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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Il pendolo delle maggioranze ci distruggerà (*)

di Giuseppe Bertagna e Roberto Maragliano

A ciascuno degli autori di queste note è capitato, in tempi e contesti diversi, ma dentro a climi non dissimili, di essere pubblicamente etichettato come ispiratore pedagogico di una "grande riforma del sistema di istruzione e di formazione". Nel mezzo secolo e passa di vita repubblicana sono state annunciate molte revisioni di un qualche rilievo, in questo campo. C’è chi si è divertito a contarle, ed è approdato all’impressionante cifra di trentasei. Sappiamo che fine hanno fatto, tutte. Ma i due ultimi tentativi, l’uno operato dal centrosinistra nella seconda metà degli anni novanta e l’altro attualmente messo in campo dal centrodestra, si distinguono dai precedenti per una caratteristica, il fatto che aspirano ad una rilettura globale dell’ordinamento scolastico: non a caso chiamano in causa, già nel loro autoetichettarsi, il problema di una revisione dei cicli, cioè delle scansioni generalissime dell’ordinamento. Lo fanno adesso, e in questa forma così ambiziosa, molto probabilmente perché mai come ora è evidente lo scollamento tra scuola, committenza sociale ed utenza di ogni singolo studente.

Pedagogia e politica

Dovendo trovare argomenti per un così impegnativo lavoro di ricomposizione/ricostruzione, si è dunque fatto ricorso, tra le altre, anche alla fonte dell’elaborazione pedagogica. Non poteva essere diversamente. E, avendo ciascuno di noi due fornito nel passato, come è stato da parte di tanti altri, un qualche contributo alla riflessione pedagogica sulla crisi della scuola, c’è stato richiesto (chi da un ministro, chi dall’altro) un impegno personale di idee e d’intervento, relativamente ad alcuni specifici passaggi affrontati dai due diversi itinerari di maturazione politica del quadro di riforma. E’ un impegno che abbiamo assunto e abbiamo assolto di buon grado, partecipando a confronti ed elaborazioni collettive, e mai rinunciando alle nostre convinzioni, di cui ciascuno di noi è geloso custode.

Questo non ha impedito che l’uno e l’altro venissero dipinti come pedagogisti di corte (organici alle due corti diversamente colorate, è ovvio).

Riteniamo che un simile cortocircuito d’idee e attributi chiami in causa un problema di carattere generale, proprio della nostra cultura tout court, e non solo di quella scolastica. Infatti, un intellettuale, quando parla, in Italia, è regolarmente identificato come "organico" ad un progetto, ad una ben precisa visione, ad un’istituzione, e tale etichetta, moralisticamente attribuitagli come "segno di dipendenza", riduce, agli occhi di molti, l’autonomia e il valore intrinseco delle idee, dei propositi e delle tradizioni culturali a cui si riferisce e di cui egli si fa portatore. Stando così le cose, a non pochi, per un certo periodo, Maragliano è apparso "il pedagogista di Berlinguer", e Bertagna "il pedagogista della Moratti", indipendentemente da quel che l’uno e l’altro pensano, e dicono, fra l’altro dentro una storia di reciproche e non equivoche appartenenze (che poi, come si vedrà in seguito, è ben diverso, perché convergente, da un’immagine esteriore e partitica di ragionamenti e linguaggi irriducibilmente divergenti).

A questa visione, assai diffusa, di pensieri polarizzati si contrappone poi, nei fatti, un uso talvolta spregiudicato delle idee dell’intellettuale da parte del politico, il quale se ne fa schermo o capro espiatorio, se è il caso, oppure non esita a liberarsene, quando incompatibili con le mediazioni possibili dell’azione e della decisione politica. Lo diciamo senza snobismo e con molto rispetto, e con intento descrittivo più che valutativo, perché ambedue sappiamo bene la differenza che passa tra la relativa semplicità di un’elaborazione tecnica e culturale e la complessa operatività di un progetto politico democratico, e perché ambedue facciamo sforzi per non cedere sia alla sindrome intellettuale che Derrida ha chiamato «tentazione di Siracusa» (rovinò uno come Platone, si immagini quanto sarebbe disastrosa per chiunque altro) sia a quella opposta che è stata battezzata di «San Casciano» (dal nome del paese in cui si ritirò uno come Machiavelli, deluso dalla politica: non ha senso lamentarsi del fatto che la dialettica democratica non abbia i ritmi e i contenuti che ciascuno gradirebbe). Del resto, come pretendere esiti diversi da quelli di un processo lento e graduale, ma ampiamente condiviso, se ogni decisione politica davvero democratica, tanto più a riguardo di un progetto di così ampio respiro come la riforma del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione, esige un reale e profondo coinvolgimento di un numero elevato di soggetti sociali (famiglie, sindacati, corpi professionali, partiti e tradizioni culturali) e istituzionali (Parlamento, Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni, Governo, istituzioni scolastiche)?

Operatori intellettuali

Per una ragione o per l’altra, comunque, va registrato che le nostre idee di pedagogisti si sono trovate e tuttora si trovano, spesso, a subire un duplice annullamento di identità: da una parte appaiono "comprate", dall’altro risultano deprezzate.

E’ mai possibile, allora, che sopravvivano come idee, come spunti per un comune discutere civile, come diagnosi e prognosi con cui confrontarsi e attraverso le quali far crescere la qualità e la quantità di un dibattito che, sui temi della scuola e dell’educazione, si presenta, al contrario, clamorosamente asfittico e intriso delle più inaccettabili semplificazioni?

Evidentemente è chiedere troppo, se si considera che a completare un quadro così poco confortante vengono ad aggiungersi per un verso la febbre titolistica delle gazzette e per l’altro la fretta e la smania effettistica dei commentatori pubblici, ai quali entrare nel merito delle questioni e delle posizioni scolastiche, ed abbandonare il sentimento di essere in ogni caso e in ogni campo culturale e politico l’ombelico del mondo, costa fatica. Così, piuttosto che leggere e analizzare nel merito pagine e pagine di analisi e di proposte, si affidano a qualche stravagante estrapolazione, spesso condita di pregiudizio ideologico.

Ci sembra che in un’analoga situazione si trovi qualsiasi insegnante voglia ragionare con la sua testa e intenda proporre, per quel che valgono, le sue idee di operatore intellettuale: si troverà subito collocato in una schiera, e deprivato della sua identità di pensatore libero e responsabile. E questa, ne siamo certi, è abitudine che non aiuta la scuola, né, tantomeno, la democrazia e la convivenza civile a diventare migliori.

Non dovrebbe dunque sorprendere il fatto che, pur mantenendo orientamenti culturali e riferimenti ideali non omogenei, talora divergenti, ci troviamo associati non solo nel desiderio di denunciare la propensione all’iperideologismo di cui è detto sopra (insidia particolarmente pericolosa per chi svolge compiti di educazione), ma anche e soprattutto nella considerazione dell’impasse in cui si trova l’impegno di ridisegnare l’assetto scolastico e formativo, messo in atto dai due diversi schieramenti politici succedutisi sulla scena italiana negli ultimi sei anni.

I dati (allarmanti)

Forse non ci si è ancora e del tutto resi conto che mentre Roma discute, Sagunto cade. Siamo la sesta economia del mondo, ma per reddito lordo pro capite corretto in base al potere d’acquisto scivoliamo, nel solo triennio 1999-2001, al ventottesimo posto. Dal 1995 al 2001, la nostra quota nel commercio mondiale è diminuita di un quinto e, nello stesso arco di tempo, la crescita è stata la metà di quella degli altri Paesi economicamente evoluti. La produzione industriale tra il 1995 e il 2002, è salita del 25% in Usa, del 18% in Francia, del 17% in Germania e solo del 4% da noi. La grande industria diminuisce a vista d’occhio anno dopo anno (v. adesso il caso Fiat). Nei settori dell’alta tecnologia siamo inconsistenti. Il tasso di occupazione della popolazione attiva è tra i più bassi d’Europa. Il nostro estero è la Romania, o la Turchia, non certo la Francia o la Germania. Non occorre altro per capire perché l’ultima decade del XX secolo sia stata la peggiore, in fatto di sviluppo economico, degli ultimi 150 anni, dall’unità d’Italia in avanti. Né occorre altro per capire ciò che le Conferenze Ue da Lisbona a Barcellona ci hanno recentemente riproposto come vincolo delle nostre politiche formative e che da Adam Smith ad Hanna Arendt costituisce ormai un assioma: non c’è civiltà e sviluppo economico possibile senza un’istruzione e una formazione universale di alto livello culturale, etico ed educativo.

Non possiamo insomma più permetterci il lusso di 34 giovani su 100 che escono a 18 anni dal sistema di istruzione e di formazione senza nemmeno una qualifica, i tassi di dispersione che abbiamo nelle scuole medie e superiori, il 15% dei giovani italiani tra i 15 e i 19 anni e il 30% di quelli di 20-24 anni che non sono coinvolti in nessuna attività di istruzione o formazione professionale né sono inseriti nel mondo del lavoro (percentuali due volte più alte rispetto alle medie dell'Unione Europea), il nostro apprendistato in tutti i sensi lillipuziano (50.000 giovani tra i 15 e i 18 anni, contro i 350.000 della Francia e il numero ancora maggiore della Germania); oppure ancora un’università che scambia i voti alti e la concessione di titoli per competenze acquisite.

Non è solo, o tanto, questione che, usando le metodologie di calcolo adottate dall'Ocse (che attualizzano i redditi che ogni persona è in grado di generare nel corso della sua vita lavorativa in base alle competenze acquisite durante il suo percorso educativo e formativo), si arriva a determinare che all'atto di entrare nel mondo del lavoro ogni italiano contribuisce in media al capitale umano del proprio Paese per circa 940 mila Euro, un valore inferiore del 20-25% rispetto a quello che porta con sé un giovane inglese o tedesco che ha completato il ciclo di studi, e inferiore del 40% rispetto ad un giovane diplomato o laureato americano.

Sfide comuni

È piuttosto questione di interrogarci a fondo, con occhi nuovi, sul grado di corrispondenza tra organizzazione della scuola, esigenze formative individuali e dinamiche socio-culturali, tenendo fra l’altro conto di un altro elemento dirompente e raramente calcolato nella progettualità formativa. Da noi, la popolazione compresa tra i 5 e il 19 anni, costituisce appena il 15% della popolazione totale, contro il 20% in Francia, il 17% in Germania e il 19% nel Regno Unito. E le proiezioni demografiche dicono che la popolazione in età scolare continuerà a diminuire in questo decennio: in Italia, per ogni 100 ragazzi che nel 2000 avevano tra i 5 e i 14 anni, nel 2010 ve ne saranno 89, e su 100 ragazzi di 15-19 anni, nel 2010 ve ne saranno 95. Ovvio che, con questi vuoti, non si potrà che prevedere un’immigrazione molto più intensa ed estesa di quanto sia appena cominciata. Il problema del multiculturalismo e dalla necessità pedagogica di trasformarlo in costruttivo interculturalismo si impone, quindi, in tutta la sua evidenza di grande sfida formativa del secolo XXI. Viceversa dovremo concludere che ci rassegniamo a consegnare alle future generazioni un Paese in declino, senza più l’ambizione di un’identità capace di combinare creativamente il vecchio e il nuovo, il globale e il locale, la cura di sé e l’incontro con l’altro.

Alla crisi economica e a quella demografica (ambedue più pronunciate nel nostro Paese di quanto non siano altrove) si aggiunge la messa in dubbio della condizione di esclusività finora riconosciuta alla scrittura a stampa, nell’ambito della riproduzione sociale (e soprattutto scolastica) dei saperi. Al di là dei luttuosi e ormai inaccettabili schemi d’interpretazione che vedono negli attuali assetti socioculturali gli effetti di omologazione, appiattimento, impoverimento prodotti dall’uso delle sempre più invasive e molecolari tecnologie della conoscenza e della comunicazione, è da prendere in seria considerazione l’opportunità che l’introduzione dei media digitali e di rete offre alle istituzioni scolastiche e formative, per il fatto di creare la condizione affatto nuova di una pluralità di media, e quindi per il fatto di offrire, tramite questa, una risorsa per la promozione di raffronti, interazioni, collaborazioni tra tecnologia e tecnologia, e tra sapere e sapere. Assumere un simile approccio consentirebbe alla scuola di far valere, nella selezione e presentazione dei contenuti dell’insegnamento/apprendimento, una cornice più ampia e solida, più ricca di elementi di concettualizzazione e d’interpretazione di quanto non sia quella imposta dall’abitudine a far coincidere la conoscenza tout court con la forma che essa assume per il tramite del libro. Inoltre, così procedendo, si costituirebbero le basi epistemologiche per l’affermazione di una cultura non esclusivamente riproduttiva, ma impegnata anche sul versante della produzione e della costruzione.

Un percorso da proseguire

In questo contesto, ci chiediamo, che senso ha affrontare i problemi della riforma del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione (non solo e non tanto quella ordinamentale, ma anche e soprattutto la riforma culturale e pedagogica) vedendoci l’espressione di una parte sola, o, peggio, di argomenti da brandire come armi dentro il ring della politica? Non è miopia, questa? Piuttosto, non dovrebbero, simili problemi, costituire una preoccupazione per tutti noi, e non dovremmo fare ogni sforzo per superare l’angustia di ragionamenti ed interventi che non superano i limiti temporali d’una legislatura, assumendo, al posto loro, prospettive di intervento che impegnino uno o due decenni? Se nel 2006 e poi nel 2011 cambieranno le maggioranze parlamentari, dovremo rassegnarci ad avere, in corrispondenza dell’una e dell’altra consultazione, una politica scolastica impegnata a proporre e attuare come primo obiettivo la cancellazione della politica perseguita dalla maggioranza precedente? E quando potrà mai aver fine un simile pendolo? Soprattutto: una volta esaurite le sue oscillazioni, cosa troverà in piedi, attorno e sotto a sé?

Riteniamo che sarebbe meglio, assai meglio, fin da ora, darsi da fare per cogliere gli elementi di continuità di un percorso iniziato nel 1997 (almeno per ciò che attiene il ripensamento degli ordinamenti, ma qualche anno prima se si tiene conto del processo di sgretolamento del sistema centralistico e di promozione dell’autonomia), per esprimere poi tali elementi di continuità attraverso linguaggi più elevati e meno ideologicamente segnati di quelli adottati fin qui, e per progettarne insieme gli sviluppi, alla luce delle condizioni nuove che nei fatti già si sono venute a determinare, e che nel futuro non mancheranno di emergere. È impossibile uscire da questi problemi, così almeno noi pensiamo, rinunciando ad un impegno di corresponsabilizzazione che chiami in causa le forze dei diversi schieramenti e le componga riconoscendo le reciproche ragioni.

La legge delega che il governo ha presentato nel marzo scorso non è sfuggita, per tante ragioni su cui non il caso di ritornare, al vizio di origine del precedente tentativo di riforma Berlinguer: combinare insieme organicità e urgenza. Per di più, in presenza dell’autentica rivoluzione operativa e di mentalità rappresentata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, di cui molti degli stessi protagonisti che hanno contribuito a definirla sembrano non essersi ancora accorti.

La conseguenza più immediata di tale modo di affrontare la questione non era imprevedibile: rifiuto pregiudiziale dell’opposizione, divisioni nella maggioranza, fastidio di molti parlamentari, lentezza dell’iter legislativo che ha costretto a mantenere vivo il problema della riforma con le discusse procedure della sperimentazione in atto nella scuola dell’infanzia e primaria, nonché, in alcune Regioni, nella formazione professionale.

E' possibile che almeno una parte delle resistenze interne alla maggioranza e di quelle maturate nel mondo sindacale e professionale siano legate a gravi ed evidenti difetti di comunicazione e a decisioni intempestive (visto che sperimentazioni di ben più ampia portata, come la "Brocca" dei primi anni novanta, relativa ai programmi di una scuola secondaria superiore tesa alla riforma, oppure quelle addirittura amministrative varate dalla Direzioni generali del Ministero, i cosiddetti Progetti assistiti, non hanno suscitato nemmeno una minima parte dell’attuale levata di scudi), ma certamente la mancanza di chiarezza e l'impressione che non si sappia tuttora dove si potrà davvero andare a finire sono fenomeni percepibili, e rendono particolarmente difficoltosa la prospettiva di una condivisa direzione di marcia.

Oltre la contingenza

A questo si può forse aggiungere anche la sensazione che, nei fatti, la scuola e la formazione non costituiscano per nulla una vera priorità del parlamento e delle forze politiche, sindacali e culturali del Paese. Infatti, e non da adesso, appare assai poco diffusa la consapevolezza che non si tratti tanto di affrontare e risolvere singoli problemi (gli insegnanti, il contratto, la struttura dei cicli, l’inglese, l’informatica, il collegamento scuola/lavoro, la valutazione, e così via), quanto innanzitutto di promuovere un investimento globale della società sulla scuola e sulla formazione, allo scopo di rivedere in radice se stessa. Al di là delle belle parole, questa coscienza manca a tutti i livelli, e non solo, purtroppo, al livello politico (di governo o di opposizione).

Più che davanti ad una crisi della scuola, quindi, sembra corretto riconoscere di essere in presenza di una crisi dei paradigmi culturali generali di comprensione e di analisi della realtà contemporanea, crisi che, non avendo rientri brevi e riscontri immediati, rende difficile, se non impossibile, mobilitare un’opinione pubblica abituata all’emergenza televisiva e all’incandescenza della disputa ideologica (la leggenda metropolitana d’una scuola svenduta ai privati, le ricorrenti, ciniche lamentazioni per una cultura classica svilita se non annientata, l’idea che il proposito di ridare dignità educativa e culturale all’istruzione e formazione professionale non sia altro che una litote per rifar posto ad un vieto classismo, stile anni cinquanta) piuttosto che al confronto critico su temi per loro intrinseca natura complessi e non certo riducibili ad un insieme di comodi slogan.

Se a questo si aggiunge che l’opposizione, a sua volta, avendo lasciato cadere gli elementi di maggiore innovazione che pure aveva impostato nella passata legislatura, si è contrapposta al governo su elementi parziali quando non arretrati (il libro bianco sulla scuola pubblicato all’inizio dell’estate dalla rivista "Aprile" è un perfetto esempio di come si possa fare opposizione pregiudiziale senza un solo dato a supporto delle proprie tesi e senza voler fornire un'alternativa praticabile), si comprende perché si sia ancora immersi in un dibattito nel quale la contrapposizione degli slogan ideologici prevale sistematicamente sulla valutazione di merito delle decisioni da assumere (che effetti produrranno? quanto costano? come e con quali condizioni potranno conseguire un esito positivo?).

Così, lo sviluppo positivo dell'orientamento assunto dalla riforma precedente, in merito al passaggio dal solo obbligo scolastico a quello formativo, attraverso l’affermazione del più ampio concetto di "diritto-dovere all'istruzione e alla formazione per 12 anni", non è cosa che sia stata ben capita, anche perché non è stata accompagnata da provvedimenti coerenti, chiari e concreti o, a fronte di rilevanti ostacoli realizzativi, da un piano a medio termine di sperimentazione diffusa, con obiettivi, tempi e funzioni controllabili, e indispensabili teorie di supporto. E così, ancora, se le forze di governo si sono trovate, in un qualche modo, condizionate da un rapporto fra istruzione e formazione subalterno alla salvaguardia di consolidate rendite di posizione, l’opposizione tende paradossalmente a declinare il tema dentro gli orizzonti concettuali del vecchio scolasticismo.

In conclusione, per una ragione o per l’altra, resta il fatto che i diversi interlocutori continuano a confrontarsi e a scontrarsi con la testa rivolta all’indietro, come se le nuove questioni fossero ancora quelle di venti o trent’anni fa. Se non si farà uno sforzo congiunto per superare questa condizione di anacronismo intellettuale e politico, difficilmente il nostro Paese maturerà una democrazia compiuta e, soprattutto, saprà darsi gli strumenti progettuali necessari per evitare l’auto-emarginazione economica, culturale ed educativa, e il conseguente, inesorabile declino.

(*) da "Reset", n. 75, gennaio-febbraio 2003, pp. 58-62


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