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NON SONO I PROGRAMMI
Anch’io, maestra elementare, potrei dire che le mie alunne e i miei alunni non si sono mai annoiati: almeno così mi è parso. Ma non posso esserne sicura. Tuttavia ho riscontrato che ogni qualvolta io mi sono messa in cattedra senza ascoltare, magari con qualche pregiudizio, l’attenzione e la partecipazione sono visibilmente diminuite. Non credo proprio che la noia dipenda dai programmi: di questo sono assolutamente sicura. Invece credo che dipenda da noi, dal nostro modo di porci in situazione, dal nostro essere troppo adulti corazzati di sapere e cultura, dal nostro essere certi, dal nostro dimenticare cosa sia la "convivialità", dalla maschera che tendiamo a indossare dimenticando da dove veniamo, che cosa siamo stati, quanta fatica abbiamo fatto per giungere dove siamo, chi ci ha generati e i conflitti che abbiamo "attraversato" per diventare adulti senza esserlo fino in fondo. Penso che nella maggioranza dei casi, ci "dividiamo": la persona che siamo nella sua interezza "a casa", la/il professionista che tutto sa (?!) a scuola, coi colleghi, in società. "A casa" a sbattere le nostre paure, le nostre debolezze, a scuola a nasconderle. "Recuperare la nostra persona e il senso della nostra vita" dovrebbe essere la regola guida per riuscire nell’insegnamento, ma non è facile essere trasparenti: lasciare che professionalità e cuore si riuniscano a costo di sentirsi "nudi" e fragili. Io credo profondamente in una scuola in cui siano la studentessa e lo studente-persona ad agire e che ella/egli debba essere l’artefice del proprio apprendimento, con noi vicini compagne/i fedeli di umanità che hanno sofferto e gioito degli stessi dubbi e delle stesse esplorazioni; credo che una pedagogia democratica si debba accompagnare a una didattica altrettanto democratica che veda le studentesse e gli studenti impegnati a ricercare risposte "in azione", nove volte su dieci in collaborazione con i pari; credo che l’arma per sconfiggere la noia non sia quella degli strumenti (più o meno sofisticati) che ho o non ho a portata di mano, ma ciò che le studentesse e gli studenti hanno in natura, a disposizione: la loro grande voglia di misurarsi, fra pari, con i pensieri che nascono da sollecitazioni anche minimali. So che è lasciandole/i confrontare, litigare, scontrare, affezionarsi a un’idea… che è mettendole/i nella situazione del ricercatore in equipe che esse/i non si lasciano distrarre neppure per un attimo. Mi accorgo che la potenza dell’errore è più grande di quella della perfezione, che il riconoscimento reciproco delle nostre umanità che scoprono stupite molte risposte inaspettate e rivedibili è il segreto del nostro rapporto. Mi pare che non ci sia nulla di più alto che il metterci alla prova di fronte alle sfide delle discipline e delle attività che creiamo insieme. La regola va scoperta, ma senza rigidità, senza cura maniacale per i dettagli di essa…senza l’assillo delle valutazioni sistematiche… pena la lontananza. Mi sembra poi che il tempo sia una variabile tanto importante, nel senso che esso dovrebbe essere assoggettato al nostro desiderio di approfondimento della scoperta appena fatta…lasciato scorrere come se non esistesse per essere catturato alla fine di un percorso e irriso: un apprendimento lento e meditato, conseguito cooperativamente dai pari, è la strada più breve verso le successive conquiste. Offrire alle ragazze e ai ragazzi strumenti di indagine che vanno dai testi, ai documentari, alle uscite didattiche, alle poesie, ai brani letterari… è sicuramente il nostro compito, e deve essere eseguito con grande scrupolo, alta professionalità, ma poi esse/i devono essere sollecitati e indirizzati in modo strategico a iniziare un cammino autonomo in collaborazione con le/i compagne/i, supportati sia da tali strumenti, sia da quelli della loro esperienza, e in questo viaggio della conoscenza devono essere sole/i con i loro pensieri e le loro ipotesi da verificare nello scontrarsi con le difficoltà, con gli insuccessi momentanei che nessuna/o di noi dovrebbe giudicare, ma sentire propri per la loro natura di "errori", i quali anche noi abbiamo conosciuto e superato, senza, purtroppo, che nessuno ci desse la possibilità di scegliere autonomamente la strada del superamento, della risoluzione. L’adulto educato in un sistema rigido tende al delirio di onnipotenza senza accorgersene: tenere tutto sotto controllo, scodellare la cultura dalla cattedra, così come è stato fatto con lei/lui, la/lo fa sentire padrona/e della situazione ed esperta/o. Martellare di nozioni e di pensieri di "altri" le studentesse e gli studenti diventa un modo per sentirsi preparati e bravi dimenticando il tempo dell’ascolto rivolto a chi sta lì davanti alla cattedra con il vuoto mentale della persona che pensa più all’interrogazione successiva che non a rielaborare le parole che percepisce spesso come un ronzio. Anche offrire la propria cultura abbellita di specchietti ultramoderni (lucidi, computer, immagini…) può diventare un dono che dall’alto scende verso il "basso" per innalzarlo, così può non essere vincente contro la noia degli "ultimi", perché essi sembrano aver bisogno, ogni giorno di più, di rapporto, di vicinanza, di misura del proprio sé con l’ "altro". Una pedagogia che riscopra l’attenzione per l’essere umano, per la sua creatività, per la sua ricerca di un ordine "trovato" e non inoculato dall’altra/o è sicuramente quella che ci attende nel futuro che vorremmo. E’ una pedagogia che non teme il dubbio, l’imprevisto, che non guarda l’orologio, che crede nella scuola come luogo di incontro privilegiato per tutte le tipologie di giovani; è una pedagogia che "comincia a ricominciare" da zero ascoltando le parole preziose di chi non ha ancora tutte le parole per esprimere i concetti che va "conoscendo", che non teme l’errore e lo ama perché le svela i percorsi mentali che l’ hanno prodotto. La/il maestra/o vede sul nascere l’umanità che cambia e si accorge con immediata percezione delle proprie difficoltà di comunicazione con le generazioni che cambiano e che le/gli chiedono a gran voce di cambiare sistema, di aggiornarsi per comunicare, per "resistere", senza "scandalizzarsi", alla vita che muta, e lo fa con umiltà, con stupore, con incredulità per quello che "stravolge" in se stessa/o se vuole stare bene con le bambine e i bambini, perché esse/i sono le/i prime/i a svelare il volto della società che abitano: bisognerebbe che la società adulta prestasse maggiore attenzione anche all’infanzia dell’essere umano e che "studiasse" le richieste di cura e ascolto delle/dei piccole/i con occhio disincantato ma appassionato, per prevenire i mali delle/degli adolescenti.
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