Otto domande a Roberto Maragliano
intervista a cura di Marisa Bracaloni
Roberto Maragliano, nato a Genova,
insegna Tecnologie dell'Istruzione e dell'Apprendimento presso
l'Università Roma Tre.
E' responsabile del Laboratorio di Tecnologie Audiovisive del
Dipartimento di Scienze dell'Educazione (http://LTAonline.educ.uniroma3.it)
e direttore del Corso di Perfezionamento a distanza in Tecnologie
per l'Insegnamento.
E' stato, nel 1997, coordinatore della commissione cosiddetta
"dei saggi", incaricata dal Ministro della Pubblica
Istruzione di definire il quadro delle conoscenze fondamentali per
la scuola del prossimo futuro.
E' opinione diffusa che i programmi ministeriali
italiani siano tra i migliori del mondo; viceversa lei ha recentemente
sostenuto che negli ultimi vent'anni sono stati emanati programmi
didattici enciclopedici ed ambigui.
Come motiva questa discordanza di vedute?
Sulla carta tutti i programmi possono essere
giudicati positivamente, basta che siano aggiornati, pluralisti, ben
scritti. Ma un programma didattico è, o almeno dovrebbe essere
qualcosa di più di un documento pedagogico. Gli si deve chiedere di
funzionare sia da strumento di orientamento per la
concettualizzazione e la teoria, sia da risorsa per l’indirizzamento
delle attività pratiche. Messi a raffronto con quelli di altri
paesi, mi sento di dire che i programmi italiani esprimono un buon
livello di elaborazione culturale; né potrebbe essere diversamente,
tenendo in debita considerazione l’ampiezza di prospettive e i
tempi lunghi impiegati nella loro produzione. Ma sovente capita che,
proprio per la medesima ragione, quegli stessi programmi risultino
limitatamente praticabili o consentano applicazioni anche molto
diverse tra di loro. Non a caso uno dei motivi ricorrenti tra gli
appassionati di questi temi è quello del "programma
tradito". Penso che complessivamente i nostri documenti non
sfuggano ai difetti di risultare troppo vasti nelle argomentazioni e
minuziosi nelle esposizioni/esemplificazioni: tratti negativi che
hanno a che fare con l’ambiguità e l’enciclopedismo, appunto.
Occorrerebbero, io credo, testi più essenziali e capaci di
discriminare il positivo da ciò che provvisoriamente si considera
non positivo. E occorrerebbe aggiornali con più frequenza ed
elasticità, senza dover ogni volta ricominciare da zero. Presso il
Ministero dell’educazione francese opera un ufficio, ed è sempre
in funzione, con tutte le stagioni, che ha come compito appunto
quello di aggiornare e rettificare costantemente l’elaborazione
dei programmi. Chi è stato responsabile di quell’ufficio fino a
qualche giorno fa è diventato adesso ministro dell’educazione: le
sue idee moderate non gli hanno impedito di dirigere l’ufficio con
un governo di sinistra. Qui da noi, invece, appartenenza politica e
pedagogia dei programmi tendono a fare tutt’uno, ad ogni cambio di
governo ci si propone di scrivere ex novo i testi.
Lei ha affermato che la vera scuola dell'autonomia
deve elaborare "il lutto dei programmi". Cosa intendeva
dire?
Tempo fa, ma si era in un clima assai diverso da
quello attuale, aveva cominciato a serpeggiare all’interno della
nostra scuola l’idea che si potessero mettere a riposo documenti
del tipo "programmi didattici" e si dovesse invece dare
spazio a elaborazioni centrate sull’indicazione delle competenze
che gli allievi avrebbero dovuto mostrare all’uscita dai vari
livelli scolastici. In termini astratti, si può ammettere che l’idea
non è malvagia. In pratica, perché effettivamente quell’idea
potesse diventare del tutto positiva, nell’occasione in cui venne
proposta, sarebbe stato necessario mostrare, soprattutto a noi
stessi, che si era capaci di abbandonare un formato (quello del
"programma" meramente contenutistico) per dar vita ad un
altro formato (quello della "lista delle competenze", dove
i contenuti potessero essere espressi non soltanto tramite cose da
sapere ma anche tramite cose da saper fare e attraverso cui,
inoltre, venissero favorite forme scolasticamente accettabili di
"saper essere"). Le linee curricolari stese in fretta e
furia nell’ultimo tratto della passata legislatura documentano
ampiamente il fatto che la "competenza di definire
competenze" non si acquisisce nello spazio di un mattino, tanto
meno in quello di un crepuscolo. Su tutto ciò è arrivata la
mannaia dell’indecisionista Moratti, e dunque possiamo tornare a
dirci che i nostri sono i migliori programmi del mondo: tanto, qui,
non si fanno campionati o, quando li si fanno, non sono sulla
bellezza dei documenti ma sulla positività dei risultati degli
apprendimenti (scaturiti dalle didattiche che scaturiscono dai
documenti)."
A proposito di certificazione delle competenze,
quest'anno si sperimenta l' esame di stato con commissione interna.
Che cosa pensa di questa esperienza?
Penso che quello dell’esame di stato, al presente,
sia un falso problema. Se davvero si vuole una scuola rigorosa (ma
ne dubito…) mi sembra doveroso che si intervenga su tutto quel che
avviene prima dell’esame, e poi, riqualificata l’offerta
scolastica, si provveda a riqualificare l’esame. Una scuola poco
seria non può avere un esame serio. La nostra secondaria superiore
è una scuola poco seria, almeno io la penso così, per molte
ragioni, tra le quali: perché fa riferimento a un modello di
società che non esiste più, perché poggia su competenze molto
distanti da quelle promosse dallo stato attuale della cultura e
delle professioni, perché produce molto disorientamento nei giovani
(sia in chi va male e non ha alternative, sia anche in chi va bene e
misura la sempre più incolmabile distanza tra il mondo e la
scuola). Cosa mai penseremmo se qualcuno ci proponesse, nel campo
della medicina o della giustizia o dei trasporti, di tornare alle
idee di ottant’anni fa? E perché allora consentiamo che circolino
nostalgie per il pensiero e l’azione pedagogiche di quei tempi?
Lei preferisce parlare di saperi anziché di
discipline o materie scolastiche
Quale differenza implica l'adozione di questi termini?
Fin dal 1990 (anno di uscita di un mio libretto sui
"saperi della scuola") proposi l’adozione di questo
termine, apprezzando il valore di cui esso godeva, nella sua
versione al plurale, all’interno del campo culturale e linguistico
dei cugini francesi. Il termine è intraducibile in inglese, e non a
caso! Certo non è colpa mia se frettolosi e superficiali
osservatori della cultura scolastica nostrana continuano a sostenere
che io sia un americanista fanatico delle macchinette e del mercato;
fossero un po’ più attenti osservatori dei movimenti filosofici e
politici che hanno caratterizzato il confronto intellettuale negli
anni settanta, in Francia, sarebbero in grado di scoprire la matrice
di questo vezzo terminologico. La colpa di questa distorta
attribuzione è dunque tutta da attribuire alla loro ignoranza, o
ancora alla presunzione che li fa essere aprioristici detrattori
della materia pedagogica, qualunque sia l’accento che questa
assume. Ma tant’è. L’idea alla quale mi richiamo e che mi
spinge ad usare il termine "saperi" è che ci sono molti
modi di praticare un ambito di conoscenza: ed è all’interno di
questo insieme che si colloca, a mio avviso, il modo ordinato e
sistematico tipico della cosiddetta "disciplina", il modo,
appunto, che disciplina il pensiero. Penso anche che, assumendo
questo modo caratterizzato dalle dimensioni dell’ordine e della
sistematicità, quel che si guadagna non può essere disgiunto dalla
consapevolezza di quel che si perde, soprattutto se ci si rapporta
alla vitalità del modo "indisciplinato", tipico delle
pratiche informali del sapere e del saper fare. C’è, per
intenderci, la geografia dei geografi,o meglio ci sono tante
geografie, corrispondenti alle diverse matrici culturali e
metodologiche del fare ricerca e divulgazione in campo geografico,
ma c’è anche la geografia del senso comune, quella dei consumi,
quella del turismo, quella gastronomica, ecc. Tutte assieme queste
geografie danno corpo e sostanza e mobilità al sapere geografico,
o, se preferite, ai saperi geografici. Quel che io penso in
proposito è che la scuola non può essere soltanto la sede della
riproduzione della geografia in quanto disciplina in senso stretto,
deve anche essere il luogo dentro il quale questo sapere
disciplinato entra in un positivo rapporto di dialogo con le
pratiche diffuse della conoscenza geografica, pratiche ampiamente
distribuite e variamente disseminate nel mondo, e soprattutto
incorporate, per via dell’azione dei media, nel modo di agire,
fare, pensare di ragazzi e ragazze. Se così non facesse, la scuola,
costringendosi ad essere esclusivamente o eccessivamente
disciplinata darebbe legittimità alla versione contraria del detto
latino: non scholae sed vitae discimus. Chi mai avrebbe il coraggio
di ritenere, oggi, che la scuola italiana sia immune da questo
difetto?
Dalle discipline passiamo al libro di testo.
Da tempo si e' avviato il dibattito tra il valore del libro e del
computer.
Lei pensa che questo confronto porterà ad un riconoscimento di
entrambi come fonti e strumenti di conoscenza oppure arriveremo alla
graduale abolizione di uno a favore dell'altro?
Tra i luoghi comuni di certa pedagogia nostrana, ma
non solo della pedagogia, purtroppo, c’è l’idea che i media
vivano una condizione di conflittualità esasperata, destinata
sempre a concludersi con la vittoria di uno sull’altro. Non c’è
bisogno di scomodare la scuola e il (presunto) conflitto fra libro e
computer. Andiamo fuori del villaggio pedagogico e vediamo di quanta
fortuna questo schema abbia goduto, pur non avendo mai trovato
conferma nei fatti. Qualche decennio addietro si sosteneva che la
televisione avrebbe fatto scomparire il cinema e la radio. Così non
è stato. Qualche anno fa c’era chi preconizzava che Internet
avrebbe messo in crisi e addirittura fatto scomparire la
televisione. Cosa è avvenuto di queste infauste previsioni? Che
sono state smentite da come sono andate le cose. In pratica, ogni
nuovo ingresso ha modificato il sistema dei media, ma non ha se non
in rarissimi casi eliminato delle pedine dal gioco. Eppure si
continua a sostenere/temere che il libro potrebbe essere scacciato
dal computer. Che dire, in proposito? Mi piacerebbe che
circolassero, tra di noi, alcune "considerazioni di buon
senso". Ne propongo una, a mo’ d’esempio: che il computer
potrebbe rendere inutili le forme più caduche del medium libro,
esattamente come la televisione, tramite il telegiornale, ha reso
obsoleto il cinegiornale. A questo proposito, chiediamoci che senso
ha, oggi, proporre materiali librari ormai obsoleti come sono le
antologie o i libri di lettura (e farseli pagare profumatamente),
quando la rete funziona e può essere usata come illimitato
repertorio antologico, alla portata di tutti? (Provare per credere:
si vada al progetto ARIEL, alla sezione scuola del sito Laterza, http://www.laterza.it).
In altri termini, il computer potrebbe fare del bene al libro, anche
a quello scolastico, liberandolo di alcune delle sue funzioni più
marginali e pesanti (ma non "pensanti"), e allo stesso
modo il libro, il buon libro (chiarisco: il libro "buono",
non necessariamente il "manuale") potrebbe fare del bene
al computer, mostrandone i limiti. Insomma, sono convinto che l’uno
non possa più fare a meno dell’altro. Ma vallo a dire a certi
editori scolastici italiani, che lottano come disperati per
convincersi che la macchinetta non avrà futuro nella scuola!"
Ormai il computer e' entrato in ogni scuola e le
sue applicazioni sono innumerevoli: dalla ricerca di informazioni,
alla costruzione di ipertesti, alla comunicazione on line…
Non pensa che l'uso del computer nella formazione ed educazione
permanente porterà a delle grosse differenziazioni in base alle
condizioni socioeconomiche delle diverse aree geografiche?
Credo che il problema sia prima culturale e poi
economico. Bisognerebbe soprattutto convincersi che senza computer
non si può fare scuola così come si è convinti che non la si
possa fare senza libri. In seconda battuta, maturata una tale
convinzione, dovrebbe essere fatta una stima di quanto costerebbe
alla società dotare le scuole di un numero sufficiente di macchine
(diciamo una per ogni 4/5 allievi) e far sì che esse funzionino a
pieno regime (anche per la comunità circostante). Infine si
dovrebbe prendere atto che la società è fatta di diversi soggetti,
l’amministrazione scolastica, gli enti locali, le famiglie, il
sistema produttivo e che una spesa così rilevante e cruciale
dovrebbe essere equamente distribuita, visto anche che i vantaggi
che ne potrebbero venire sarebbero di tutti. Detto in sintesi,
ritengo questa una materia di portata generale, troppo importante
per essere lasciata solo al dicastero di viale Trastevere.
Altro problema di indubbia serietà è quello della
sensibilizzazione/formazione dei docenti. La via fin qui scelta
(fate un po’ voi, chi ha buona volontà la dimostri) è un
monumento all’ipocrisia. Non si impara a usare il computer sotto
ricatto morale, tanto meno sotto ricatto professionale. Impara a
usarlo solo chi ne ha bisogno. E ne ha bisogno solo chi si trova
nella possibilità di saggiare i vantaggi e le aperture della
macchina e della rete sul terreno riservato e personale dei suoi
interessi individuali. Poi questo imprinting positivo si può
tradurre in risorsa professionale. Insomma, io penso che il computer
sia una risorsa troppo "personale" per poter essere
ridotta solo a strumento professionale e che quindi, per poter
essere interiorizzata, abbia bisogno di condizioni e modalità d’uso
altrettanto personali. I libri, anche i manuali, uno/a se li legge e
sfoglia a casa ed eventualmente li usa anche per incartare i pesci.
Così dovrebbe essere per il computer. Sono in piena sintonia con la
scelta, fatta in altri paesi, di agevolare al massimo l’acquisto
privato di macchine e l’accesso domestico a Internet da parte del
personale docente della scuola.
Sono passati cinque anni dal documento della
Commissione dei Saggi.
Che ne è di quel progetto?
Non spetta a me darne una valutazione. Mi limito a
dire che l’interrogativo da cui ha preso le mosse e il metodo di
quel lavoro mantengono una loro attualità. Per un verso resta
aperta la domanda su che cosa si dovrebbe concentrare l’azione
dell’insegnamento scolastico: non si può volere tutto, occorre
fare una scelta. Per un altro verso, è giusto che su questo
interrogativo di portata generale si interroghino tutti, e non solo
gli specialisti. Che senso ha chiedere a uno storico se la storia è
importante, se è un sapere scolastico prioritario? Forse la
risposta più adeguata la possono dare, in proposito, un ingegnere,
un fisico, un filologo, un ciclista, un verduraio, un cuoco. L’idea
della commissione dei "saggi" era di chiedere a un gruppo
di "osservatori del mondo" che cosa fosse prioritario, in
termini di saperi scolastici. Nel merito, i risultati di quel lavoro
sono un elenco di ovvietà e di banalità, che però hanno fatto
saltare i nervi ad una parte della scuola. Dire che lo statuto
linguistico dell’inglese è oggi diverso da quello della altre
lingue non è forse una banalità? Dire che occorre dare le basi di
una cultura classica a tutti e che questo non significa insegnare a
tutti il latino e il greco non è una banalità? Dire che un paese
come il nostro dovrebbe dare ben altro riconoscimento alle arti
visive e sonore che cos’è, se non un’ulteriore banalità?
Eppure, quanti si sono inalberati, e come! Viene il sospetto che
come si sta mostrando difficile (impossibile) cambiare l’impianto
della scuola italiana, così avvenga per il suo impianto culturale.
Quali sono le sue impressioni nel merito del
progetto Moratti di riforma della scuola?
La mia impressione (e preoccupazione) più forte è
che passi l’idea che ad ogni cambio politico si possa o
addirittura si debba ripensare ex-novo la riforma scolastica. Il
danno che ne verrebbe sarebbe doppio: perché autorizzerebbe ogni
forma di radicalismo ideologico, perché paralizzerebbe ogni
volontà di cambiare la scuola. Di fatto, perderebbe di validità l’esigenza,
che considero cruciale, di far sentire la scuola costantemente
coinvolta e impegnata in un processo di riforma. La cosa che più
temo è che nel gioco dei veti (Moratti dà lo stop a Berlinguer,
il/la post-Moratti dà lo stop a Moratti, ecc.) la scuola immobile e
immodificabile sia destinata a vincere. Sarebbe un esito drammatico
di una stagione di ripensamento della scuola nazionale iniziata
quarant’anni fa, ma andata via via esaurendo le passioni e le
ragioni da cui aveva preso le mosse. Fino agli infausti esiti degli
ultimi anni. Sarebbe inutile, anzi è colpevole nasconderselo. Una
riforma sancita dal Parlamento e annullata (più propriamente: in
via di annullamento) dal Parlamento segna un vulnus sul corpo e sull’anima
della scuola, svuota ulteriormente di senso l’immagine collettiva
dell’istituzione. Quindi, sono meno preoccupato del progetto
Moratti (tanto non prenderà corpo, come non ha preso corpo il
progetto Berlinguer) e più del fatto che su tutto sembra prevalere
lo sport del tiro al bersaglio.
A mio avviso non c’è che un modo per uscire dallo stallo attuale.
Prendere atto che con l’ideologia si va poco avanti ma anche che,
sotto lo strato ideologico, si possono trovare elementi concreti,
positivi, condivisi teoricamente da tutti.
Chiarisco questo punto, a mio avviso basilare. Il progetto
Berlinguer, con tutti i suoi limiti "illuministici" aveva
(ha) il merito di proporre una revisione della base dell’edificio
scolastico, problema, questo, al quale non si può più sfuggire, a
meno che non ci si autoaccechi e non si voglia riconoscere in che
misura l’istruzione di massa e lo sviluppo della cosiddetta
società della conoscenza abbiano modificato, anche in termini
qualitativi, il profilo culturale e la composizione sociale dell’utenza
scolastica e come l’assetto generale del sistema debba essere
ripensato in funzione del nuovo contesto. E’ sorprendente come il
problema di rivedere l’assetto della formazione di base sia stato
contrastato con pseudoargomenti psicologici (tipo: elementare e
media corrispondono a stadi profondamente diversi dello sviluppo
individuale) e come non si sia stati capaci di contrapporre a questi
pseudoargomenti seri argomenti culturali, sociali, economici,
antropologici.
Analogamente, il progetto Moratti ha il merito di mettere in luce un
tema di portata generale, la necessità che si dia finalmente vita,
anche da noi, ad sistema per la formazione che abbia dalla sua le
caratteristiche della serietà, dell’efficacia, della
flessibilità culturali, ed anche quelle dell’apertura alle
dinamiche del lavoro e dell’integrazione/interazione con la
scuola. Tra il dire del progetto Moratti, oggi in discussione, e il
fare relativo, che nessuno è in grado, adesso, di collocare
adeguatamente nel tempo e nello spazio, ritengo che ci sia la stessa
distanza che molti ieri hanno denunciato a proposito delle idee
berlingueriane e della loro praticabilità.
Questo però non vuol dire che non si possa fare né l’una né l’altra
cosa. In un paese serio potrebbe voler dire che le due cose le si
possono fare, anche assieme, ma nei tempi e nei modi che sono propri
di un sistema complesso come quello dell’educazione e con il
consenso della saggezza collettiva che dovrebbe accompagnare ogni
significativo intervento sul tessuto sociale. Naturalmente quel
paese proverebbe la sua serietà soprattutto nel ridimensionare la
componente ideologica del confronto e nell’andare alla sostanza
delle cose. Ovviamente non sto parlando del nostro paese."
luglio 2002
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