|
|
Noto ed Ignoto
di
Cinzia Mion
Non
ho motivo alcuno di dubitare che Stefanel riesca a gestire alla
perfezione un Istituto Comprensivo di 2000 alunni e non ho motivo di
contestare l’ispettore De Anna che gli dà ragione.
Voglio però raccontare cosa ho scoperto frequentando come formatrice
diversi Istituti Comprensivi in giro per l’Italia,
parlando con gli insegnanti dei
vari ordini di scuola durante i lavori di gruppo e nelle relative pause.
Nella maggioranza dei casi tutti i docenti, o quasi tutti,
lamentano di vivere “separati
in casa”.
Per
esempio le docenti della scuola dell’infanzia, pur godendo spesso, da
parte dei dirigenti scolastici, di molta ammirazione per il tipo di
lavoro laboratoriale che svolgono,
ammettono quasi con rassegnazione di non essere molto considerate
dagli altri colleghi che talvolta ne criticano la modalità di educare i
bambini affidati.
Quelli della scuola primaria infatti a volte vengono colti a
sussurrare che le colleghe non “scolarizzano” sufficientemente i
bambini, i quali arrivano senza regole, e quelli della scuola secondaria
sembra che invece si limitino ad ignorarle.
Ha
un bel dire poi qualche dirigente, a proposito degli insegnanti
elementari “vedessi quanto lavorano gli insegnanti della scuola
primaria…” ma questi avvertono la svalutazione implicita,
ma costante,
di quelli dell’ordine successivo
che non si sono ancora riavuti del tutto dal rischio di essere loro
accomunati dalla legge Berlinguer.
Questi ultimi poi hanno lo sguardo rivolto al mondo della scuola
secondaria di secondo grado con l’obiettivo di evitare la
stigmatizzazione che potrebbe provenire da quel fronte,
esemplificata dalla frase aborrita “Ci hanno mandato dei
semianalfabeti…da quale scuola media provengono?”
Il gioco di cercare il responsabile continua con la
colpevolizzazione :”Se non ce la facciamo la colpa è di qualcun altro
che non fa la sua parte”
Naturalmente sto generalizzando, operazione impropria e scorretta ma,
tenendo conto delle debite eccezioni, mi avvicino molto alla realtà.
Ovviamente qualche collega non si riconoscerà in questa superficiale
semplificazione ma anch’io quando ero dirigente scolastica avrei giurato
che tutto stava andando bene…ed invece ho scoperto, attraverso le voci
dei supplenti, che girano come sappiamo di classe in classe, alcune
smagliature difficili da scoprire soprattutto se si sta attestati solo
all’aspetto organizzativo come accade oggi frequentemente.
Comunque questo preambolo sugli Istituti Comprensivi è utile a
sottolineare che una parte del gravoso compito del Dirigente Scolastico,
chiamato a far scaturire dalla comprensività un valore aggiunto, è
quello di creare occasioni di scambio produttivo tra i docenti dei vari
ordini di scuola, per raggiungere un miglioramento del processo di
insegnamento-apprendimento.
Ricordo ancora l’insegnamento di uno dei miei formatori all’approccio
psicosociale, R. Carli, che
sottolineava spesso che inesorabilmente,
in un qualsiasi conflitto cognitivo, ognuno riporta la propria
chiave di lettura al “già noto”.La chiave invece per rielaborare
qualsiasi conflitto è quella di esplorare “l’ignoto”. Consiste nel
mettersi alla ricerca di ciò che ancora non sappiamo, anche se
sgradevole o fonte di sofferenza. Sembra un’affermazione scontata ma non
lo è per niente. Ho osservato infatti dirigenti scolastici di Istituti
Comprensivi, ex-docenti della scuola secondaria di primo grado oppure di
secondaria superiore, stigmatizzare docenti della scuola primaria perché
“senza regole strutturali(!)”, soltanto perché non usano i registri
delle presenze (il cosiddetto già noto) e non si accorgono di come siano
invece autonomi perché in
grado di gestire completamente plessi lontani dalla presidenza, a
partire dalla cosiddetta disciplina o condotta (ecco l’ignoto, che non
viene colto).
D’altronde dirigenti ex-docenti della scuola primaria portano a volte,
nel loro ruolo, un po’ di soggezione di vecchia memoria nei confronti
dei colleghi dell’ordine successivo che può rivelarsi o come eccesso di
zelo finalizzato ad una “captatio benevolentiae” oppure come spiccata
difficoltà a rapportarsi. Questa viene esplicitata come rilevazione
della loro formazione poco “psicopedagogica” ma l’effetto degli
atteggiamenti di critica, al posto di un lavoro di “contaminazione” con
quelli che invece lo sono, solleciteranno prima o poi “reciprocità”.
Per
il medesimo motivo dirigenti con lauree disciplinari, magari di tipo
tecnico-scientifico oppure giuridico-economico si affezioneranno a
modelli prettamente organizzativi e sosterranno ipotesi di Istituti
governabilissimi, a prescindere
dalla numerosità, perché ciò che conoscono bene sono le teorie
dell’organizzazione delle imprese che si reggono su efficacia,
efficienza, economicità.
Sono
d’accordo con D’Avolio quando sottolinea che la scuola non è
assimilabile ad un’impresa
ma è una comunità professionale di docenti. Bisogna però chiederci quali
condizioni rendono un gruppo di docenti una “comunità” professionale.
Questa comunità è chiamata a
gestire e far crescere nell’apprendimento e nella relazionalità sociale
tutte le classi-comunità, all’interno delle quali ogni soggetto deve
essere considerato una risorsa da sollecitare; e dove inoltre le
dinamiche interpersonali e le interferenze del proprio mondo interno
fanno saltare continuamente le previsioni dell’oggettività delle varie
teorie dell’organizzazione. Lavorare sulla formazione infatti sollecita
sia nel formando che nel formatore fantasmatiche varie che qui non è il
caso di spiegare. Per questo motivo spesso i conti non tornano ed allora
bisogna rifornirci di altre chiavi di lettura oltre a quelle che già
padroneggiamo, chiavi di lettura appunto ancora non note. (Superfluo
sottolineare come questa riflessione riguardi i dirigenti ma anche i
docenti)
La
scuola comunque esiste e realizza la sua ragione di vita all’interno
delle aule, non negli uffici del dirigente, che però ha in mano una leva
potente se assume innanzitutto l’aspetto psicopedagogico e relazionale,
e da cui scaturisce l’aspetto organizzativo, con tutto ciò che questo
comporta.
Il
nostro dirigente scolastico può indicare e sostenere infatti la
vision, contenuta “nell’idea
di scuola” nei confronti della cui
realizzazione dovrebbe essere in grado di indicare percorsi, sostenere
decisioni, valorizzare risorse, difendere obiettivi e mete difficili,
lavorare con passione. Questo è il valore aggiunto della dirigenza
specifica “scolastica”.
Anche le cosiddette funzioni strumentali, pur se
delegate dal Dirigente
Scolastico, devono far parte dell’universo del
noto ed
apprezzato, anche se non nei
particolari, permettendo interventi significativi in corso d’opera per
ricordare la traiettoria corretta.
Questo è il ruolo del dirigente scolastico “facitore di
senso” (Weick)
anche se oggi conta
anche l’aspetto della rendicontazione. Render conto del rapporto
costi-benefici non significa però dimenticare l’ efficacia dei benefici,
rapportati sempre all’idea di scuola che deve coniugare “inclusione,
equità ed eccellenza”.
Troppo comodo gestire una scuola che semplicemente “screma le
eccellenze” e facendo questo realizzare la sua economicità…
Sono
d’accordo con le domande che pone De Anna dopo aver fatto delle
sacrosante considerazioni sulla mancata “intelligenza di pianificazione
territoriale” che in certe zone del Paese è avvenuta e che in altre è
ancora aldilà da venire ma che comunque avrebbe un bisogno ulteriore di
riflessività.
Sono
anche d’accordo che il parametro della “ stupidità quantitativa” va
comunque coniugata con altre variabili,
insieme a delle serie iniziative di formazione ed elaborazione
culturale, formazione che non è di sicuro riconducibile soltanto a delle
affrettate dosi di bulimia preconcorsuale, fornita allo scopo di
superare la prova. Questi
sono degli sforzi encomiabili ma finalizzati ad una determinata
prestazione e non sufficienti a far maturare professionisti riflessivi.
Sottolineo inoltre che la complessificazione non sempre è legata alla
quantificazione, come osserva giustamente d’Avolio.
Dall’anno 1974 al 1994
personalmente mi sono trovata
infatti a governare un circolo didattico molto complesso ma non numeroso
dal punto di vista degli alunni (parametro utilizzato oggigiorno).
Nel
territorio di mia competenza (2° circolo di Conegliano) c’erano 5 plessi
di scuola elementare, di cui 3 in città e 2 in collina, 1 plesso di 30
docenti specializzati presso l’ Istituto la Nostra Famiglia, (Presidio
Sanitario) con 15 classi di scuola speciale statale a tempo pieno,
che accoglievano
bambini con varie disabilità da tutto il territorio del
distretto, bisognosi di varie
terapie che forniva l’Istituto.
Presso il medesimo Istituto
c’era anche una scuola materna statale di 3 sezioni speciali ed in città
sorgeva un’altra scuola materna statale “normale “di 4 sezioni che
apparteneva al medesimo circolo..
Il
collegio docenti della scuola elementare, più quello della materna (che
in qualche occasione
riunivo insieme) contava 105 docenti ma gli alunni superavano di poco le
700 unità ( le classi speciali erano ovviamente poco numerose).In piena
riforma raggiunse i 125 docenti.
Eppure questa situazione così complessa, ma poco pletorica di alunni
rispetto al numero di docenti, ci
ha permesso di realizzare, negli anni ottanta, una sperimentazione di
cui vado ancora fiera, in collaborazione con la Direzione dell’Istituto
e con l’appoggio dell’ente locale, che ha sovvenzionato le corse dei
pullmini che trasportavano i bambini,. Abbiamo infatti effettuato
l’integrazione di due classi della scuola speciale che scendevano ogni
mattina dalla collina, dov’era ubicata la Nostra Famiglia, con le loro
maestre e si inserivano nelle classi normali del primo ciclo del plesso
più grande, sede della Direzione. Questo ha costituito un notevole
vantaggio non solo per i bambini disabili ma anche per la didattica dei
docenti delle classi normali che, avendo aderito all’esperienza , erano
disponibili ad apprendere dai colleghi specializzati, con notevole
vantaggio per tutti i bambini che hanno potuto fruire di attività
diverse come la psicomotricità.
L’aspetto più significativo è stato quello che questa esperienza ha
modificato la cultura dell’integrazione della collettività di Conegliano
che considerava “la Nostra Famiglia” un fiore all’occhiello purchè
mantenesse l’immagine dei disabili lontano dalla vista, in collina
appunto.
Non
posso dilungarmi in questa sede ; aggiungerò solo che alla scuola
materna funzioante presso la Nostra famiglia abbiamo organizzato un
inserimento “alla rovescia” : alcuni bambini normodotati sono stati
iscritti, da genitori sensibilizzati alla sperimentazione, alla scuola
speciale perchè fornita di molto
materiale ludico
strutturato e stimolante, con docenti brave
e disponibili ad attività laboratoriali altrettanto interessanti. Il
tutto con la finalità di alleggerire la concentrazione di disabilità,
che altrimenti i bambini con handicap sarebbero stati costretti a
tollerare ogni giorno, e di appoggiare il progetto di co-evoluzione per
tutti, bambini ed adulti, che avviene sempre nell’integrazione.
Risparmio di sottolineare il lavoro di sensibilizzazione che è sotteso
ad una esperienza del genere,
per i docenti di entrambe le scuole, per i
genitori di tutti i bambini,
per il collegio dei docenti che doveva approvare e per l’Istituto
che “ideologicamente” era in un certo senso contrario all’integrazione
ma che aveva una direttrice locale molto intelligente e sensibile. Per
tutti si è trattato di progettare ed effettuare, monitorare e valutare
un lavoro, a mio parere,
significativo. Certo erano altri tempi ma non liquidiamo la narrazione
dell’esperienza con il “gioco transazionale” che Berne chiama “Sì, ma…”,
trasferendo il focus
dell’attenzione dal “Sì” al “ma” , attraverso un’ enfasi eccessiva sulle
difficoltà e depotenziando la comprensione dell’evento in questione.
Per
farla breve, chiedo a Stefanel e a De Anna, ammesso che l’esperienza
possa essere considerata interessante : avrei potuto realizzare tale
lavoro con 2.000 o più alunni?
Quale differenza ci può essere tra un dirigente che propone, sostiene,
accompagna e si coinvolge ed uno che invece è costretto a
delegare quasi tutto? Non è che a quest’ultimo rimane una funzione quasi
notarile?
Io
credo che non mi sarebbe nemmeno venuta in mente l’idea che ho appena
descritta se fossi stata
occupata a fare il custode della
legge, il semplice funzionario o “il notaio” di una situazione infarcita
alla grande di inevitabili deleghe. Ho sempre cercato nelle pieghe della
legge le potenzialità per realizzare l’idea di scuola di cui ero,
eravamo portatori.
Eppure la responsabilità e la leadership erano anche allora
diffuse (e non si sarebbe
potuta realizzare di sicuro un’esperienza del genere senza la
distribuzione di leadership pedagogica ed organizzativa).
Rivendico però il primato della leadership pedagogica , o meglio
psicopedagogica e relazionale, nei confronti della quale il progetto è
stato piegato a livello organizzativo.
Per
quanto attiene l’utilizzo delle molte risorse fornite di svariate
competenze, all’interno dell’Istituto Comprensivo, F. De Anna fa
un’affermazione su cui concordo in pieno ma egli potrà convenire con me
che prima bisogna rendere fluidi e permeabili i confini tra i vari
ordini di scuola. In altre parole si tratta di far accettare i reciproci
limiti per ricavare spazio mentale per le competenze degli
“altri” che possono aprire gli orizzonti del “non noto” o del poco
padroneggiato, senza per questo far sentire dolorosamente inadeguati.
Intendo dire che ogni docente dovrebbe sentirsi appartenente ad una
autentica comunità di pratica,
possibilmente connotata da diverse appartenenze dei vari ordini di
scuola, dove tutti imparano e
tutti insegnano. Se naturalmente il dirigente scolastico ne facilita la
creazione.
A.Tropea, nel suo intervento sullo stesso
tema dice: ”La leadership educativa del D.S. è definita dalla
capacità di tradurre in provvedimenti amministrativi ed organizzativi la
mediazione culturale
necessaria tra la comunità scolastica, le finalità istituzionali e le
domande del territorio” Appunto! |
La pagina
- Educazione&Scuola©