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I neuroni specchio, l’apprendistato cognitivo e l’insegnamento delle competenze di
Cinzia Mion Mi hanno stimolato ad intervenire i contributi di Pasquale D’Avolio su questo sito e la diatriba tra Giorgio Israel e Silvano Tagliagambe sul sito “ilsussidiario”. Il tema è quello, a proposito dell’emanazione delle indicazioni sugli obiettivi specifici di apprendimento dei licei, di avviare un confronto sulla necessità di sostenere a scuola l’insegnamento delle competenze oppure se deve trionfare nuovamente il “disciplinarismo” . Secondo il mio modesto avviso comprendere il senso dei testi che si leggono, scrivere un testo pertinente, chiaro, plausibile, efficace, incisivo in relazione agli scopi prefissati , saper utilizzare il problem posing oltre che padroneggiare il problem solving ,paradigma essenziale per sviluppare lo spirito scientifico, sono competenze che la scuola deve saper insegnare e non è vero che derivano automaticamente dall’insegnamento delle discipline. .. Comunque rimando agli autori appena citati la conoscenza delle argomentazioni reciproche, sottolineo soltanto lo sconcerto provato nel registrare la supponenza e l’aggressività , (la sua sì arroganza intellettuale!) che Israel esplicita nelle risposte a chi osa criticare le sue posizioni con l’implicita domanda “ma chi è questo pidocchio” che osa contraddirmi? Io non riceverò nemmeno l’onore di questo epiteto,
essendo per il professore Israel una illustre sconosciuta, anzi
presumendo di far
parte di quella corporazione di
“ esperti” scolastici che pur privi di competenze specifiche
- ( allora
esistono le competenze!) –
ritengono di dettar legge in nome di una fumosa dottrina
metodologica “dell’education”
Sono d’accordo che sia difficile “misurare” le competenze (mancando l’unità di misura) ma si potrebbe valutarne la differente padronanza se solo separassimo il concetto di misurazione da quello di valutazione e contemporaneamente abbandonassimo la fantasia illusoria dell’oggettività . Non entrerò perciò nel merito di questo argomento già abbondantemente affrontato da altri. Vorrei invece provare ad inoltrarmi nel terreno difficile dell’opportunità che la scuola italiana programmi ed insegni le competenze ma soprattutto cercherò di affrontare il problema della necessità ineludibile di trasformare la metodologia se si vogliono cogliere questi obiettivi Eviterò con cura le secche della definizione del
termine competenza ma mi appoggerò prima di tutto a Perrenoud ( anche
lui un pidocchio?) che dice che l’approccio per competenze richiede lo
sviluppo di schemi logici di
mobilitazione delle conoscenze. Tali schemi logici si acquisiscono non
con la semplice assimilazione di conoscenze,( su cui qualcuno pensa poi
avviare delle abilità e quindi la famosa competenza) ma attraverso
la pratica. La costruzione di
competenze è dunque inseparabile dalla costruzione di schemi di
mobilitazione intenzionale di conoscenze,
in tempo reale, messe
al servizio di un’azione efficace. La formazione di competenze richiede
una piccola “rivoluzione culturale” per passare da una logica
dell’insegnamento ad una dell’allenamento, sulla base di un postulato
semplice : le competenze si costruiscono esercitandosi sulla base di
situazioni d’insieme complesse. SI TRATTA DI APPRENDERE A FARE CIO’ CHE NON SI SA FARE FACENDOLO. Questa affermazione mi permette di introdurre la metodologia dell’apprendistato cognitivo. So benissimo che parlare di metodologia farà accapponare la pelle al prof. Israel ma tanto non mi leggerà … Gli autori delle ricerche su questo approccio - Collis, A, Brown, J.S, Newman, S.E.- affermano che l’apprendistato cognitivo mutua dall’apprendistato tradizionale le quattro fasi fondamentali: 1) l’apprendista osserva la competenza esperta al lavoro e poi la imita (modeling) 2) il maestro assiste il principiante , ne agevola il lavoro, interviene secondo le necessità, dirige l’attenzione su un aspetto, fornisce feedback,(coaching) 3)il maestro fornisce un sostegno in termini di stimoli e di risorse, reimposta il lavoro (scaffolding) 4)il maestro diminuisce progressivamente il supporto fornito per lasciare via via maggiore autonomia e un crescente spazio di responsabilità a chi apprende. Nell’apprendistato cognitivo a queste strategie di base se ne affiancano altre che danno maggior rilievo ai processi cognitivi e alle strategie metacognitive. 1) si incoraggiano gli studenti a verbalizzare (pensare a voce alta) -come ha fatto precedentemente il docente come modello- mentre realizzano l’esperienza; 2) li si
induce a confrontare i propri problemi con quelli di un esperto, facendo
così emergere le conoscenze tacite (facilitazione
procedurale) 3) li si spinge ad
esplorare, porre e risolvere i
problemi in forma nuova. In questo modo anche lo studente più debole si mette alla prova cimentandosi in contesti non minacciosi per il Sé e sperimentando progressivamente la propria autoefficacia. In questo modo egli inoltre è condotto ad assumere in proprio la regolazione dei suoi processi cognitivi. C’è da aggiungere che nell’apprendistato cognitivo la classe è una comunità che apprende. Tutti insegnanti ed allievi assicurano una responsabilità congiunta di apprendere ed insegnare reciprocamente. Credo che risulti chiaro che questo metodo si inscrive a pieno titolo all’interno dell’approccio socioculturale vigotskiano (mi viene da spanciarmi dal ridere se provo a rappresentarmi cosa penserebbe il Prof.Israel di tutto ciò…) A proposito poi di neuroni specchio-
favolosa scoperta dei
neuroscienziati italiani
Rizzolatti e Gallese- secondo me
va sottolineato il collegamento tra l’apprendistato cognitivo e
l’acquisizione delle competenze. Tale connessione mi chiedo, e chiedo
agli esperti in materia, se viene
spiegata scientificamente
proprio dal sistema dei
neuroni mirror , attraverso il nesso
percezione-simulazione. In altre parole la modalità interattiva dell’apprendimento sottolineata da Vygotskij , a livello socioculturale, viene confermata dalle neuroscienze? Dice Gallese che i neuroni specchio sono le basi neurofisiologiche della intersoggettività. Gli stessi circuiti neuronali attivati nel soggetto che esegue azioni, esprime emozioni e prova sensazioni vengono automaticamente attivati anche nel soggetto che osserva queste azioni, emozioni e sensazioni. Questa attivazione condivisa suggerisce un meccanismo funzionale di simulazione incarnata che costituisce la base biologica per la comprensione della mente altrui.
Nell’apprendistato cognitivo abbiamo detto che il docente esplicita i processi del suo pensiero (pensa a voce alta) sia quelli cognitivi che quelli metacognitivi mentre cerca e trova il senso, o la polisemia, dei testi che propone attraverso la sua lettura, mentre imposta la procedura pertinente e complessa di un testo scritto, mentre trova il bandolo nella traduzione dei testi di greco o di latino, mentre esplicita le connessioni e i processi soggiacenti al ragionamento matematico o geometrico nella esplorazione delle varie situazioni problematiche, ecc. Risulta pertanto ovvio che sono i docenti che per primi devono padroneggiare i processi mentali che stanno sollecitando, processi che invece spesso rimangono taciti e non espressi perché affidati a procedure automatizzate. Sono pertanto i docenti universitari disciplinaristi che devono conoscere ed insegnare ai futuri docenti la loro disciplina scorporandone ed evidenziandone i processi mentali implicati! Successivamente a turno saranno gli allievi ad essere messi alla prova con la medesima prassi, naturalmente su compiti diversificati ma simili, finchè l’abitudine ad esternare processi cognitivi e metacognitivi sarà consolidata e finchè la competenza , che sappiamo si acquisisce “facendo”, quando ancora non si sa fare, un po’ alla volta si rafforzerà anche di fronte all’imprevisto. Da notare che tutti, allievi e docente, insegnano, man mano che le competenze affiorano. Si parla infatti di
insegnamento reciproco. L’aspetto che piacerà meno ai fautori della scuola selettiva e classista, costruita sui vecchi parametri gentiliani- che al tempo di Gentile però aveva una giustificazione- è che in questo modo le competenze verranno acquisite anche dai soggetti più fragili. Verificare operativamente che si sta apprendendo è infatti la più forte molla motivazionale.
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