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Mano destra, mano sinistra e sistema dei licei di Maurizio Tiriticco
Pasquale D’Avolio interviene con un interessante articolo, Licei: bisogno di continuità (n. 1 del 2004 di “Nuova Secondaria”) nel dibattito sulla nuova configurazione da dare ai Licei dopo il varo della legge 53 ed in attesa della redazione finale dei documenti a cui stanno lavorando in gran segreto (sic!) le commissioni ministeriali. Com’è noto, nella legge 53 si afferma che le finalità del secondo ciclo di istruzione, pur se distinto nei due percorsi del sistema dei licei ed in quello dell’istruzione e formazione professionale, sono comuni. Testualmente si legge: “Il secondo ciclo, finalizzato alla crescita educativa, culturale e professionale dei giovani attraverso il sapere, il fare e l’agire e la riflessione critica su di essi, è finalizzato a sviluppare l’autonoma capacità di giudizio e l’esercizio della responsabilità personale e sociale; in tale ambito, viene anche curato lo sviluppo delle conoscenze relative all’uso delle nuove tecnologie (art. 2, c. 1, lettera g)”. In ordine a tale affermazione, gli estensori dei documenti relativi al secondo ciclo ed alle conseguenti Indicazioni nazionali, si sono prodigati per immaginare dei percorsi che, se pur distinti e differenziati, procedessero verso quelle finalità comuni sancite dalla legge. Ne consegue che, quando andiamo a leggere le prime due “Bozze di discussione elaborate dalla Commissione Moratti”, quella dell’istruzione liceale e quella dell’istruzione e della formazione professionale, constatiamo che le due premesse sono identiche, identiche le finalità, identici i paragrafi relativi al secondo ciclo ed alla educazione permanente, identiche le articolazioni del profilo, identici i paragrafi relativi alla convivenza civile. Ciò che cambia – e qualcosa, ovviamente, deve pur cambiare – è il paragrafo relativo agli strumenti culturali, all’articolazione disciplinare. Gli strumenti culturali del sistema dei licei sono più ricchi ed articolati di quelli del sistema dell’istruzione e formazione professionale; infatti, per quest’ultimo è alle Regioni che compete la legislazione esclusiva per l’effettiva costruzione dei percorsi, anche se – e non va dimenticato – è allo Stato che spetta la legislazione esclusiva circa le norme generali. Va, inoltre,sottolineato che a monte di queste Bozze di discussione c’è pur sempre quel documento di base iniziale (si veda il n. 8 del 2003 di “Nuova Secondaria”) laddove si contengono affermazioni che già ho avuto modo di contestare (Nulla di nuovo sotto il sole, in edscuola.it, bacheca, interventi sulla riforma) e che Pasquale D’Avolio riprende puntualmente e… giustamente! A proposito del documento di base, D’Avolio scrive: “Il punto che a mio parer appare più debole è il nesso tra teoria e pratica, tra sapere e saper fare nei Licei. Mentre da una parte si afferma che la contrapposizione tra teoria e pratica è superata, che non è più sostenibile che la teoria sia identificabile con la scienza pura immune dagli aspetti applicativi delle tecnologie, dall’altra si opera una subordinazione dell’una all’altra in ciascuno dei due percorsi. Nei licei si afferma che il fare e l’agire sono funzionali al sapere, nella formazione il sapere è funzionale al fare e all’agire”. E D’Avolio ama anche ricordare che una distinzione simile è tipica di una certa cultura – quella che da lungo tempo giustifica una divisione tra le classi sociali, una che pensa intellettualmente ed una che esegue manualmente – e che non è sempre ravvisabile in altre culture, come nell’antica Grecia, ad esempio. “Non dimentichiamo che il fare è contenuto nella poesia (da poièo) come nella tecnica è contenuta l’espressione artistica (tèchne = arte)”. Fin qui il ragionamento di D’Avolio è corretto, ma… L’autore prosegue: “E’ indubbio che il momento concettuale o dell’astrazione è caratteristico della licealità, mentre nel percorso professionale si tende a privilegiare quello procedurale. Le competenze non possono non essere diverse: così è indubbio che nell’istruzione liceale ci debba essere una prevalenza dell’analisi, del pensiero lineare dichiarativo su quello modulare e contestuale. Sottolineo la prevalenza e non l’esclusivismo, come purtroppo avviene ancora oggi in molte realtà scolastiche, soprattutto nei Licei”. Ed è su questo punto che non sono d’accordo con l’amico D’Avolio! Non esiste nell’essere umano una separazione tra il pensare e il fare, tra il conoscere e l’agire. La distinzione tra queste polarità è puramente concettuale. Se a livello di ricerca scientifica è necessario distinguerle, queste, però, costituiscono un insieme sistemico, dialettico, assolutamente non separabile. Un cardiologo è esperto di cuori, come un neurologo di cervelli, ma in un vivente i due organi lavorano insieme! E guai a separarli! Purtroppo la separazione è esistita ed esiste ancora oggi, ma è solo l’esito della violenza di chi si arroga il diritto del solo pensare ed impone ad un altro il dovere del solo fare! D’altra parte, però, sono le neuroscienze che ci confermano l’inscindibilità del pensare e del fare! E nello stesso ambito scolastico ormai da anni ripetiamo che l’operatività non è solo il fare manuale e che le attività laboratoriali non sono solo quelle che comportano determinate strumentazioni. E D’Avolio prosegue: “Volendo usare la metafora della mano destra e della mano sinistra, dirò che nel percorso liceale è richiesta una dominanza cerebrale sinistra con tutto quel che ne consegue (dominanza e non esclusivismo!)”. D’Avolio chiama in causa Gardner (le intelligenze multiple) e Goleman (l’intelligenza emotiva) a giustificare le sue conclusioni: “Gli strumenti dell’apprendere in un percorso liceale si baseranno maggiormente sui testi, per lo più scritti, sul leggere discutere-scrivere, interpretare (l’arte-scienza della traduzione) senza trascurare il vedere o l’ascoltare e l’agire… La licealità dovrà caratterizzarsi per un impianto culturale e metodologico che faccia perno sul pensiero astratto, dove l’astrazione non è sapere disinteressato e puro, ma intriso, se così si può dire, di operatività: l’operare pratico-teorico di cui parlava ad esempio Marx usando la parola praxis”. E’ senz’altro da condividere il riferimento a Marx, al suo uomo plastico e – dico io – alla pedagogia marxista che ne è conseguita, e che non ha affatto mancato di influire su tanta parte della ricerca educativa degli ultimi decenni. Ma, dal ragionamento di D’Avolio, così perentorio, si dovrebbe allora dedurre che il sistema di istruzione e formazione professionale debba afferire ad un impianto culturale e metodologico fondato sul pensiero concreto? Ma non c’è un intreccio, un continuum tra l’una e l’altra forma di pensiero? A questo proposito soprassediamo pure dal tirare in ballo Piaget e la sua polemica con Vigotskyi, ma è ormai accertato che non c’è un prima e un dopo tra le due modalità del pensiero attivo e produttivo e che sarebbe artificioso, se non pericoloso, individuare separazioni. Ma, ritorniamo alla metafora della mano destra e della mano sinistra, in forza della quale l’emisfero sinistro del nostro cervello, quello della linearità e delle sequenze temporali logico-verbali e logico-matematiche, agirebbe sulla mano destra, e l’emisfero destro, quello della simultaneità spaziale, delle mappe, delle reti sistemiche, agirebbe sulla mano sinistra. Chi non ricorda le acute osservazioni di Bruner nei Saggi per la mano sinistra? Da quegli scritti sono passati molti anni, ma l’invito bruneriano a non dimenticare mai l’unitarietà del piccolo dell’uomo che cresce non è mai venuto meno. Un processo di apprendimento non può prescindere da attività di insegnamento che non tengano conto di questa unitarietà come fattore primario. Una istituzione che educa, istruisce, forma – qualunque essa sia – assume una responsabilità piena in ordine a questo assunto. Fare altre scelte, dar luogo a percorsi “differenziati” significa tradire il concetto stesso di educazione, oggi soprattutto, in società avanzate e complesse che, da un lato, richiedono a ciascuno dei nuovi nati il raggiungimento di conoscenze e competenze di buon livello, dall’altro fruiscono di una ricerca educativa che oggi offre strategie pedagogico-didattiche fondate e vincenti, anche se i condizionamenti socioeconomici fanno la loro parte, spesso negativa, e D’Avolio non lo dimentica. Comunque, perché dobbiamo pensare di dover incentrare e canalizzare un sistema di istruzione sulle operazioni di una mano e un altro sistema sulle operazioni dell’altra? Le mani di ciascuno di noi sono due come due gli emisferi del nostro cervello E non si può pensare che una mano possa essere messa in tasca per un intero processo di apprendimento, come non possiamo spegnere una metà del nostro cervello! Si guardi alle rappresentazione che segue, molto approssimativa e molto ingenua – il neuroscienziato mi perdonerà! Magari i nostri processi mentali potessero essere così semplificati! – ma sufficientemente eloquente.
Appare evidente che, se adottassimo il suggerimento di D’Avolio, quando afferma che “è indubbio che nell’istruzione liceale ci debba essere una prevalenza dell’analisi, del pensiero lineare dichiarativo su quello modulare e contestuale” e che “nel percorso liceale è richiesta una dominanza cerebrale sinistra”, conseguirebbe che nello studente liceale si dovrebbe azzerare tutto ciò che compete all’area della mano sinistra! E, per converso, nello studente professionale si dovrebbe azzerare tutto ciò che compete all’area della mano destra!Ma, così ragionando, non si finisce con il riproporre, anche se in altra forma, quella dicotomia contro la quale lo stesso D’Avolio è fortemente critico, e che è chiaramente descritta nel tanto contestato documento di base sui Licei? Laddove chiaramente si dice che nel liceo il fare è funzionale al pensare, mentre nell’istruzione e nella formazione professionale il pensare è funzionale al fare!?Ritengo che la mia metafora del millepiedi (in edscuola.it, bacheca, interventi sulla riforma) sia sempre l’unica via percorribile, laddove all’interno di un articolato e ricco campus di istruzione secondaria, “statale” e “regionale”, si debbano attivare più percorsi, ovviamente tra loro diversi e diversamente finalizzati, in cui però fare e pensare, pensare e fare non siano mai un prima e un dopo, ma siano strettamente congiunti. Non dobbiamo assolutamente rinunciare ad offrire a tutti i nostri giovani percorsi formativi di elevata qualità, in quanto, qualunque scelta poi effettueranno, dovranno pur sempre continuare a lavorare/formarsi e a formarsi/lavorare… per accedere a competenze professionali sempre più elevate. E’ la società della conoscenza che ci impone questo tipo di scelta! Se poi riusciremo a rendere obbligatorio il percorso 14-16 anni nella scuola è altro problema. Comunque, dobbiamo subito adoperarci per far crescere la qualità di tutta la nostra formazione professionale regionale, liberandola – laddove è necessario – dalla miopia dei particolarismi, dalla logica delle clientele. La formazione regionale non è una sponda che i nostri giovani debbano evitare, ma che noi dobbiamo conquistare per loro! Per conferirle la dignità di una formazione di elevato livello! Ma, a mio avviso, è un discorso non ancora sufficientemente maturo!
Roma, settembre 2004
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