La mammana
In
quella sera fredda di Dicembre, Don Pasqualino era seduto dietro la sua
scrivania nel grande studio del suo vecchio palazzo, intento a
riguardare gli incartamenti inerenti ad un grosso processo che
doveva portare in tribunale da lì a pochi giorni. Non riusciva, però, a
trovare la concentrazione giusta per lavorare. Aveva la mente altrove.
Spesso si fermava a guardare il soffitto affrescato o gli enormi
scaffali carichi di libri o l'antica icona della Vergine appesa alla
parete di fronte: i suoi occhi fissavano tutto, ma non riuscivano a
focalizzare nulla, non riuscivano a vedere.
"Sarà questa serata uggiosa - pensava ingannando se stesso - con questa
pioggerellina fitta, insistente, se almeno ci fosse qui mio cugino
Ciccillo, lui si che saprebbe consigliarmi!".
Don Pasqualino era un nobiluomo sui trentacinque anni, appartenente
all'aristocrazia salentina nonché un avvocato di prestigio. La famiglia
non aveva voluto che esercitasse la professione perché era benestante e
poteva tranquillamente vivere di rendita. Così egli, laureatosi a pieni
voti, presso la regia università di Napoli, avvocato brillante e
convincente nelle arringhe, si trovava a gestire il suo consistente
patrimonio e a discutere solo cause di parenti ed amici, mai a scopo di
lucro. Un altro giovane al posto suo sarebbe stato sicuramente
sprezzante e protervo, egli era mite e pacato, umile e modesto.
All'epoca era follemente innamorato di Emilia, l'ostetrica del paese,
una bella ragazza mora dallo sguardo dolce e conturbante, dalle labbra
carnose e dalle forme morbide e sensuali. Più volte si erano incontrati
e avevano dato sfogo alla loro passione. Ultimamente, però, ella aveva
capito che per la loro storia non c'era futuro e si era allontanata.
La madre di Don Pasqualino si era recata in segreto a trovarla e
chiaramente le aveva fatto capire che una donna che non fosse di nobili
natali, per di più una levatrice, nella sua famiglia non sarebbe mai
entrata, "Una mammana mio figlio la può portare a letto ma non
all'altare" - le aveva urlato in faccia piena di boria. Così Emilia
aveva preferito allontanare il suo innamorato facendogli credere di
essersi invaghita di un altro.
Don Pasqualino dapprima era stato alquanto scettico ma poi, vistosi
respinto più volte, aveva finito col crederle. Non riusciva, però, a
liberare la sua mente da quel pensiero che lo ossessionava, non riusciva
a sciogliere le catene che lo tenevano stretto a lei.
Una levatrice all'epoca non era ben vista, aveva fatto studi anatomici
troppo approfonditi per una donna e praticando la sua professione poteva
essere alquanto disinibita e ciò deponeva davvero male. Don Pasqualino
odiava queste fisime di paese e sperava che la sua famiglia, in cui si
respirava una certa cultura, riuscisse pian piano a comprendere il suo
amore e superare questi concetti ma, ahimè, si sbagliava. Capiva il suo
stato solo il cugino Ciccillo, giovane allegro e pimpante, che trovava
sempre il modo di fargli tornare il buon umore insieme ai suoi amici
gioviali e buontemponi.
Quella sera, però, Pasqualino era solo, il cugino si trovava a Napoli
dove stava ultimando i suoi studi in medicina e non c'era davvero
nessuno a distrarlo dai suoi pensieri e suggerirgli, come era solito
fare Ciccillo, di darsi pace che tanto poteva trattarsi di una cotta e
che tutte le infatuazioni prima o poi passano e alla fine a tutto c'è
rimedio. Avrebbe tanto voluto parlare con qualcuno, magari passeggiare,
pensò che forse un po' d'aria fresca gli avrebbe fatto bene e così
infilò il paltò e si avviò verso la porta. Una donna di servizio gli
corse incontro con una camicia che profumava di bucato. Era sua
abitudine cambiarsi la camicia prima di uscire perché gli piaceva essere
bene in ordine e odiava l'unto su collo e polsini. Quella sera, però,
allontanò la domestica con un cenno e uscì.
Il suo palazzo si affacciava sulla piazza del paese e quando Don
Pasqualino uscì in strada l'orologio del Comune scandì venti rintocchi:
era buio pesto e continuava a piovigginare. Camminò, camminò a lungo,
sentiva un gran bisogno, di evadere entrò nell'unico caffè del paese e
bevve per scaldarsi e scacciare i brutti pensieri che si affollavano
nella mente. Non servì a nulla. Allora imboccò la strada che portava a
casa di Emilia, forse aveva bevuto qualche bicchiere di troppo. Non
c'era anima viva per strada ed era una notte senza luna e senza stelle.
Pasqualino era giunto proprio vicino alla casa della sua amata e stava
per bussare all'uscio quando udì passi in fondo alla strada. S'infilò in
un vicolo e attese trattenendo il fiato: vide un uomo che bussava alla
porta della levatrice, lei aprì e i due parlarono. Scambiarono poche
parole, poi lei uscì. Pasqualino balzò fuori dal buio e le si avvicinò.
"Ho bisogno di te"- le sussurrò. La donna lo scansò e proseguì con passo
frettoloso. "Non respingermi, ho tanto bisogno di te!"- pregò ancora. Ma
lei lo evitò e continuò per la sua strada. Pasqualino perse il
controllo, estrasse il revolver che aveva in tasca ed esplose due colpi.
La donna, colpita al petto, si accasciò e rimase supina sul selciato in
una pozza di sangue. Don Pasqualino guardò sgomento, capì quel che aveva
commesso e fuggì. Rientrò a casa, bevve un cordiale e andò nello studio,
sedette alla scrivania e vi rimase per qualche ora. Poi verso mezzanotte
la quiete del palazzo fu scossa da uno sparo. I famigliari lo trovarono
riverso sulla scrivania con un foro alla tempia.
L'indomani in paese tutti parlavano di questo doppio dramma che era
avvenuto nella notte. Le critiche mordaci della gente erano tutte contro
la mammana che aveva irretito e poi respinto e tradito un simile
galantuomo. Si seppe poi che quella notte la mammana era stata chiamata
per far nascere un bambino e che non c'era sotto alcuna tresca . -Puro
fatalismo- si disse allora per giustificare questo dramma della gelosia
consumatosi nei primi del '900.
L'indomani stesso il cugino Ciccillo fu informato della disgrazia con
una lettera inviatagli dal padre, nobiluomo nonché sindaco del paese.
"Vinum et mulieres apostatare hominem faciunt" è l'aforisma col quale il
padre chiudeva la lettera invitando il figlio alla saggezza e alla
moderazione.
La novella fa riferimento ad un fatto realmente accaduto anche se
narrato secondo la mia interpretazione.
Particolare minimo, forse trascurabile: Ciccillo era il mio bisnonno
materno mentre il bambino che quella notte venne alla luce senza l'aiuto
della mammana era il fratello più piccolo della mia bisnonna Elena e la
lettera spedita a Ciccillo è custodita nel mio ambiente magico, un
antico studio pieno zeppo di libri e ricordi, dove spesso mi rifugio per
curiosare e…. sognare.
PAOLA BRAY
Sedici anni, Soleto (Lecce)
Liceo Scientifico “Vallone” , Galatina (Lecce)
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