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Prologo In tempi di estrema difficoltà a riformare globalmente ed effettivamente la scuola (in sostanza, non succede più da oltre ottant’anni) dovremmo guardare alle ragioni profonde, storiche e non solo alla superficie e alla cronaca; la forma-scuola e le sue evoluzioni andrebbero allora messe in relazione al pensare del mondo. Potremmo riflettere su quanto accadde al pensiero scientifico, filosofico ed estetico (e in parallelo alle riforme scolastiche in Italia e in altri paesi europei) nei primi trent’anni del secolo scorso con una rivoluzione creatrice dell’entità di quella che nelle scienze dello spirito come nelle scienze del mondo fisico accadde con Husserl (Idee, 1913), Heidegger (Essere e tempo, 1926), Gentile (Teoria generale dello spirito, 1916), Einstein (Teoria relatività ristretta, 1906 e T. R. generale, 1916), Shannon Calcolo delle proposizioni 1930). Plank (Lezioni sulla teoria delle radiazioni, 1921), Heisenberg (Principio di indeterminazione,1927), Fermi e la scuola romana di fisica (da Teoria delle interazioni deboli, 1933 che avrebbe portato agli studi sul neutrino e alla fissione nucleare). Una rivoluzione espressa nella letteratura con Joyce, Proust, Kafka, Pirandello, l’ermetismo; nell’arte con i grandi movimenti della pittura e dell’architettura e in pedagogia con i movimenti idealistici e attivistici, lati opposti ma convergenti della stessa punta di freccia del pensare. La riforma Gentile, estremamente vicina con il suo autore e i suoi collaboratori ai più attivi e creativi centri di ricerca europei (Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Feltrinelli, 1990), addensò, portò a sintesi ed espresse questo immane movimento del pensiero. Nella scienza, nella filosofia, nell’arte, nella letteratura, nella pedagogia quel che ci separa dagli anni trenta è a mio avviso –per dirla con Heidegger- un periodo di mera amministrazione del pensare. Grandi progressi tecnologici, certo, messe a punto di grande rilievo di teorie precedenti ma nulla di totalmente nuovo come nei primi trent’anni del XX secolo. Nulla di radicalmente nuovo dopo Pareto (La trasformazione della democrazia, 1920) nella teoria politica e dopo Gentile (Sommario di pedagogia, 1913) e Dewey (Democrazia ed educazione, 1916) nemmeno in pedagogia. Forse anche per questo non arriva niente di veramente nuovo neanche in educazione e nelle riforme che ne trattano. Chi abbia vissuto gli ultimi quarant’anni di vita scolastica ha visto numerosi progetti di riforma (da Gui a Berlinguer/De Mauro, a Moratti, a…) nascere, variamente approdare a legge e affermarsi per qualche tempo, toccare la superficie degli eventi, essere presto ascritti fra le cronache che hanno occupato la scena, lasceranno un’eco ma non faranno storia. Con l’unica, alta eccezione della riforma Gentile del 1923, negli ultimi novant’anni si è trattato di tentativi di riforma che non muovevano essenzialmente da un vero e proprio pensiero pensante, capace di staccarsi dalla cronaca, che costituisse idea capace di generare idee e per esse mondo. E’ da un tempo equivalente, peraltro, che non si vede più niente di rivoluzionarmente nuovo nel pensare. Stasi probabilmente collegate. Non si è percepita comunque un’azione politica animata da una disinteressata volontà di riconfigurare la scuola per disegnare con essa l’avvenire, ma quella che si è vista è stata interpretata come mossa non da una nuova koinè culturale ma da situazioni e interessi in gran parte legati alla contingenza e dunque non capaci di andare oltre la contingenza stessa, come dovrebbe fare ogni grande progetto pedagogico che si proponga di offrire ai giovani un’affidabile mappa per il futuro. Non che il pensiero mancasse in misura inusuale per progetti di riforma postgentiliani (dobbiamo pur qualcosa a chi – come Giuseppe Bertagna– ha tentato l’impossibile per irrobustire quel che gli han messo in mano con vettori della tradizione italiana ed europea) ma se una riforma come quella che passerà sotto il nome del ministro Moratti è od è percepita fin dai suoi decisori politici come impresa non essenzialmente culturale ed etico-pedagogica ma finalizzata invece a scopi contingenti, se è od appare promossa più da una parte temporaneamente al governo che dallo Stato nella sua maestà, allora non entrerà mai nella mente e nel cuore di insegnanti, dirigenti e ispettori né susciterà al di fuori degli operatori scolastici particolari suggestioni. Anche senza cacciavite o piccone. In queste pagine si argomenta di come una vera Riforma (con la maiuscola) della scuola, ovvero una riforma in parte rilevante pensata dalla scuola stessa in sintonia con l’alta cultura e la scienza, sia necessaria e potrebbe costituire principalmente una impresa del pensiero che lo Stato ( sempre con la maiuscola) nella sua interezza ascolta dalla stessa scuola, per accoglierla e autenticarla con il suo stemma. Anche se non orientata alla contingenza, la scuola deve ascoltare la contemporaneità, interpretarla. Deve essere maestra, aiutare l’epoca a capire che sia e dove possa dirigersi, divenendo altro. E a questo fine i propri passaggi di forma, le ri-forme, più che necessari sono doverosi; fanno parte di quell’azione di magistero verso il tempo che le istituzioni scolastiche e universitarie devono esercitare anche con l’esempio.
1. La subordinazione delle scienze all’economia Non ci sono grandi passi in avanti nel pensiero come quelli avvenuti nel primo trentennio del secolo scorso perché lo studioso o lo scienziato non sono liberi di creare ma hanno sul collo il fiato di chi valuta la famosa “produttività” della ricerca, ovvero se le loro invenzioni abbiano o meno un vantaggioso ritorno economico per il committente. E qualcosa del genere viene ormai insistentemente chiesto anche alla scuola. Senza che si capisca come la conoscenza sia intrinsecamente un valore e come semmai la “produttività” delle invenzioni cardinali, o del gesto pedagogico in genere, vada valutata a distanza di secoli. In questo inizio di secolo e di millennio la chiacchiera vincente sui media elettronici e sulla stampa destinata al consumo di massa, ossessionata dalla contingenza, non indurrebbe a ottimistiche aspettative circa la possibilità dell’avvio di una riforma/autoriforma pensante del pensiero, della scuola e d’altro, realmente radicata nella intera estensione della storia, attenta al presente ma intenzionata prevalentemente all’avvenire. Questo soprattutto per la crisi della politica come regina delle scienze della prassi. Fino a poco tempo fa la politica non era un luogo, era – con l’eccezione non sempre rispettata dello spazio scientifico e religioso – il luogo di stabilimento dei fini, l’ambito di tutti gli ambiti, il punto da cui venivano stabiliti i valori comunemente riconosciuti nello Stato a ogni valore, il luogo della decisione sui criteri del potere. Oggi il “dove” e “l’a che scopo” della società degli uomini, il “così deve essere”, in altre parole il “mondo dei fini” di cui scrisse l’ultimo Kant, l’intenzionalità politica riformatrice in genere non sono considerati (se non retoricamente) negli USA come in Russia come ovunque; vengono sostituiti con obiettivi cortissimi e coincidenti strettamente con quelli dei gruppi economici al potere. Specie dopo la sterilizzazione dei partiti e l’indebolimento in tutti i paesi dei principi e degli assetti costituzionali, un’attività politica di ridisegno delle funzioni dello Stato sorretta da un pensiero autentico e nel contempo efficace è pressochè scomparsa. Dove c’è pensiero (scuola, università, centri di ricerca) non vi è quasi possibilità materiale di traduzione in atti e dove questa esiste non c’è, quasi, pensiero. La politica – scienza e arte della Polis, luogo dell’Intero e del suo trans-formarsi– può oggi essere presentata dal sistema informativo globale come ancilla oeconomiae, subdisciplina concernente le strategie più efficaci e convenienti per acquisire e conservare il controllo di strumenti tradizionali di determinazione (i poteri dello Stato) che possano utilmente integrare quelli industriali e finanziari. La pratica politica viene in questa prospettiva strumentale ad aver come scopo il mascherare la frizione reale degli interessi semplicemente governando il conflitto tra la retorica dominante irradiata dai grandi media e quelle ormai residuali prodotte nei tradizionali luoghi di formazione del pensiero come scuole, università, chiese, biblioteche, musei, centri di cultura, perfino partiti politici. Tutti questi luoghi, che sono storicamente spazi di autocoscienza dello spirito devono riprender cattedra nei confronti dell’epoca.
2. La scuola come mondo vitale, luogo del profilarsi di un mondo-dei-fini La scuola – insieme all’università – è sempre stata istituzione che rispetto al presente essenzialmente è-per-altro: per il passato e per il futuro. Educa il pensiero alla vita ventura. L’apparentemente irresistibile trionfo del non-pensiero nel mondo contemporaneo non può essere un buon motivo per smettere di pensare e dunque di prestare attenzione ai fenomeni per ideare un quadro teorico che, tratte motivazioni nel campo dell’esperienza, strappi il velo delle apparenze, le superi criticamente. Faccia ri-vivere il mondo della teoria come della vita politica, culturale e pedagogica per delineare una teoria/prassi rigorosa e, magari, capace di aiutare a produrre un mondo diverso. Si tratta in primo luogo di disincantarsi, dis-trarsi dalla grigia favola mediatica. Non per cadere in un altro oblio del pensiero ma per creare un pensiero che crei un nuovo mondo, nel caso nostro a cominciare da una nuova scuola. Per ridisegnare la scuola e l’università occorre una costellazione di idee davvero originante; è la condizione necessaria affinché un nuovo mondo si produca sulla scena degli eventi. E occorrono una scienza della politica e della pedagogia non integrate nel sintagma del non-pensiero di successo e che producano utopie essenziali (generative) dunque con qualche possibilità di divenire evento. È una impresa difficile ma occorre tentare. Per parte sua la pedagogia come scienza filosofica dell’educazione non può concedersi il lusso del pessimismo, poiché quel che ci aspettiamo in qualche misura accade sempre.
3. Guardare oltre la contingenza, immaginare il novum Politica e pedagogia, scienze di riferimento per una evoluzione del pensiero e della scuola che nasca veramente dalla capacità di individuare e porre il novum, non possono essere solo scienze della contingenza (Erbetta (a cura di), Senso della politica e fatica di pensare, CLUEB, Bologna, 2003) ma anche dell’intero campo dell’esperienza umana; siano saperi che la analizzano e poi ne fuoriescono per creare eu-topia, nuovi, più umani e felici scenari di vita. Ecco alcune possibili strade. Contrastare l’amministrazione disonesta delle evidenze.Dopo un secolo e mezzo, occorrerebbe svincolarsi dall’eredità positivistica, in particolare dalla sua cattiva amministrazione. L’universo delle datità attinenti al mondo della cultura, della scienza e della scuola andrebbe letto liberamente e creativamente, senza griglie fisse o schemi precostituiti di lettura perchè gli schemi precostituiti impediscono di prestare attenzione alle specificità e alle storie degli eventi e annullano la capacità di stupirsi. Nelle convenzioni di ricerca e trattamento dati internazionalmente in uso nelle scienze umane è diffuso il non-pensiero del tempo: sono pertanto ridotte a convenzioni di difesa sistemica dai dati (o di attacco) dalla loro potenza originaria (A.Melucci Contro i monitoraggi, in ENCYCLOPAIDEIA n. 19, giugno 2006, CLUEB). Neutralizzano le evidenze, impediscono lo stupore di fronte all’imprevisto convertendo l’imprevisto al pre-pensato. I dati veritativi non sono quelli che crediamo di trovare in una sorta di ipostasi; son quelli che si producono nei processi interpretativi della ricerca. I tassi di bocciatura nelle scuole o di partecipazione al voto reperibili negli annuari dell’ISTAT o i quadri INVALSI o le famigerate classifiche PISA non sono immediatamente significativi: vanno presi come il punto di partenza di un lunghissimo lavoro ermeneutico che dovrà riconformarli totalmente entro strutture e contesti magari non più vicini alla verità ma almeno più onesti. Ritrovare l’impegno intellettuale e politico.Contrastare i residui dell’ideologia positivistica significa anche affermare che quella scientifica non é attività di neutrale riproduzione di un oggetto ma conoscenza teorica, pratica e poetica (orientata a cercare l’armonia) che viene dagli studi e dalle esperienze, dalle sintonie e dai conflitti, che in-siste, sta dentro al concreto e quotidiano flusso/ristagno degli. eventi. Costituzionalmente anti-dogmatica, una ricerca fenomenologica di cui scuola e università potrebbero essere campo non si pone scientisticamente come episteme (ciò che sta sopra) ma come discorso sulla conoscenza condotto da un soggetto consapevole di essere/esser-ci e di stare dentro un campo di relatività, di storie e di irriducibili anche se oscurabili intenzionalità politiche e pedagogiche. Siamo comunque impegnati; lucidità è descrivere il tipo e il grado di impegno. E comunque l’importante è scegliere se essere impegnati da altri o in proprio. Soggettività e soggettualità della conoscenza. La soggettività diviene prospettiva sulla conoscenza, soggettualità quando diventa pensiero/azione del soggetto sul mondo, attività che nel suo fluire ri-forma le cose. È agire intellettualmente, moralmente, esteticamente: è movimento consapevole, esplicito, responsabile. Non è certo qualcosa da evitare sul piano scientifico, ma è elemento prezioso. La conoscenza dell’universo politico e pedagogico nasce dall'incontro dell'io con il mondo entro il campo della cultura e delle tradizioni di ricerca scientifica. Senza la compresenza efficace di questi termini non vi è per me conoscenza né insegnamento. L’insegnare è infatti una forma di discreto intervento nella dialettica tra coscienza individuale e coscienza trascendentale attraverso la proposta umile del sapere costituito e costituente. Aprirsi agli eventi per poterli orientare. Nel disegnare passaggi di forma, scienza, pedagogia e politica potrebbero attuarsi come saperi che individuano autonomamente (ma sempre con riferimento a una filosofia e in dialogo/dialettica con le altre scienze) i propri principi e la propria teleologia. Nuova fondazione può essere nel cercar di riposizionarli in una rete ipercomplessa di apertura agli eventi che continuamente muta ma non cancella la loro identità, intesa come linea originale e irripetibile della propria linea trasformazionale. Una teoria politica e pedagogica non schiacciata sul presente ma che, a costo di apparire e magari di essere utopica, guarda davvero lontano. Interrogazioni mai finite sull’alterità. Più le scienze dell’uomo sanno epochizzare (sospendersi dalla soggezione agli idoli dell’epoca, mettere tra parentesi l’immagine seriale del mondo) più aiutano i giovani a comprendere la gamma di evidenze più nascoste e nel contempo decisive. È importante mantenere nella ricerca e nell’insegnamento un senso dell'intensità intenzionale e nel contempo della ristrettezza dei limiti. Centralità del conoscere La scuola e l’università sono luogo di orientamento dei giovani – e per essi della società intera – attraverso i saperi, ossia attraverso i testamenti intellettuali dell'umanità come é stata sino ad ora rappresentata. Ed evitare che il valore socialmente riconosciuto di un sapere non venga individuato nella qualità e nella generatività dei suoi asserti ma nella pressione temporanea che i suoi apparati diffusivi esercitano o direttamente sulle masse o su target strategicamente scelti per il loro potenziale replicativo. Invero, le idee più alte sono nulla se non rivivono nella coscienza di un soggetto individuale o collettivo che le pensi non replicandole ma ri-costruendole. Quando è fortunata, l’idea si produce in mondo.
4. Offrire non competenze, ma forme al conoscere La scuola è da sempre, insieme alla famiglia, formativa della coscienza, del topos e delle forme in cui l’io avverte l’altro-da-sè; ma è per elezione il luogo della conoscenza, ovvero dell’essenziale, di un sapere alto e disinteressato, critico e creativo, teso a costruire le fondazioni di un autentico pensare o a cercar di approfondire e consolidare le fondazioni. Forse nella richiesta, che alcune élites del potere inducono nelle masse, di competenza c’è un (per loro) fondato timore di incontrollabilità e improduttività di una troppo larga condivisione delle conoscenze. Le competenze, saperi che di per sé sono solo servili, non preoccupano e possono anzi essere strumentalizzabili, le conoscenze alterano (rendono altre da quel che sono) le visioni del mondo e gli equilibri del potere. Non é senza motivo che gli ultimi programmi della Facoltà di scienze della formazione ma anche di altre facoltà prevedano corsi di studi finalizzati a una immediata e diretta spendibilità del titolo di studio in mestieri ben precisi, prima ancora che il giovane abbia avuto almeno il tempo di pensare, di formarsi nelle discipline scientificamente costituite: par quasi che il fine dello studio universitario non sia più invitare al convito della conoscenza ma fabbricare competenze vendibili. L'università non è più il luogo universale (volto al tutto) e disinteressato ove gli studenti insieme ai maestri imparano a conoscere; non persegue più l'universale ma un (illusorio) particulare. Ma la pedagogia, come organo teoretico della scuola e dell’università, è da millenni espressione di un sapere pensante e vocazionalmente universale; non può tradire la sua missione. Non può colludere con una cultura del fondamento senza fondazioni non più adeguatamente interpretativa dello spirito essenziale dell’alta cultura, quella di cui idealmente partecipa, la sola che può esserle di riferimento. Conoscenza "essenziale" non è affatto sinonimo di “minima" (spesso i due termini sono considerati tali), concetto quest’ultimo interno a una cultura della necessità, della determinazione, della competenza. Bisogna dunque riscrivere i programmi scolastici e delineare le tracce dei curriculum universitari con occhio volto non alla spendibilità del titolo sul mercato delle persone ma alla formazione umana e scientifica di base. I saperi del conoscere, volti non al successo ma alla verità, all'essenza, sono saperi di lungo respiro; portano a pensare le cose non solo come sono oggi ma come sono state e probabilmente muteranno, indipendentemente dal loro utilizzo immediato e prossimo venturo. I saperi essenziali –saperi di libertà– costruiscono la città futura (A. Gramsci La formazione dell’uomo, Editori riuniti, 1970), valorizzano le diversità e le differenze, quelli minimi o "irrinunciabili" danno a tutti qualcosa che é estraneo a ciascuno. È opportuno per chi è a vari livelli coinvolto nella vicenda della scuola fermarsi ogni tanto e riflettere sui saperi che si sono sedimentati nei testi e su quelli che ancora attendono di entrare nella dimensione della scrittura o dell'immagine riconosciuta (Canfora La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, 2004). La cultura in cui offrire essenziali spazi di forma alle nuove generazioni potrebbe recuperare almeno due idee husserliane: l’idea di mondo della vita e quella – presente soprattutto nella Crisi delle scienze europee – di saperi non separati dalla concretezza del soggetto conoscente, dai suoi tempi e dai suoi luoghi, saperi che – parlando a lui – dicano di lui. Un sapere (H. Arendt) plurale come sono plurali gli esistenti. Un sapere articolato attraverso curricula, non espressivo delle pseudo-ontologie universali imposte dal mercato mondiale delle idee di successo (competenze et similia) ma prodotto gratuitamente, interrogando nella propria lingua e con incursioni nelle lingue straniere non il tutto ma la totalità in ogni cosa. Un sapere per guardare in alto, dis-trarsi dall’inerzia della frenesia, interrogare e rappresentare l’Intero e gli interi, tornare a pensare creativamente la cultura, la scienza e la scuola. |
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