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La positività del negativo
status del rifiuto nel pensiero di alcuni filosofi d'occidente

di Luciano Dottarelli

(Relazione svolta in occasione del seminario su "L'imprevedibile metamorfosi dei materiali" tenutosi a Bolsena nell'estate del 1999 nell'ambito del programma di informazione ed educazione
ambientale "Much to do about rubbish")

La mostra di arte trash allestita attorno a noi vuole mostrare visivamente che Much to do about rubbish (il titolo complessivo di questo progetto) può essere non soltanto un richiamo da rivolgere in primo luogo ai pubblici amministratori ("c'è molto da fare sul problema dei rifiuti") ma anche un invito a scoprire che "c'è molto che si può fare" con i rifiuti.

Con questa stessa finalità mi è stato chiesto di svolgere alcune riflessioni epistemologiche sul ruolo che può avere lo scarto, l'errore, il marginale nella crescita della conoscenza, nel passaggio da un paradigma scientifico ad un altro. Ho provato a farlo senza un piano coerente, rovistando e frugando nella memoria - come si fa in una soffitta - per ritrovare parole, immagini, metafore che offro come spunti per una riflessione in comune su questo argomento.

Il primo ritrovamento è un passo del Parmenide di Platone in cui Socrate, discutendo con il filosofo di Elea, gli espone la dottrina delle idee. Essa, in modo molto semplice, si può riassumere così: noi - dice Platone per bocca di Socrate - conosciamo davvero qualcosa quando conosciamo il modello, l'idea di questo qualcosa. Nella geometria non conosciamo i teoremi di Pitagora e di Euclide o le proprietà del triangolo soltanto perché le dimostriamo nel particolare triangolo che, ad esempio, abbiamo disegnato alla lavagna; ma le conosciamo davvero perché conosciamo l'idea del triangolo che vale come modello per tutti i triangoli possibili, tutti quelli che possiamo disegnare. E lo stesso accade per un'azione: noi la riconosciamo come giusta solo se sappiamo cosa è la giustizia in sé. Analogamente possiamo dire di conoscere davvero che cos'è un cavallo quando conosciamo l'idea del cavallo. Le idee hanno un’esistenza separata dalle cose di cui costituiscono il modello. Esse sono collocate in un mondo che Platone chiama "iperuranio" il quale, a rigore, dovrebbe contenere idee di tutte le cose che ci sono da conoscere in questo mondo.

Parmenide domanda allora a Socrate: questo vuol dire che nel mondo delle idee ci sono i modelli anche delle cose più infime, del sudiciume, del fango, dei rifiuti? Ci sono dunque anche idee di queste cose, che sono "di natura vile e spregevole al massimo grado"? E Socrate, messo in difficoltà, risponde: "No, no, si tratta di cose che, quali noi vediamo, tali esistono in realtà, e così bisogna guardarsi dal pensare che ci sia un'idea anche per esse, potrebbe essere fuori luogo".

Non c’è posto, nel mondo delle idee di Platone, per gli scarti, la sporcizia, i rifiuti.

(Sappiamo del resto che in tutta la storia dell'arte il brutto, gli aspetti marginali della realtà, hanno tardato a trovare dignità di rappresentazione. Soltanto molto tardi entrerà di prepotenza nell’arte la rappresentazione del brutto e ci entrerà quando ci sarà bisogno di un paradigma nuovo per vedere la realtà. Pensiamo a quando Hieronymus Bosch nella Flagellazione di Cristo dovrà rappresentare il male, gli aspetti orrendi della realtà, e lo farà attorniando il Cristo flagellato con una serie di personaggi dagli sguardi crudeli e dai volti deformati che rappresentano il brutto, anche il brutto morale, la malvagità. Oppure a quando Van Gogh rappresenterà la realtà in tutta la sua pienezza, anche nei suoi aspetti più duri, più crudi... Pensate ai Mangiatori di patate o anche alle Scarpe del contadino, quadro che è stato oggetto di tanta riflessione filosofica: le scarpe del contadino consunte dall’uso che , da oggetto di scarto, vengono innalzate alla dignità e all'eternità che conferisce l'arte).

Il nostro percorso di immagini comincia dunque con un’assenza, Platone non ci aiuta in questa riflessione sul tema della conoscenza e dei rifiuti, quindi, per il momento, mettiamolo da parte, scartiamolo.

Un'altra immagine che recupero nella soffitta dei ricordi filosofici proviene invece da un'opera di un grande pensatore del Novecento, un filosofo della scienza e della politica: Karl Popper. L'opera si intitola Conjectures and Refutations.

Refutazioni, confutazioni; qui l'etimologia ci aiuta immediatamente. Refutare (che significa appunto confutare, respingere) probabilmente deriva da una voce latina, re più futare, stessa voce presente in confutare, che ha lo stesso significato. Il percorso che ha portato da refutare, confutare a rifiutare è un percorso oscuro. È da lì che viene la parola rifiuto: qualcosa che si elimina, che si scarta.

Nel caso di Popper il recupero delle immagini dalla soffitta della memoria è dunque più fruttuoso, può stimolare delle riflessioni che sono pertinenti proprio al tema che noi dobbiamo affrontare, il tema dell'errore e del rifiuto nella conoscenza. Infatti refutations è parola chiave dell'epistemologia di Karl Popper.

Lo scienziato, secondo Popper, non va alla ricerca di conferme delle proprie teorie ma di fatti che possano falsificarle; se però questi fatti non si trovano, se le teorie non sono falsificate, allora noi continuiamo ad utilizzarle. Quindi noi non possiamo provare la verità definitiva di nessuna teoria, dobbiamo accontentarci di teorie che fino a questo momento non sono state falsificate dall'esperienza e che accettiamo provvisoriamente, essendo consapevoli della loro precarietà. Se queste teorie saranno in seguito falsificate dall'esperienza, se ci accorgeremo che sono errate, noi dovremo eliminarle senza troppo indugio.

Le diverse versioni del falsificazionismo di Popper sono più o meno sofisticate, però rimane ferma una regola: secondo Popper il vero scienziato è quello che non esita ad abbandonare le proprie teorie che risultassero confutate. È quello che espone il collo alla mannaia - si potrebbe dire - con gusto, volentieri. Non cerca di evitare la falsificazione delle proprie teorie, ma fa di tutto per metterle alla prova, per vedere se possono essere falsificate e se non lo sono le mantiene (provvisoriamente). Secondo Popper bisogna scartare le teorie che sono confutate senza troppo tergiversare. È questo l'atteggiamento critico dello scienziato. Non si affeziona alle sue teorie ma le fa morire quando sono confutate e le abbandona per passare ad altre.
Il progresso della scienza si svolge appunto secondo questo schema: problemi, teorie (congetture, ipotesi, tentativi di soluzione dei problemi) e critiche (tentativi di confutazione). È una epistemologia ipercritica, che vede il progresso come una rivoluzione permanente, un cambiamento continuo di teorie. Le teorie del passato si sono dimostrate false, le abbiamo abbandonate, ne abbiamo accettate di nuove. Quindi le nuove teorie scalzano quelle precedenti. Qui gli spunti di riflessione, per l’argomento che ci interessa, diventano più suggestivi, benché un po’ azzardati. Come si può resistere, ad esempio, alla tentazione di leggere in questo modello epistemologico il riflesso della condizione della nostra società dell' usa e getta, della società bruciante che in tempi rapidissimi consuma gli oggetti e il rapporto con gli oggetti, spinge a cambiare, a rinnovare continuamente? Lo scienziato che non deve difendere più di tanto le proprie teorie confutate dai fatti, che deve abbandonarle al proprio destino, non è figura analoga a quella del consumatore di oggi che non deve affezionarsi ai propri oggetti, ormai non più efficienti, e che, spinto dalle politiche di rottamazione, deve disfarsene per acquistarne di nuove?
Ma è davvero così che procede la scienza? Quella di Popper non è forse una idealizzazione? Davvero gli scienziati sono così pronti a rinunciare alle proprie teorie di fronte alla loro falsificazione da parte di qualche fatto nuovo? Anche questa descrizione è sicuramente una idealizzazione.
La realtà dell'attività scientifica, è una pratica molto più umana, molto meno idealizzata. Anche in Popper opera in fondo quello stesso super-io, quel bisogno di idealizzazione di cui parlavamo prima a proposito di Platone. C'è, un po’ più latente, la stessa idea classica che la conoscenza sia veramente fondata soltanto quando risponde a norme e modelli che hanno una validità sovrastorica.

Ricostruzioni successive del progresso scientifico, ad esempio quelle di G. Bachelard o di T. Kuhn, hanno messo in evidenza come in realtà la scienza non proceda affatto così. Non è facile trovare scienziati che di fronte ad un caso contrario abbandonino le proprie teorie e ricominciano tutto da capo. Non sarebbe giusto e di fatto non è così. In realtà, nella storia della scienza ci sono lunghi periodi in cui lo scienziato opera con grande fiducia all'interno di un paradigma, di una teoria molto comprensiva, e quando si presentano dei fatti che appaiono contraddirla, anziché abbandonarla improvvisamente, cerca di aggiustare la rete teorica. Cerca di risolvere quelli che per lui sono dei rompicapo, non dei veri problemi. Dei rompicapo nel senso che lo fanno impazzire per cercare la soluzione (che è sicuro deve esserci) in una migliore articolazione della stessa rete concettuale. Quante falsificazioni aveva subìto, ad esempio, la concezione astronomica aristotelico-tolemaica? Eppure prima di arrivare ad abbandonarla per quella copernicana è dovuto passare molto tempo.

In realtà c'è un altro fattore che opera nella storia della scienza come in tutte le azioni degli uomini: la tenacia. La tenacia con cui lo scienziato resiste a non abbandonare la sua teoria ma a mantenerla nonostante le confutazioni – perché queste, a loro volta, potrebbero essere false - non è un atteggiamento irrazionale, come dovrebbe essere secondo il modello di Popper.
Il fatto è che non esiste una razionalità istantanea. La saggezza, anche in questo campo, matura col tempo: si può essere saggi soltanto retrospettivamente.

Anche questa situazione è possibile esprimerla con un' immagine: quella, notissima nella storia della filosofia, della civetta di Hegel. La filosofia – dice Hegel - è appunto come la nottola di Minerva: spicca il volo sul far della sera. La civetta è la nottola di Minerva, l'uccello notturno della dea della sapienza. Essa non giudica immediatamente, la sua razionalità non è istantanea; ma aspetta col tempo che maturi la saggezza È proprio per questo che è in grado di comprendere tutta la realtà e sa evitare la superficialità. Quella superficialità - scrive Hegel nella Fenomenologia dello Spirito - "...come quando di qualche cosa noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos'altro. Lo spirito invece è questa forza solo perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui".
Da questa metafora scaturisce un altro modello possibile per il nostro rapporto con gli oggetti. Un modello che sa valorizzare il sentimento del passato, della permanenza delle cose, che sa cogliere anche il fascino dell'oggetto che è usurato dal tempo, che sa cogliere la seduzione che promana dall'usura di un volto, di un gesto, di un oggetto.

Ma è solo una forma di tenerezza per le cose che ci sospinge ad abbandonare quel paradigma dell' usa e getta, del passare di nuovo in nuovo, o c'è qualcosa di più?

Ancora un'altra immagine, stavolta offertaci da Stephen J. Gould che si sofferma a riflettere sulla pratica, comune nei paesi del terzo mondo, di ricavare, in modo sorprendente, da oggetti della civiltà industriale tutti altri oggetti. Sandali che si ricavano da pneumatici, oppure bracciali che si ricavano dai fili del telefono, oppure coperchi che si ricavano dai fusti di petrolio.

"Dai pneumatici ai sandali" diventa, per Gould, il princìpio di spiegazione anche del progresso evolutivo. L'evoluzione dalle forme più elementari di vita a quelle più complesse non avviene secondo un processo lineare, univoco, unidirezionale. Questo percorso può essere rappresentato piuttosto come una serie di stati stabili punteggiati ad intervalli da grandi eventi, da grandi estinzioni. E ricostruendo la storia della vita nel passato egli ritiene che ci siano state cinque, sei grandi estinzioni di massa che hanno appunto portato alla distruzione di grandi specie che apparivano in quel momento le meglio adattate all'ambiente e che invece hanno dovuto soccombere e lasciare spazio ad altre specie che si incuneano in nuove nicchie evolutive. Nel periodo di crisi il successo dipende spesso dall'abilità fortuita nel riciclare in modo nuovo elementi già posseduti.

I pneumatici in sandali: quando cambiano le regole, quando non c'è più benzina, a che serve il buon funzionamento di un pneumatico? Non ha nessuna importanza. Può essere utile invece l'abilità di riconvertire il pneumatico in sandali; aver la capacità di riciclare, saper fare un'originale e nuova utilizzazione di vecchi tratti diventa una chance in più, una possibilità di successo nell'adattamento all'ambiente. Interessante è notare come buona parte del corredo genetico sia costituito di copie multiple di geni che non servono a niente, "materiale per robivecchi" che non ha nessuna funzione nella vita dell'individuo ma che è lì pronto ad essere riciclato di fronte ad una situazione nuova, ad una estinzione di massa che possa mettere in difficoltà le forme di vita più sviluppate.

Nel corso di questo disordinato rovistare nella soffitta delle immagini e delle metafore siamo dunque passati dal disprezzo di Platone per il rifiuto e lo scarto addirittura al riconoscimento della sua dignità di ingrediente fondamentale di un modello esplicativo del processo dell'evoluzione.

Ma è davvero così nuovo, così inaspettato questo esito a cui siamo pervenuti? Non c'erano indizi che potevano suggerircelo fin dall'inizio?

Torniamo ancora a recuperare Platone. Indugiamo dunque, come dice Hegel, su quanto poco fa abbiamo messo da parte e scartato. Andiamo avanti a leggere nel Parmenide...

A Socrate che aveva negato con decisione che di cose spregevoli come l'immondizia, la sporcizia, il fango potessero esserci delle idee, il vecchio Parmenide, che Platone in un altro dialogo chiama venerando e tremendo e che descrive nobile d'aspetto, segnato dal tempo, ma comunque reso saggio da esso, Parmenide così rispondeva: "È perché tu sei ancora giovane - oh Socrate - e la filosofia non ti ha ancora preso come prevedo che ti prenderà in futuro, quando non avrai più disprezzo per nessuna di quelle cose. "


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