salvare un minimo di certezza per le famiglie, ma anche per le
scuole e per gli enti locali.
Scuola,
lampioni e campi sportivi...
Permettetemi, gli ultimi due minuti, di rivolgermi in particolare agli
amministratori locali. Vorrei citare, e poi tentare di rendere più
attuale, una frase di Don Lorenzo Milani.
Esortava, il Priore di Barbiana, a mettere maggiore impegno nella scuola
con queste parole: Sindaci, pensate alla scuola. I lampioni e i campi
sportivi sanno metterli anche i monarchici.
Io vorrei dire, oggi: Sindaci, se ancora
non lo avete fatto, date in gestione i campi alle società sportive e
trovatevi una buona ditta per esternalizzare la manutenzione della rete
della pubblica illuminazione, ma non abbandonate la scuola pubblica.
Inserite il vostro impegno per la scuola tra gli obiettivi prioritari,
così come si deve quando si è nell’ambito della missione fondamentale
dell’ente, che altro non è che la crescita culturale, sociale ed
economica della popolazione e del territorio.
Quale migliore strategia, per perseguire tale missione, se non quella di
pensare la città tutta come una città educativa, capace di vivere e
infondere rispetto per l’ambiente, per i suoi abitanti, per i suoi
ospiti.
Capace di dare senso alla parola comunità di cui il nome dell’ente che
rappresentate altro non è che un sinonimo. |