|
|
PRIME RIFLESSIONI Raccomandazioni
Raccomandazioni generali Questioni di lessico Uno dei problemi più ricorrenti nel mondo della scuola e del discorso pedagogico e didattico è costituito dall’uso di espressioni e di termini a cui si attribuiscono significati differenti. Per quanto comprensibile e legittima, la circostanza impedisce spesso un dialogo appropriato e non equivoco, per cui si finisce per non intendersi e per compromettere una ricerca comune delle soluzioni migliori ai problemi educativi e professionali che si incontrano. Anche le Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati per la Scuola Primaria non si sottraggono a questo limite che è anche un rischio. Adoperano un lessico che è, perciò, opportuno chiarire nei significati che lo contraddistinguono. Lo scopo è favorire una discussione (con chi? Quanto tempo verrà concesso alle scuole autonome per "discutere"?) che cerchi di stare sulle cose (quali e quante "cose" ci verranno date in termini di denaro e di strumenti?) piuttosto che sulle parole. Da questo punto di vista, pare utile soffermarsi su alcuni vocaboli ricorrenti sia nel disegno di legge delega sia nelle Indicazioni nazionali di cui si esplicita il significato che è stato loro attribuito. Dalla scienza alla disciplina di studio Scienza. Se l’esperienza, da sola, è sempre particolarità, molteplicità, indeterminatezza, imprevedibilità, indecifrabilità, anche disordine, scienza è, invece, scoprire nell’esperienza «ragione e misura», «numero e calcolo», «proporzione». Gli elementi per definire una scienza, in questa prospettiva, sono, quindi, tre. Anzitutto, la specificità. Scienza è guardare la realtà, e «vederla», da un punto di vista determinato. Non è mai cogliere la realtà, l’esperienza tutta insieme, come e in quanto totalità indeterminata, magari confusa. La scienza nasce proprio quando si prescinde dalla complessa totalità di qualsiasi cosa reale, la si semplifica e si seleziona un aspetto per «vederla» meglio. La regola vale per gli oggetti della fisica o della chimica, ma non meno per quelli della linguistica, della storia, dell’arte ecc. Si ottiene il campo di indagine. Il secondo elemento che definisce la scienza è senza dubbio il metodo di indagine e gli strumenti che, in tale metodo, si usano. Non è una caratteristica diversa dalla precedente, ma ne è, per così dire, uno sviluppo. Avere un determinato punto di vista da cui osservare la realtà, significa anche mettere a punto le modalità logiche ed operative con cui tale punto di vista si può costituire. L’ultimo elemento è il linguaggio o, meglio, il paradigma esplicativo (tipo di cause e leggi da individuare) e il programma (l'aspetto della realtà che si vuol capire). Studiare la realtà da un punto di vista parziale, con un metodo e con strumenti ogni volta adeguati a tale punto di vista, significa, infatti, trasformare le «cose» empiriche in «oggetti scientifici». L’attrito, la Moda, la Mediana, la gravità, l’atomo, l’accelerazione ecc., ma anche tutti i concetti adoperati dalle cosiddette scienze umane, da sviluppo a rito, da classe a potere, perciò, non esistono in sé. Non si trovano cose reali che si danno a noi, nell’esperienza, come attrito, Moda, classe, potere, ecc. Sono, invece, nostri costrutti mentali (modelli), esplicativi di determinate caratteristiche empiriche della realtà. Si può dire che siano il nome che diamo a quella serie di relazioni del reale che il punto di osservazione da cui ci poniamo, nonché il metodo e gli strumenti che usiamo per costituirlo, consente a noi, e a chiunque faccia come noi, di cogliere (intersoggettività della scienza). Ebbene, scienza è nominare (nel senso etimologico di ‘dare il nome’) correttamente questi costrutti mentali, non confonderli tra loro, evidenziare le relazioni logiche inclusive o esclusive che possono instaurare, depurarli delle parti equivoche, evitarne gli usi incrociati. Per questo si dice, spesso, che le scienze sono, tutto sommato, lingue ben fatte: ciascuna con un proprio lessico (una semantica) e una propria sintassi. Per uno scienziato, non esiste conoscenza che non sia il prodotto di questa inesauribile attività di ricerca giocata sui tre elementi prima ricordati. Il nesso processo-prodotto, pensiero-pensato, contenuto-metodo è, per lui, sempre presente e fondamentale. Materia. Le acquisizioni della scienza sono talmente cresciute sul piano quantitativo, negli ultimi secoli, che, di fatto, capita che troppi concetti e teorie scientifiche risultino dissociate dall’attività di ricerca che la ha elaborate e che le dovrebbe ora continuare a sottoporre a vigile manutenzione critica. Non hanno più il ricordo delle condizioni e dei modi con cui sono state ottenute; quindi, anche dei loro limiti epistemologici. Hanno la tendenza a debordare e a presentarsi come prodotti autosufficienti ed esistenti in sé e per sé. Gli «oggetti» scientifici, in questa maniera, nati proprio per non essere «cose», si «ri-cosificano», si «materializzano»: assumono fattezze materiali. È come se i costrutti mentali pretendessero di imporsi senza più aver bisogno né del pensiero che li ha pensati e che li pensa, né delle condizioni particolari in cui assumono proprio il significato che esprimono. I concetti e le teorie delle diverse scienze si trasformano così in una dogmatica astratta ed enciclopedica che si può solo deglutire. Si presentano come «risultati» dell’attività scientifica che sembrano non avere avuto «processi» d’origine, prima, e di sviluppo, ora, e che appaiono immutabili ed autosufficienti: al punto da valere in sé, sebbene non li si capisca affatto e non dicano niente a chi li incontra proprio perché, alla fine, non sono da lui «pensati». Il rischio, allora, è quello del contenutismo fine a se stesso: sacrificare l’allievo ai contenuti elaborati dall’attività scientifica; ritenere che possa esistere un «pensato» che ha valore perfino senza «un pensiero che lo pensa». Non è un caso che il linguaggio comune definisca l’insieme delle conoscenze costruite nel tempo da una scienza, tuttavia presentate dimenticando le dimensioni esistenziali, storiche ed epistemologiche da cui provengono e a cui devono comunque pervenire in ogni soggetto, con il termine di materia: qualcosa di pesante, di opaco, l’esatto contrario della leggerezza e della trasparenza a noi stessi che aderisce a qualsiasi sapere che sia «nostro» pensiero. Rischio, a dire il vero, molto alto se si interpretassero le conoscenze (il sapere) e le abilità (il sapere che accompagna il fare qualcosa con perizia) che costituiscono gli obiettivi specifici di apprendimento presentati nelle Indicazioni Nazionali come l’indice di una enciclopedia da imparare a memoria, invece che come la carta topografica di tante attese di pensiero che deve maturare autonomamente e personalmente nella mente e nella personalità di ciascun allievo davanti alla sua esperienza (quale esperienza nel caso di bambine e bambini che presentano un bagaglio più povero di altre/i e un vissuto di deprivazione culturale e sociale?) e grazie alle sollecitazioni educative (con quali mezzi, spazi e tempi? Chi sarà a dirci quanto tempo e quali saranno le modalità organizzative più consone a raggiungere gli obiettivi?)dei docenti e della scuola. Disciplina di studio. Tutta un’altra atmosfera evoca, invece, rispetto alla materia, il termine disciplina di studio. Disciplina viene da discere, imparare. Da discere viene anche discepolo, colui che impara. L’apprendere è bello, e tutti gli uomini lo vogliono sperimentare. Eppure, sebbene l’amore per il sapere sia connaturato all’uomo e gli dia intima soddisfazione, l’imparare alcunché, esige sudore, impegno, fatica, esercizio. Questo significa che le conoscenze non nascono tutte intere nella mente già armate come Pallade nel cervello di Zeus, ma scaturiscono sempre da una continua negoziazione con l’esperienza e con gli altri, negoziazione che impone pazienza, disponibilità, relazione, affetti, carattere, costanza, responsabilità. In ogni insegnare, quindi, non è in gioco soltanto ciò che si insegna, il «che cosa», ovvero il sapere; né soltanto il «come si fa»; conta altrettanto il «chi». Non si impara, infatti, se l’ordine logico di una serie di costrutti scientifici non coincide anche con quello psicologico ed etico personale di chi se ne appropria; né si impara qualcosa perché essa è, in astratto, scientificamente certa, ma solo se riusciamo, nel concreto, a rendere questo qualcosa di certo nostra verità esistenziale, qualcosa di talmente significativo per noi da dare «sapore» alla nostra vita (il reciproco richiamo tra «sapore» e «sapere» è addirittura etimologico). È del tutto comprensibile, perciò, che il termine disciplina di studio sia molto usato in campo scolastico e designi un doppio significato. Per un verso, si riferisca al modo psicologico e, più generalmente, esistenziale, con cui è necessario che ciascuno si appropri delle conoscenze e delle abilità afferenti ad una particolare scienza. Per l’altro, indichi il fatto che tali conoscenze ed abilità nascono dall’assunzione rigorosa della stessa logica della scienza. Il termine disciplina di studio, dunque, rimanda ad un intreccio costante: - tra dimensione esistenziale evolutiva del soggetto e logica intrinseca di sviluppo della scienza; - tra «soggetto» che, pensando gli «oggetti» scientifici che gli vengono proposti se ne appropria (obiettivi formativi), e controllo che tale pensiero soggettivo, l’unico che conta sul piano educativo, non alteri la natura e l’identità epistemica degli «oggetti» scientifici in questione (obiettivi specifici di apprendimento); - tra processi personali della conoscenza e prodotti sociali del pensiero scientifico. Come e a quali condizioni le due prospettive si possono integrare e non restare estranee? È possibile nella scuola, tanto più con soggetti in età evolutiva, non trattare la ricerca scientifica (scienza) alla stregua di contenuti materiali (materia), ma utilizzarla, senza tradirla nella sua complessità, come occasione per promuovere processi vitali di apprendimento e di pensiero (disciplina di studio)? Come favorire l’apprendimento personale senza banalizzare, con distorsioni e semplificazioni, la natura degli «oggetti di studio» identificati dalle scienze e richiamati, per gli insegnanti, negli obiettivi specifici di apprendimento? Non si fatica ad immaginare quanto il cuore della professionalità docente e della qualità della scuola siano fondati sulla competenza nel rispondere a questi interrogativi (si è sicuri che nella scuola primaria e nella secondaria di primo grado non si debba procedere anche per metafora e/o riduzione al concreto prima di volare alto, che non si debba anche partire dall’"errore" e dall’ esame dei procedimenti errati e delle funzioni degli "oggetti" nella quotidianità?). Dai Programmi ai Curricoli ai Piani di Studio Personalizzati. Una delle note più caratteristiche della riforma del sistema di istruzione e di formazione si concentra sulla teoria e sulla pratica dei Piani di Studio Personalizzati. Per comprendere la portata di questa innovazione didattica è opportuno inserirla nel processo che, da alcuni decenni, ha portato la scuola italiana a superare il paradigma dei Programmi (chi ha detto che fino ad ora, nella scuola elementare, nonostante i "famigerati" programmi, la mancanza di risorse, il numero alto di alunne/i per classe, non si sia "personalizzato" l’intervento, grazie agli "sguardi incrociati e quotidiani" di maestre e maestri dei team che hanno collaborato alla pari e hanno predisposto settimanalmente piani di attività giornalmente rivedibili nelle classi, facendo lavorare le bambine e i bambini in situazioni "guidate", in modo che ognuna/o potesse dare il meglio di sè?) e ad abbracciare quello della logica del Curriculum. Programmi. Come è noto, essi hanno accompagnato la scuola italiana fin dal suo strutturarsi istituzionale nell’ottocento. Oggi, restano residui di questa impostazione didattica soprattutto nella secondaria di II grado, mentre negli altri gradi scolastici ha ormai prevalso la logica del Curriculum. I Programmi designano contenuti di insegnamento dettati centralisticamente, da parte del Ministero, e da svolgere in maniera uniforme in ogni classe del Paese. Tutti i docenti e le scuole, a discendere, devono adeguarsi alle loro indicazioni. I ragazzi e le famiglie devono addirittura subire un adeguamento alla seconda potenza: si devono adattare all’insegnamento dei docenti che a loro volta si sono dovuti adattare alle richieste di insegnamento dettate dalle disposizioni ministeriali. Sul piano professionale, quindi, richiedono ai docenti l’atteggiamento impiegatizio dell’applicazione e dell’esecuzione. I Programmi danno istruzioni, i docenti, in qualunque situazione si trovino, sono chiamati ad applicarle e ad eseguirle: se non lo fanno, eccedono le norme e diventano trasgressivi. Le istruzioni dei Programmi (mi sembra che le "Indicazioni" del 6 novembre 2002 siano molto dettagliate in più di un punto, a volte spiegano addirittura quali parti grammaticali affrontare, magari non nominandone altre (?!), quale "ricerca linguistica" attivare in un testo poetico, ci dicono della memorizzazione delle poesie, dei tipi di testo da affrontare, ecc…)perciò, prevalgono sulle esigenze dei singoli allievi. Questi sono chiamati ad adeguarsi a quelle, non viceversa. Quelle diventano il fine dell’attività educativa scolastica. L’allievo perde la sua centralità. Curricoli. La parola curriculum (sott. studiorum) è latina. Gli Inglesi se ne sono appropriati da tempo per indicare il Piano degli Studi proposto, nelle diverse scuole, per la maturazione degli allievi. La tradizione anglosassone dell’autonomia delle scuole e la mancanza, in questa cultura, almeno fino al 1988, della nozione di curriculum nazionale, ha fatto sì che, nel nostro Paese, la parola curriculum abbia cominciato, anzitutto, a circolare come un termine inglese (da qui la traduzione italianizzata in curricolo, al posto di mantenere l’originaria grafia latina); in secondo luogo, ad assumere un significato antagonista alla parola Programma e, infine, ad indicare le scelte educative e didattiche concretamente adottate dai docenti nelle diverse realtà scolastiche per corrispondere in maniera più pertinente alle differenze territoriali, sociali e culturali di provenienza degli allievi. Programmazione curricolare. La logica dei Curricoli ha avuto modo di rafforzarsi, nel nostro Paese, a partire da una constatazione: l’astrattezza dei Programmi. Voler trasferire senza mediazioni e modellamenti il «nazionale» nel «locale» e il «generale» nel «particolare», infatti, significa per forza di cose sacrificare uno dei due elementi. Si è, dunque, costretti ad essere trasgressivi o verso l’alto, disobbedendo alle indicazioni dei Programmi ministeriali, o verso il basso, ovvero alle esigenze e alle specifiche situazioni di apprendimento degli allievi. La Programmazione Curricolare ha inteso superare questa antinomia, dando ragione sia alla logica dei Programmi sia a quella dei Curricoli per quanto affermavano e torto per quanto ambedue negavano o tacevano. Con la Programmazione Curricolare il Ministero è stato così chiamato a concepire in modo diverso i Programmi: non più istruzioni da far applicare esecutivamente in ogni classe della penisola, bensì vincoli nazionali che ogni scuola è chiamata autonomamente ad interpretare e ad adattare alle esigenze della propria realtà formativa. Il Ministero, come dispone l’articolo 8 del Dpr. 275/99, detta, in questa prospettiva, gli ordinamenti del sistema educativo di istruzione e di formazione, gli obiettivi generali del processo educativo, gli obiettivi specifici di apprendimento, gli standard di prestazione del servizio, i criteri generali per la valutazione. Questa l’uniformità astratta, valida per qualsiasi scuola e gruppo classe e singolo allievo del Paese, dettata dal centro. La responsabile concretizzazione di tempo, luogo, azione, quantità e qualità di questi vincoli astratti, tuttavia, è di piena responsabilità professionale delle singole scuole e dei docenti(ahi noi, e se non dovessimo farcela a conseguire la mole di obiettivi "soltanto" indicata nei tempi e nelle modalità organizzative che ci verranno date?!). Sul piano professionale, perciò, l’atteggiamento richiesto ai docenti non è più quello dell’applicazione e dell’esecuzione più o meno impiegatizia, bensì quello della creativa e responsabile progettazione di scelte educative e didattiche che declinino ed intercettino il «generale» nel «particolare», il «nazionale» nel «locale», «ciò che vale per tutti» in «ciò che vale per me, per ciascuno» (un’ennesima volta, la nostra creatività dovrà volare molto in alto, magari con qualche responsabilità in più, meno tempo, più materie e educazioni, senza il team alla pari, senza la aule e gli strumenti, ecc…!). I docenti, le scuole, se coerenti con la logica della Programmazione Curricolare, non possono non coinvolgere, in questa operazione, i genitori, i ragazzi ed il territorio, ma è capitato anche che, qualche volta, l’inerzia della vecchia logica dei Programmi spingesse semplicemente a trasferire quest’ultima a livello «della scuola o al massimo della classe». Ovvero a cambiare soltanto l’estensione dell’uniformità: «nazionale» nei Programmi, «di scuola o al massimo di classe» nella Programmazione Curricolare. E a lasciare che fosse sempre l’intenzionalità dei docenti e dei professionisti dell’educazione a prevalere, con le famiglie ed i ragazzi destinatari, non protagonisti (come dovrebbero diventare protagonisti? In quali tempi, con quali modalità di intervento, con quale peso decisionale, in quali ambiti?), di questa intenzionalità. Come, in fondo, sebbene in maniera più intensa, accadeva con la logica dei vecchi Programmi. Piani di Studio Personalizzati. Con i Piani di Studio Personalizzati, invece, almeno nei propositi, la strada dell’abbandono dell’uniformità delle prestazioni progettate a priori, già inaugurata con la stagione della Programmazione Curricolare, si dovrebbe completare in tutti i sensi, e rovesciarsi. Sul piano della professionalità, ai docenti è richiesto non più di transitare «dal generale culturale al particolare personale», ma di operare «dal particolare personale al generale culturale». Restano, come nella stagione della Programmazione Curricolare, i vincoli nazionali che tutti devono rispettare e che lo Stato ha il dovere costituzionale di indicare, anche dando spazio ad intese per una quota regionale nella loro determinazione (sono i «livelli essenziali di prestazione» di cui si parla nelle Indicazioni nazionali(caspita: è quello che si intende per l’"essenziale"?!) per i Piani di studio personalizzati). Resta, nondimeno, la responsabilità progettuale della scuola e dei docenti che devono offrire percorsi formativi, ma risulta ancora più netto di prima il principio della personale responsabilità educativa dei ragazzi, dei genitori e del territorio nello sceglierli e nel percorrerli ed acquisirli. Questi, infatti, sono chiamati in causa direttamente nella realizzazione dei vincoli nazionali entro le opportunità offerte dalla progettazione di scuola e di rete. Il risultato dovrebbe essere la costruzione sempre più mirata di Piani di Studio Personalizzati, dove la parola chiave è, appunto, personalizzati sia nella progettazione e nello svolgimento (cfr. le Unità di Apprendimento), sia nella verifica (cfr. il Portfolio delle competenze) (qualcuno ci dovrà spiegare come costringere chi non vuole o realmente non può partecipare. Lo si chiede perché non è affatto scontata la disponibilità anche in termini di orari e possibilità di mettere a disposizione il proprio tempo da parte di molte famiglie oberate di impegni e di incombenze della "vita moderna".). Dalle capacità alle competenze attraverso conoscenze e abilità Il testo del disegno di legge delega, inoltre, usa più volte i termini capacità, conoscenze, abilità e competenze. Li impiega in una maniera che si integra con quella adoperata negli articoli 8 e 13 del Dpr. 275. Le Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati fanno riferimento a questi termini assumendoli nel significato che risulta dal combinato disposto di questi due provvedimenti e che si può riassumere nei modi seguenti. Capacità. Per capacità si intende una potenzialità e una propensione dell’essere umano, nel nostro caso del fanciullo, a fare, pensare, agire in un certo modo. Riguarda ciò che una persona può fare, pensare e agire, senza per questo aver già trasformato questa sua possibilità (poter essere) in una sua realtà (essere). Riguardando l’essere potenziale di ciascuno, le capacità non sono mai statiche, definite una volta per tutte, ma sempre dinamiche, in evoluzione. Inoltre, se pure si manifestano come capacità particolari e determinate (si è capaci di questo piuttosto che di quello, in una situazione piuttosto che in un altra), coinvolgono però sempre tutto ciò che siamo e che possiamo essere. Chi pensa, in questo senso, le capacità delle persone come separate le une dalle altre (come se un soggetto fosse capace di comunicare piuttosto che di matematizzare, di costruire determinate cose piuttosto che di usarle bene, di giudicare criticamente piuttosto che di fidarsi ecc.), ne impoverisce la forza educativa: esse, al contrario, sono sempre unitarie ed integrate e, per questo, si vicariano anche molto a vicenda, così spiegando la plasticità e la complessità di ogni persona umana e perché, in educazione, grazie al principio dell’integralità, niente, a qualsiasi aspetto ci si riferisca, è mai guadagnato una volta per tutte, niente è mai perduto per sempre. Competenza. Le competenze sono l’insieme delle buone capacità potenziali di ciascuno portate effettivamente al miglior compimento nelle particolari situazioni date: ovvero indicano quello che siamo effettivamente in grado di fare, pensare e agire, adesso, nell’unità della nostra persona, dinanzi all’unità complessa dei problemi e delle situazioni di un certo tipo (professionali e non professionali) che siamo chiamati ad affrontare e risolvere in un determinato contesto. Mentre le capacità esprimono la forma del nostro essere potenziale, le competenze manifestano, quindi, quella del nostro essere attuale, nelle diverse contingenze date. Le une e le altre, ovviamente, sempre dinamiche, in evoluzione, visto che non solo si può essere diversi fino alla fine della vita, e scoprire nel tempo capacità insospettate, ma si è anche sempre diversi fino alla fine della vita, cioè si verifica, di fatto, di essere diversamente competenti, nei diversi contesti e nelle diverse situazioni che a mano a mano ci è dato affrontare e risolvere. Le une e le altre, inoltre, per quanto particolari e determinate (si è sempre competenti in un contesto, di fronte a qualcosa di specifico), sono sempre unitarie e integrate (ogni competenza, anche nei settori professionali più minuti, se autentica e davvero svolta dimostrando perizia ed eccellenza, infatti, mobilita sempre anche tutte le altre). Da questo punto di vista, come suggerisce anche l’etimologia del termine, e in particolare il cum che precede il petere, «com-petente» è non solo chi si muove «insieme a», «con» altri in un contesto (valore sociale della collaborazione e della cooperazione) per affrontare un compito o risolvere un problema; non solo chi si sforza di cogliere l’unità complessa anche del compito o del problema più parziale che incontra, ma chi pratica la prima e la seconda preoccupazione coinvolgendo sempre, momento dopo momento, tutta insieme la sua persona, la parte intellettuale, ma non meno quella emotiva, operativa, sociale, estetica, motoria, morale e religiosa. È quindi «com-petente» chi «mette insieme» tante dimensioni nell’affrontare un compito, lo affronta bene e, in questo, dà sempre tutto il meglio di se stesso. La circostanza spiega perché, se la competenza rimane sempre ancorata allo specifico contesto ambientale, sociale, culturale e professionale in cui è maturata e nel quale dà prova di sé, e risulta pure attivata da esso, essa è, pure, allo stesso tempo, tale se si svincola da questo specifico contesto e si proietta su altri contesti che proprio l’apprezzamento critico e intuitivo del soggetto riconosce analoghi, cioè per certi aspetti uguali, a quello di origine. Il competente, quindi, attiva le stesse conoscenze e abilità anche in situazioni differenti da quella originaria e abituale (trasferimento analogico: questo è il senso della trasversalità delle competenze); inoltre, ‘coglie’ le caratteristiche comuni esistenti in contesti tra loro differenti (astrazione: questo il senso del carattere «meta» di ogni autentica competenza: «metacognitiva, meta-affettiva, meta-operativa ecc.»); infine, pratica analogia e astrazione per risolvere in maniera soddisfacente quanto costituisce per lui problema e per rispondere in modo pertinente a quanto sente come bisogno o che vive come scopo (operatività della competenza). Conoscenze e abilità. Le capacità personali diventano competenze personali grazie all’insieme degli interventi educativi promossi da tutte le istituzioni educative formali, non formali e informali. A scuola, l’istituzione educativa formale per eccellenza, le capacità di ciascuno diventano competenze grazie all’impiego formativo delle conoscenze e delle abilità che lo Stato, d’intesa con le Regioni, reputa valore trasmettere alle nuove generazioni. Esse sono raccolte nelle Indicazioni Nazionali sotto la voce «obiettivi specifici di apprendimento» che l’art. 8 comma 1, punto b del Dpr 275/99 definisce «relativi alle competenze degli alunni», ovvero correlati, come scopo del proprio essere formulati, alle competenze da promuovere negli alunni. Per quanto possano valere queste distinzioni analitiche di dimensioni che, nella realtà, si richiamano, invece, sempre a vicenda, si può sostenere che la distinzione tra conoscenze ed abilità si possa così formulare. Le conoscenze sono il prodotto dell’attività teoretica dell’uomo. Nella scuola, sono soprattutto ricavate dai risultati della ricerca scientifica. Riguardano, quindi, il sapere: quello teoretico, ma anche quello pratico. In questo secondo senso, sono anche i principi, le regole, i concetti dell’etica individuale e collettiva (valori civili costituzionali, nazionali o sovranazionali) che, nelle Indicazioni Nazionali, costituiscono gli «obiettivi specifici di apprendimento» della Convivenza civile. Le abilità sono la condizione e il prodotto della razionalità tecnica dell’uomo. Si riferiscono, quindi, al saper fare: non solo al fare, ma appunto anche al sapere le ragioni e le procedure di questo fare. In altre parole, anche al sapere perché operando in un certo modo e rispettando determinate procedure si ottengono certi risultati piuttosto di altri. Nella scuola, le capacità personali degli allievi, grazie alla mediazione delle conoscenze e delle abilità riunite negli «obiettivi specifici di apprendimento», diventano loro competenze personali attraverso tre strategie didattiche. La prima è quella dell’esempio. Servono docenti che testimoniano su se stessi come, attraverso il continuo incontro personale con le conoscenze e con le abilità disciplinari prodotte dalla ricerca scientifica, si mobilitano tutte le proprie capacità e le si trasformano in competenze umane e professionali. In questo senso, gli «obiettivi specifici di apprendimento» elencati nelle Indicazioni Nazionali disegnano una mappa culturale, semantica e sintattica, che i docenti devono padroneggiare anche nei dettagli epistemologici, e mantenere certamente sempre viva ed aggiornata sul piano della propria vita professionale. L’esempio, inoltre, se vale nel rapporto docente allievo, vale anche in quello tra allievo più esperto ed allievo principiante, accreditando così, per l’apprendimento, l’efficacia di tutte le forme di peer education e di cooperative learning. La seconda strategia è il correlato soggettivo dell’esempio: l’esercizio. L’esempio oggettivo del docente (o dell’allievo più esperto) diventa occasione, per l’alunno principiante, di apprendere il valore dell’esercizio personale (in quali momenti avverrebbe l’ "esercizio personale" nel nuovo tipo di scuola immaginato per laboratori a scelta o su indicazione del tutor?) se vuole impadronirsi delle conoscenze e delle abilità che egli vede già in azione come competenze nelle persone di cui ha potuto apprezzare l’esempio. La terza strategia è quella dell’insegnamento e dell’apprendimento. Si possono insegnare, come è noto, solo principi, regole, concetti, idee: qualcosa di «intellettuale». L’esperienza personale non è insegnabile per definizione: si può e si deve soltanto testimoniare. Nessuno può, tuttavia, insegnare qualcosa che non sia una sua conoscenza personale. Un’idea che non sia penetrata nell’animo di chi insegna, infatti, non riesce ad essere trasmessa. Teorie che si ha la capacità di formulare, ma che non siano diventate competenze personali, cioè un modo di manifestare l’essere che si è, non sono affatto insegnabili. Ripetibili, forse, come fa il registratore o il computer, ma non insegnabili. Analogamente nessuno può imparare qualcosa che, tuttavia, non abbia trasformato a sua volta in conoscenza personale. Se non si personalizza, anche la padronanza di tutte le informazioni e le tecniche possibili, infatti, non è in alcun modo apprendimento significativo. Dal che si conferma che le conoscenze e le abilità o diventano personali e così aiutano a concretizzare le proprie capacità in competenze, oppure restano qualcosa di meccanico ed astratto che non perfeziona e matura la personalità di ciascuno (si potrebbe essere d’ accordo, il problema rimane però quello dei modi organizzativi e del tempo a disposizione per far sì che ognuna/o possa misurarsi con la mole dei "livelli essenziali" delle Indicazioni, con gli altri, con se stessa/o, dentro le esperienze in cui sia trasferibile e verificabile ciò che impara). Convivenza civile Nelle Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati della Scuola Primaria viene utilizzata per la prima volta l’espressione «Convivenza civile». Essa è ripresa dal disegno di legge-delega n° 1306 ed è assunta sia come sintesi delle «educazioni» alla cittadinanza, ambientale, stradale, alla salute, alimentare, all’affettività, sia, aspetto non meno importante, come risultato dell’apprendimento delle conoscenze e delle abilità che caratterizzano le differenti discipline di studio. Le motivazioni che hanno portato a giustificare questa attribuzione di significato all’espressione Convivenza civile sono principalmente tre. Oltre l’educazione alla cittadinanza e l’educazione civica. La prima motivazione è che questa nuova espressione sembra dire molto di più delle pur importanti e più tradizionali dizioni di «educazione alla cittadinanza» e di «educazione civica». Sembra dire di più dell’educazione alla cittadinanza perché, nella società multiculturale e multireligiosa che ci circonda, è indispensabile «convivere civilmente» non solo con chi ha ed esercita la cittadinanza, ma anche con chi non ce l’ha, con chi non gode i diritti politici e spesso fatica perfino a realizzare le condizioni minime di esercizio dei diritti umani più elementari. Sembra dire molto di più della tradizionale espressione di «Educazione Civica», inoltre, perché il concetto di Convivenza civile presuppone di superare il valore del "buon comportamento" da assumere nello spazio civile pubblico, ma richiede di praticare come bene comune pubblico anche il "buon comportamento" da assumere nello spazio privato in tema non solo di partecipazione e di coscienza politica, ma anche di circolazione stradale, di rispetto dell’ambiente, di cura della propria salute e dell’alimentazione, di comportamenti nel campo affettivo-sessuale. Esemplificando: se è vero che l’educazione stradale richiede il rispetto delle norme del Codice stradale come condizione per consentire a tutti (pedoni, ciclisti, automobilisti, ecc.) di circolare con ordine e sicurezza, è altrettanto vero che l’automobilista solitario, nel cuore della notte, non può correre a folle velocità sull’autostrada, non solo perché le eventuali conseguenze della sua imprudenza hanno pesanti "costi sociali" (assistenza ospedaliera, invalidità, ecc.) oltre che "personali" e "familiari", ma anche e soprattutto perché essere imprudenti è male in sé ed è un comportamento da rifiutare sempre, in presenza di altri, certo, ma nondimeno da soli, in privato. Discorsi che vanno ovviamente ripetuti analoghi per tutte le altre ‘educazioni’ raccolte nel contenitore Convivenza civile. Nel concetto di Convivenza civile, perciò, si afferma con molta più forza che nelle altre due più tradizionali espressioni il principio secondo il quale far bene a se stessi, ed agire bene, in città, per la strada, nell’ambiente in cui si vive, per la propria salute, nell’espressione affettiva è anche, sempre, far bene agli altri e contribuire all’agire bene di tutti, e viceversa. La radice morale. La seconda motivazione che ha portato ad indicare con l’espressione «educazione alla Convivenza civile» l’insieme dell’educazione alla cittadinanza o civica, stradale, all’ambiente, alla salute, all’alimentazione e all’affettività è che, finora, nella scuola, queste diverse componenti, da un lato, sono spesso state considerate dimensioni separate le une dalle altre e, dall’altro, sono state di fatto introdotte nei piani di studio con una modalità didattica più additiva che integrativa. La riunificazione di queste componenti educative nell’«educazione alla Convivenza civile» favorisce, invece, sia il processo di scoperta della loro unità a livello profondo, sia la necessità di una loro naturale integrazione anche a livello di trattazione didattica. La convivenza umana, infatti, sia essa declinata nelle relazioni interpersonali micro (rapporti a due, famiglia, gruppo di amici) o macro (città, ambiente, società, partiti, religioni), è civile se e quando è basata su una comune condizione: la personale consapevolezza etica e morale in tutti i campi d’azione dell’esperienza umana, dai comportamenti pubblici a quelli privati, da quelli igienici a quelli alimentari, da quelli improntati al rispetto dell’ambiente a quelli che coinvolgono le relazioni interpersonali tra soggetti dello stesso o di diverso sesso. In questa prospettiva, la Convivenza civile appare allo stesso tempo condizione e risultato delle ’educazioni’ che la compongono visto che tutte rimandano ad una comune radice morale personale e, allo stesso tempo, ne sono anche il frutto più maturo. Sarebbe, a questo punto, incomprensibile un ‘insegnamento’ di queste dimensioni che non fosse intimamente integrato e sempre agganciato alla complessità dell’esperienza umana e sociale dei singoli allievi. Le narrazioni del modo con cui ciascuno vive ed interpreta le dimensioni della Convivenza civile, infatti, diventano il materiale formativo da cui emerge una mappa articolata delle differenze e delle uguaglianze valoriali e comportamentali, di ciò che individualizza e di ciò che è condiviso; mappa che il docente è invitato poi a comparare contrastivamente con quella propria e con quella presente nelle Indicazioni allo scopo, sia di aprire con gli allievi una lettura cognitiva intersoggettiva allo stesso tempo più ampia e mai conclusa delle reciproche esperienze individuali, sia di condividere in libertà e responsabilità valori e comportamenti di vita. L’unità dell’educazione. La circostanza introduce anche l’ultima motivazione che ha portato a considerare l’«educazione alla Convivenza civile» come l’insieme dell’educazione alla cittadinanza o civica, stradale, all’ambiente, alla salute, all’alimentazione e all’affettività. Con questa scelta, infatti, soprattutto alla luce della dimensione morale che la fonda e a cui, allo stesso tempo, mira come fine, sembra più facile comprendere non solo che la condizione e il fine delle differenti ‘educazioni’ è appunto l’unità morale personale che fonda la Convivenza civile, ma anche che tale unità morale è la condizione e il fine di tutta l’esperienza scolastica, padronanza dei concetti e delle abilità disciplinari più specifiche comprese. Da questo punto di vista, risulta allora chiaro che il fine di qualsiasi insegnamento scolastico non è il contenuto delle discipline in sé e per sé, quanto, appunto, l’unità morale implicata dalla Convivenza civile, promossa attraverso l’incontro con tutti i contenuti disciplinari e la loro interiorizzazione. Un buon insegnamento della religione, dell’italiano, dell’inglese, della matematica, delle scienze ecc., in sostanza, produce, è chiamato a produrre, a livello personale, come condizione e fine, la Convivenza civile; così come le competenze specifiche della Convivenza civile, se non vogliono indulgere all’astrattezza e alla sterilità moralistica, non nascono né esistono fuori da buone e corrette conoscenze ed abilità disciplinari. Questioni di impianto metodologico e culturale Dagli obiettivi specifici di apprendimento agli obiettivi formativi. I docenti delle istituzioni scolastiche, rispettando la natura e le caratteristiche di ogni grado di scuola, sono tenuti, così dispongono le Indicazioni Nazionali, a trasformare il quadro tracciato nel Profilo educativo, culturale e professionale dello studente da promuovere entro i 14 anni, nonché gli «obiettivi generali del processo formativo» e gli «obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli allievi» (art. 8 del Dpr. 275/99) in obiettivi formativi, cioè in obiettivi di apprendimento effettivamente adatti alla maturazione dei singoli allievi che si affidano al loro peculiare servizio educativo (art. 13 del Dpr. 275/99) e, soprattutto, per loro significativi. 1. Il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del Primo Ciclo di Istruzione costituisce la bussola e l’orizzonte di senso per la determinazione sia degli obiettivi generali del processo formativo sia degli obiettivi specifici di apprendimento a riguardo dei diversi periodi didattici che caratterizzano i gradi scolastici di ogni ciclo. Esplicitando ciò che ogni studente, alla fine del Primo ciclo deve sapere (le conoscenze disciplinari e interdisciplinari) e fare (le abilità operative) per essere l’uomo e il cittadino che è lecito normalmente attendersi che sia, a 14 anni, mette in luce come il culturale e il professionale siano occasioni e strumenti per l’educativo personale e come le conoscenze disciplinari e interdisciplinari (il sapere) e le abilità operative (il fare) apprese ed esercitate non solo nel sistema formale (la scuola), ma anche in quello non formale (le altre istituzioni formative) e informale (la vita sociale nel suo complesso), siano per il ragazzo, davvero formative nella misura in cui effettivamente diventano sue competenze personali. 2. Collegati al Profilo educativo, culturale e professionale, ma calati nello specifico grado di scuola a cui si riferiscono (nel nostro caso: la Scuola Primaria), gli «obiettivi generali del processo formativo» presentati nelle Indicazioni Nazionali orientano la natura e il significato degli interventi educativi e didattici predisposti complessivamente dai docenti e dalla scuola al servizio del massimo ed integrale sviluppo possibile delle capacità di ciascun allievo. 3. Gli «obiettivi specifici di apprendimento» indicano le conoscenze (il sapere) e le abilità (il saper fare) che tutte le scuole della Repubblica, nei diversi periodi didattici della Scuola Primaria, sono invitate dallo Stato ad organizzare in attività educative e didattiche volte alla concreta e circostanziata promozione delle competenze finali degli allievi a partire dalle loro capacità. Essi sono presentati ordinati per discipline e per «educazione alla Convivenza civile». L’ordine di presentazione delle conoscenze e delle abilità che costituiscono gli obiettivi specifici di apprendimento non va, tuttavia, confuso con il loro ordine di svolgimento psicologico e didattico con gli allievi. Il primo vale, come già si ricordava, come spunto e promemoria per i docenti. In questa prospettiva, gli obiettivi specifici di apprendimento sono, per così dire, la «materia prima culturale» che i docenti sono chiamati ad adoperare e a vivificare per promuovere l’educazione dei fanciulli. Il secondo vale, invece, per gli allievi, è tutto affidato alle determinazioni professionali delle istituzioni scolastiche e dei docenti, ed entra in gioco quando si passa dagli obiettivi specifici di apprendimento agli obiettivi formativi. In questa prospettiva, gli obiettivi formativi sono la «forma», fatta di diverse combinazioni qualitative e quantitative, assegnata a volta a volta dai docenti alla «materia prima culturale». Per questo non bisogna attribuire al primo ordine la funzione del secondo. Soprattutto, non bisogna cadere nell’equivoco di impostare e condurre le attività didattiche quasi in una corrispondenza biunivoca con ciascun obiettivo specifico di apprendimento. L’insegnamento, in questo caso, infatti, diventerebbe una forzatura. Al posto di essere frutto del giudizio e della responsabilità professionale necessari per progettare gli obiettivi formativi a partire dagli obiettivi specifici di apprendimento, ridurrebbe i primi ad un pleonasmo o ad una esecutiva applicazione dei secondi. Inoltre, trasformerebbe l’attività didattica in una ossessiva e meccanica successione di esercizi/verifiche degli obiettivi specifici di apprendimento indicati che toglierebbe ogni respiro educativo e culturale all’esperienza scolastica. Non bisogna, inoltre, dimenticare che se anche gli obiettivi specifici di apprendimento sono indicati per le diverse discipline e per l’educazione alla Convivenza civile in maniera minuta e segmentata, obbediscono, in realtà, ciascuno, al principio dell’ologramma: gli uni rimandano agli altri; non sono mai, per quanto possano essere autoreferenziali, richiusi su se stessi, ma sono sempre un complesso e continuo rimando al tutto. Un obiettivo specifico di apprendimento di una delle dimensioni della Convivenza civile, quindi, è sempre anche disciplinare e viceversa; analogamente, un obiettivo specifico di matematica è e deve essere sempre, allo stesso tempo, ricco di risonanze di natura linguistica, storica, geografica, espressiva, estetica, motoria, sociale, morale, religiosa. E così per qualsiasi altro obiettivo specifico d’apprendimento. Dentro la disciplinarità anche più spinta, in sostanza, va sempre rintracciata l’apertura inter e transdisciplinare: la parte che si lega al tutto e il tutto che non si dà se non come parte. E dentro le ‘educazioni’ vanno riconosciute le discipline, così come attraverso le discipline e le ‘educazioni’ non si deve promuovere altro che l’educazione integrale di ciascuno. La disposizione degli obiettivi specifici di apprendimento non ha altro scopo, dunque, che indicare chiaramente, senza equivoci, ai docenti, ai genitori e agli stessi allievi i livelli essenziali di prestazione che le Scuole Primarie della Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini per mantenere l’unità del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione, per impedire la frammentazione e la polarizzazione del sistema e, soprattutto, per consentire agli allievi la possibilità di maturare in tutte le dimensioni tracciate nel Profilo educativo, culturale e professionale previsto per la conclusione del primo ciclo degli studi. Non hanno, perciò, alcuna pretesa validità per i casi singoli, siano essi le singole istituzioni scolastiche o, a maggior ragione, i singoli allievi. È compito esclusivo di ogni scuola autonoma e dei docenti, infatti, nel concreto della propria storia e del proprio territorio, assumersi la libertà di mediare, interpretare, ordinare, distribuire ed organizzare gli obiettivi specifici di apprendimento in obiettivi formativi, considerando, da un lato, le capacità complessive di ogni fanciullo che devono essere sviluppate al massimo grado possibile e, dall’altro, le teorie pedagogiche e le pratiche didattiche che ritengono, a questo scopo, scientificamente più affidabili e professionalmente più efficaci. Allo stesso tempo, tuttavia, è compito esclusivo di ogni scuola autonoma e dei docenti assumersi la responsabilità di «rendere conto» delle scelte fatte e di porre le famiglie e il territorio nella condizione di conoscerle e di condividerle. 4. Gli obiettivi formativi, quindi, sono gli «obiettivi generali del processo formativo» e gli «obiettivi specifici di apprendimento» contestualizzati, entrati in una scuola, in una sezione, in un gruppo concreto di alunni che hanno, ciascuno, le loro personali capacità, trasformate, poi, grazie alla professionalità dei docenti e al carattere educativo delle attività scolastiche, in affidabili e certificate competenze individuali finali. Gli «obiettivi generali del processo educativo» e gli «obiettivi specifici di apprendimento» sono e diventano obiettivi formativi, quindi, nel momento in cui si trasformano nei compiti di apprendimento ritenuti realmente accessibili, in un tempo dato e professionalmente programmato, ad uno o più allievi concreti e sono, allo stesso tempo, percepiti da ‘questi’ allievi come traguardi importanti e significativi da raggiungere per la propria personale maturazione. In altre parole, si potrebbe dire, nel momento in cui ristrutturano l’ordine formale epistemologico da cui sono stati ricavati in quello reale, psicologico e didattico, di ciascun allievo, con la sua storia e le sue personali attese. Anche gli obiettivi formativi, ovviamente, al pari degli obiettivi specifici di apprendimento, obbediscono alla logica ologrammatica. Si può sostenere, anzi, che la esaltino. Se non la testimoniassero nel concreto delle relazioni educative e delle esperienze personali di apprendimento difficilmente potrebbero essere ancora definiti «formativi». Per questo non possono mai essere formulati in maniera atomizzata e prevedere corrispondenti performance tanto analitiche, quanto, nella complessità del reale inesistenti, ma vanno sempre esperiti a partire da problemi ed attività ricavati dall’esperienza diretta dei fanciulli. Tali problemi ed attività, per definizione, sono sempre unitarie e sintetiche, quindi mai riducibili né ad esercizi che pretendono di raggiungere in maniera segmentata e scomposta gli obiettivi formativi, né alla comprensione dell’esperienza assicurata da singole prospettive disciplinari o da singole ‘educazioni’. Richiedono, piuttosto, sempre, la mobilitazioni di sensibilità e prospettive pluri, inter e transdisciplinari, nonché il continuo richiamo all’integralità educativa. Inoltre, aspetto ancora più importante, esigono che siano sempre dotate di senso, e quindi motivanti, per chi le svolge. L’identificazione degli obiettivi formativi può scaturire dalla armonica combinazione di due diversi percorsi. Il primo (bottom up) è quello che si fonda sull’esperienza degli allievi e individua a partire da essa le dissonanze cognitive e non cognitive che possono giustificare la formulazione di obiettivi formativi da raggiungere, alla portata delle capacità degli allievi e, in prospettiva, logicamente coerenti con il Profilo educativo, culturale e professionale, nonché con il maggior numero possibile di obiettivi specifici di apprendimento. Il secondo (top down) è quello che può ispirarsi direttamente al Profilo educativo, culturale e professionale e agli obiettivi specifici di apprendimento e che considera, come già si accennava, se e quando, attraverso quali apposite mediazioni professionali di tempo, di luogo, di qualità e quantità, di relazione, di azione e di circostanza, aspetti dell’uno e degli altri possono inserirsi e integrarsi nella storia narrativa personale o di gruppo degli allievi, e possono essere percepiti da ciascun fanciullo, e dalla sua famiglia, nel contesto della classe, della scuola e dell’ambiente, come traguardi importanti e significativi per la propria crescita individuale. Dalle Indicazioni Nazionali ai Piani di Studio Personalizzati. Le istituzioni scolastiche, rispettando i vincoli organizzativi di orario, di organico e di funzioni elencati nelle Indicazioni nazionali, sono tenute a trasformare gli «obiettivi generali del processo formativo» e gli «obiettivi specifici di apprendimento» (conoscenze e abilità) prima in obiettivi formativi e poi, grazie all’articolazione delle attività educative e didattiche, nelle competenze educative, culturali e professionali finali di ciascuno (e qui sta il punto cruciale: i "vincoli organizzativi di orario, di organico e di funzioni"! La scuola deve raggiungere obiettivi, rendere e produrre risultati voluti dal centro con i limiti imposti dal centro! Dov’è l’AUTONOMIA di gestione del tempo, delle persone, delle risorse... E se anche le scuole fossero lasciate libere di scegliere l’organizzazione in cui credono per raggiungere i "livelli essenziali" delle Indicazioni e magari andare oltre, con quali risorse senza sostegno economico?). Le Unità di Apprendimento. Gli obiettivi formativi, le attività, le modalità organizzative, i tempi ed i metodi necessari per trasformarli in competenze degli allievi, nonché le modalità di certificazione delle competenze acquisite, vanno a costituire le Unità di Apprendimento del Piano di Studio Personalizzato di ciascun alunno, da cui si ricava documentazione utile per la compilazione del Portfolio delle competenze individuali. Le Unità di Apprendimento (obiettivi formativi, scelte dei metodi e dei contenuti, modalità di verifica e di valutazione) che vanno a costituire i Piani di Studio Personalizzati non considerano le conoscenze e le abilità come archivi astratti, ancorché epistemologicamente motivati, da raggiungere, bensì come occasioni per lo sviluppo globale della persona del fanciullo che interagisce attivamente con la cultura. In questo senso, sono occasioni per sviluppare in maniera armonica le capacità (intellettuali, estetico-espressive, motorie, operative, sociali, morali e religiose) di ciascuno, ponendolo nelle condizioni di capire il mondo e di trasformarlo, mentre conosce e trasforma se stesso. Calendario scolastico. Ai fini della valorizzazione dei Piani di Studio Personalizzati, può essere produttivo far coincidere il periodo utile per l’offerta delle attività didattiche da parte delle istituzioni scolastiche con l’intero anno scolastico, salvo il rispetto delle disposizioni contrattuali e di stato giuridico dei docenti, nonché dei giorni minimi di sospensione dell’attività didattica disposta dalle competenti autorità per le festività di Natale, Pasqua e delle altre feste religiose e civili. In questa maniera, ogni istituzione scolastica, grazie all’autonomia organizzativa e didattica di cui dispone, potrà distribuire a livello mensile, settimanale e giornaliero il monte ore annuale delle lezioni in base alle esigenze di apprendimento degli allievi, ai risultati finali da raggiungere e alle esigenze avanzate dalle famiglie e dal territorio, secondo criteri distributivi dell’orario più da velocità variabile che da velocità media. Nuova organizzazione. Sempre ai fini della valorizzazione dei Piani di Studio Personalizzati va ricordata alle scuole l’importanza di progettare in maniera molto innovativa la propria organizzazione. Finora, infatti, tale organizzazione ha perlopiù visto il suo elemento costitutivo nella «classe», intesa come unità amministrativa primaria a cui far confluire tutte le attenzioni e i provvedimenti (dall’assegnazione dei docenti all’orario annuale delle lezioni). Con la prospettiva dei Piani di Studio Personalizzati, invece, pare utile considerare elemento primario e costitutivo della nuova organizzazione della scuola le «persone», e, nel caso specifico, i singoli allievi. Essi, in un numero corrispondente al massimo oggi necessario per formare una classe, sono, perciò, originariamente affidati alle cure e alle responsabilità di un docente Tutor. Il docente Tutor, insieme ai colleghi, nell’ambito del Pof e tenendo conto dei vincoli e delle risorse presenti nelle Indicazioni nazionali, progetta, un’organizzazione del percorso formativo fondato su due modalità. La prima è quella che impiega il Gruppo classe, cioè un Gruppo numeroso di bambini chiamato a svolgere attività prevalentemente omogenee ed unitarie (questa è la forza del nostro sistema: tutte/i le/i bambine/i hanno per ora l’opportunità di misurarsi con ogni attività, proposta didattica e per il tempo necessario a divenire competenti. La scuola elementare ha fatto ciò e, quando non vi è riuscita, ha modificato strategie utilizzando l’apprendimento cooperativo, il rispecchiamento, il brain storming, le tavole rotonde e mille altre strategie oltre a "quelle umane"…Ha diviso la classe in gruppi eterogenei, li ha gestiti con la compresenza e la contemporaneità delle maestre e dei maestri della classe. Nessuna bambina/o è rimasta/o "avulso" dal contesto classe, nessuna/o ha mai perso il contatto con l’insieme…questa è stata e dovrebbe essere la meraviglia del nostro sistema, sicuramente migliorabile, ma la classe non si dovrebbe toccare perché è la seconda famiglia, la seconda possibilità che si dà ad alcune/i bambine/i di stringere legami con esseri umani anche molto diversi fra loro, con l’altra/o, chiunque ella/egli sia.). La seconda è quella centrata sui Laboratori, nella quale i fanciulli lavorano invece in Gruppi di livello (chi lo decide il livello? Esso, nelle/nei bambine/i tanto piccole/i, è in continua evoluzione, è in continuo movimento e cambia da un giorno all’altro a seconda delle mutevoli condizioni e situazioni esistenziali, a seconda delle cure e delle attenzioni ricevute a casa e a scuola nel quotidiano intrecciarsi di relazioni?!), di compito ed elettivi (non ce n’è bisogno: finora i laboratori erano la classe tutta insieme che, in modo assolutamente unito e unitario, lavorava in lingua, storia, teatro, musica, motoria, matematica e motoria, geografia,matematica e immagine…poi addiveniva a scoperte, che andavano sviluppate con l’esercizio collettivo, di piccolo gruppo, di coppia, individuale, fino a diventare conoscenze…sotto la supervisione attenta delle/dei maestre/i che, in modo vigile e accurato (si può dire, visti i buoni risultati ottenuti da questo ordine di scuola), seguivano l’insieme classe e i suoi singoli componenti in azione-situazione) che possono coinvolgere non solo il Gruppo di allievi affidato ad un Tutor, ma anche quello affidato ad altri Tutor (e questo balletto non sarebbe destabilizzante nella pratica?!) Dovendo dare alcuni suggerimenti sull’utilizzo di tali Gruppi è bene ricordare che i Gruppi nei quali si svolge un’attività omogenea, se apportano un sostegno ai fanciulli, stimolandoli in alcune attività sistematiche, possono avere l’effetto negativo di incoraggiare il conformismo (perché non si chiede alle/ai docenti delle elementari di illustrare i modi in cui hanno saputo gestire "eccellenze" e "incompetenze" dentro classi numerose, perché non si chiede quali aggiornamenti e quali novità hanno applicato nella gestione delle classi eterogenee?) e, soprattutto, di penalizzare i soggetti estremi (i meno e i più competenti). D’altra parte, poiché è noto che l’insegnamento organizzato da allievi più competenti per compagni meno competenti è efficace, vale la pena di articolare l’organizzazione didattica anche tenendo conto di queste consapevolezze fornite dalla ricerca educativa. Questo soprattutto in presenza di fanciulli con ritardi evolutivi globali e/o di settore (non "d’altra parte": è proprio questo il punto! Lavorare solidalmente e collaborando in modo non spezzettato da altri tutor o dalla necessità della formazione di gruppi instabili nel tempo e nello spazio, è quanto di più stimolante esista per ogni essere umano, figuriamoci nei piccoli!). Sull’onda di precise sollecitazioni internazionali (OCSE), dunque, non si tratta di mettere in discussione l’importanza e, per certi aspetti, l’insostituibilità del lavoro educativo e didattico che si svolge in un Gruppo classe, ma di riconoscere che sia per il miglior apprendimento di alcune conoscenze ed abilità (si pensi, ad esempio all’inglese o a determinate attività espressive, motorie, informatiche, operative o alle attività di recupero e sviluppo di singoli apprendimenti), sia per la miglior crescita di alcune dimensioni relazionali e sociali sono altrettanto indispensabili momenti di lavoro per Gruppi di livello, di compito ed elettivi, tutti a composizione numerica variabile (forse, se ci fosse a disposizione anche la notte! Di giorno la classe, di notte, gli approfondimenti in laboratorio! Si dovrebbe tenere presente che si parla (come sempre purtroppo, visto che di smobilitazione delle scuole superiori non si parla mai e forse neppure in questa legislatura), di bambine e bambini che hanno diritto a imparare ad apprendere con calma e serenità.). Il docente Tutor coordinatore. L’alternanza di questi diversi momenti di lavoro, tuttavia, non può, da un lato, prescindere dall’età degli allievi, con il rischio di disorientarli, e, dall’altro lato, non può nemmeno essere improvvisata od obbedire più alle esigenze dell’organizzazione scolastica che dell’allievo. Proprio per tener conto del primo aspetto, le Indicazioni nazionali ritengono necessario assicurare ai fanciulli, fino al primo biennio, la possibilità di lavorare in un Gruppo classe, con la presenza del docente Tutor, per un numero di ore che oscillano da 594 a 693 su 891 o 990 annuali (cosa significa in pratica tale variabilità di numero di ore se non la negazione di quello che si è appena sostenuto?!). Per tener conto del secondo aspetto, inoltre, le Indicazioni nazionali domandano ai docenti Tutor e ai docenti responsabili dei diversi Laboratori la progettazione di una successione organica e ordinata dei momenti di lavoro differenziati tra Gruppi classe, di livello, di compito ed elettivi (quale sensibilità si chiede a priori a tutte/i i docenti e alla scuola autonoma! Si intravedono di nuovo molti rischi di dispersione che già la "scuola dei progetti" sta vivendo e correggendo!). Successione che non necessariamente va condotta una volta per tutte all’inizio dell’anno, ma che è opportuno subisca adattamenti in itinere sia di intensificazione sia di rallentamento. Allo scopo di garantire l’organicità e l’ordine, al servizio degli allievi, della successione delle modalità di lavoro di Gruppo appena ricordate, le Indicazioni nazionali hanno previsto di estendere i compiti del docente Tutor che coordina i percorsi formativi per gli alunni anche al coordinamento della propria attività con quella dei colleghi responsabili dei Laboratori (ci si deve rendere conto della delicatezza di una simile affermazione e dei limiti pratici in termini di fattibilità: si è sicuri di non esporre la scuola e le/i docenti, alcune/i più di altre/i, al rischio della superficialità nella valutazione dei reali bisogni dei singoli alunni e di un’involuzione nelle programmazioni e nelle strategie d’intervento a causa di una diminuita corresponsabilità?) . I Laboratori: natura, organizzazione e consigli d’uso. I Laboratori previsti all’interno della quota oraria obbligatoria nel corso dei cinque anni della Scuola Primaria sono in totale sei: - Attività Informatiche, - Attività di Lingue (tra cui l’Inglese), - Attività espressive (dal teatro alla musica, dalla pittura al modellaggio ecc.), - Attività di progettazione (progetti di intervento ambientale o sociale, progetti di esperimenti, costruzione e decostruzione di macchine e oggetti, giardinaggio, bricolage ecc.), - Attività motorie e sportive,
Che cosa sono. Come dice la parola stessa, il Laboratorio è il luogo privilegiato in cui si realizza una situazione d'apprendimento che coniuga conoscenze e abilità specifiche su compiti unitari e significativi per gli alunni, possibilmente in una dimensione operativa e progettuale che li metta in condizione di dovere e poter mobilitare l’intero sapere esplicito e tacito di cui dispongono. In questo senso, il Laboratorio si può definire: un’occasione per scoprire l’unità e la complessità del reale, mai riducibile a qualche schematismo più o meno disciplinare; un momento significativo di relazione interpersonale e di collaborazione costruttiva dinanzi a compiti concreti da svolgere, e non astratti; un itinerario di lavoro euristico che non separando programmaticamente teoria e pratica, esperienza e riflessione logica su di essa, corporeo e mentale, emotivo e razionale è paradigma di azione riflessiva e di ricerca integrata ed integrale; uno spazio di generatività e di creatività che si automotiva e che aumenta l’autostima mentre accresce ampiezza e spessore delle competenze di ciascuno, facendole interagire e confrontare con quelle degli altri; possibile camera positiva di compensazione di squilibri e di disarmonie educative; garanzia di itinerari didattici significativi per l’allievo, capaci di arricchire il suo orizzonte di senso (si ripete con convinzione che la classe è il laboratorio in grado di arricchire tutte/i! La classe deve offrire a tutte/i le opportunità, senza la pretesa di risolvere tutto in termini di conoscenze, ma con la pretesa di far accedere tutte/i alla scoperta delle proprie predilezioni che, poi, nell’arco della vita scolastica e extrascolastica, troveranno conferme). Chi e quando li tiene. I Laboratori sono affidati, in piena autonomia da parte della Istituzione scolastica, ad uno o a più docenti che per competenza professionale e didattica, e disponibilità personale, organizzano percorsi formativi opzionali ordinati per Gruppi (di livello, di compito e elettivi) e coordinati alle Indicazioni nazionali, in grado di rispondere alle differenti situazioni di apprendimento degli allievi. Per problemi organizzativi, è consigliabile, tuttavia, che siano al massimo tre fino alla conclusione del primo biennio. Si tratterà, quindi, di integrare le competenze da promuovere nei Laboratori (per esempio, prevedere un unico responsabile del Laboratorio di Attività espressive, di Lingue, di Attività motorie e sportive, di Attività informatiche) e di affidarli al massimo a tre docenti responsabili che li organizzino in verticale e/o in orizzontale (è evidente che non si pensa a cosa comporterebbe in termini di impegno e resa un’ organizzazione di questo tipo: come potrebbero, con profitto, uno, tre docenti interagire al massimo delle loro competenze e professionalità in un pugno di ore, relazionandosi con tutor diversi, con diverse esigenze, con fasce differenti di età e con non omogenee richieste di strategie di apprendimento-insegnamento?) . Dal secondo biennio, soprattutto laddove esistano scuole comprensive che lavorano in maniera unitaria fino all’ultimo anno della scuola secondaria di I grado, si può anche prevedere l’affidamento dei sei Laboratori a sei docenti differenti. Non è del resto obbligatorio che gli allievi optino per la frequenza di tutti e sei Laboratori ogni anno e, all’interno dell’anno, per ogni sua frazione interna (altra debolezza dei laboratori proposti e non obbligatori: perché i bambini non dovrebbero misurarsi con ciò che non conoscono o pensano di non amare? Il rischio è quello che una/un bambino/a non conosca mai una sua capacità potenziale da attivare!). Naturalmente niente impedisce che qualche Laboratorio sia assegnato anche ai docenti Tutor: in questo caso, se il loro orario sui Laboratori non sarà residuale, significherà che essi svolgeranno le loro attività laboratoriali in presenza dell’intero Gruppo classe che è loro affidato (magari, ma forse sarà difficile chiedere al tutor, o autoproporsi in qualità di tutor, di occuparsi anche dei laboratori, visto il già alto grado di impegno e responsabilità che gli viene richiesto!). Né è escluso che, pur rispettando la normativa vigente in materia, possa essere organizzato secondo la modalità del Laboratorio anche l’Irc. Come si organizzano. La caratteristica principale del Laboratorio, dal punto di vista didattico, è la sua realizzazione con Gruppi di alunni della stessa classe o di classi parallele o di classi verticali, riuniti per livello di apprendimento, o per eseguire un preciso compito/progetto, o per assecondare liberamente interessi e attitudini comuni. I Laboratori possono essere predisposti all’interno dell’Istituto e/o tra più Istituti in rete, servendosi dell’organico d’Istituto e/o di rete a disposizione; ciò consente di ottimizzare l’utilizzo di precise professionalità anche nella Scuola Primaria. Si pensi, ad esempio, alla possibilità che insegnanti della Scuola Primaria particolarmente competenti, per il personale percorso formativo e professionale, nelle varie attività dei Laboratori, possano operare con Gruppi di alunni dell’intera scuola di appartenenza o di scuole in rete. Si può, altresì, considerare l’opportunità, non più privilegio esclusivo degli Istituti Comprensivi, di utilizzare i docenti di Musica, di Attività Motorie e Sportive e di Lingua Inglese della Scuola Secondaria di I grado anche per Laboratori offerti agli allievi della Scuola Primaria (dove è andata a finire l’ idea, fin qui ancora considerata valida da molti pedagogisti, che nelle scuole elementari occorre non tanto la specializzazione in una materia, ma la competenza pedagogica e il tener presente l’unità e l’unitarietà della persona e dell’insegnamento? Un conto è utilizzare insegnanti specialisti per qualche progetto, un altro conto è utilizzarli per completare la formazione integrale in situazione di completamento di orario di cattedra) per realizzare apprendimenti assolutamente necessari allo sviluppo integrale delle personalità dell’alunno. Qualunque siano le modalità organizzative, i docenti dei Laboratori entrano a pieno titolo a far parte dell’équipe pedagogica che realizza gli apprendimenti degli alunni nella Scuola Primaria; ciò allo scopo evidente di garantire una mediazione didattica adeguata ai fanciulli di questa età e di operare in modo integrato per tempi, contenuti e metodi con gli altri docenti e con il Tutor in particolare (quali gli spazi per la ricerca dell’equipe? Quali i tempi veramente necessari per tenere saldamente le fila di più tutor e più docenti di progetto? Quale peso avrà il tutor? Quale peso gli altri docenti impegnati nelle relazioni con più tutor?). Dopo che ogni Istituzione scolastica, nell’ambito del Pof, ha organizzato, al proprio interno o in rete, Laboratori ordinati per Gruppi di livello, di compito o elettivi e coordinati alle Indicazioni nazionali, ciascun docente Tutor indica, in accordo con gli altri docenti e la famiglia (le famiglie saranno tutte, veramente tutte, messe nelle condizioni di scegliere consapevolmente?), quali Laboratori possano essere particolarmente utili per il pieno sviluppo delle capacità di ciascun allievo; può quindi accadere che un fanciullo frequenti tutti i differenti Laboratori, mentre un altro ne frequenti solo alcuni tipi, perché, ad esempio, ha bisogno di perseguire un maggior sviluppo motorio e di esercitare abilità di manualità fine, mentre per altre conoscenze ed abilità sono sufficienti le sollecitazioni ordinarie ed omogenee offerte nel Gruppo classe o, addirittura, maturate in contesti extrascolastici (si rileva come non si sia capito che la scuola elementare non insegna soltanto le "materie", le "tecniche", bensì usa tutte le "materie" per armonizzare, spingere, sollecitare, solleticare la curiosità verso il sapere e i "saperi": cosa c’entra ciò con l’extrascuola, che tra l’altro non è a disposizione di una buona parte delle "tasche" delle famiglie?!). Si consolida, in questo modo il Piano di studio personalizzato (Psp) di ciascun allievo: è questo un passaggio cruciale per l’azione educativa finalizzata alla crescita e alla valorizzazione della persona in tutte le sue dimensioni, un momento complesso che richiede una stretta collaborazione tra scuola, famiglia ed extrascuola (bisognerà fare sicuramente così, altrimenti chi sa mai quante famiglie rischieranno di essere escluse: guai a chi non andasse a chiamare addirittura da casa le famiglie, dicendo loro i rischi che corrono le figlie e i figli "non protette/i" da solide basi culturali e ambientali!). Coerenza degli insegnamenti laboratoriali. Nelle realtà più complesse, l’efficace organizzazione dei Laboratori, che si possono anche articolare in più moduli progressivi di livello o di compito, deve poter contare sulla presenza di un docente unitariamente responsabile per ciascuna tipologia dei Laboratori attivati nella scuola; esemplificando, se il Laboratorio di Attività Informatiche è organizzato in quattro moduli progressivi di differente livello qualitativo affidati a docenti diversi, occorre che uno di questi docenti abbia la responsabilità del coordinamento scientifico e didattico generale di tutti e quattro i moduli e, quindi, anche dei colleghi che se occupano (sarà la/il docente che avrà seguito, "beata/o" lei/lui, se è stato scelto o estratto, giustamente, a sorte, dall’amministrazione, l’aggiornamento,"Fortic", proposto dall’alto a una sola bassa percentuale di docenti?!). E’ evidente, infatti, che solo la presenza di un Responsabile di Laboratorio può garantire, da un lato, la coerenza di sviluppo epistemologico dei vari moduli e, all’altro, il necessario collegamento tecnico e metodologico tra i docenti incaricati di svolgerli; la sua presenza è condizione per la realizzazione di un’offerta formativa che, mentre si adatta alle esigenze di ciascun allievo (in ciò concordando le decisioni con il docente Tutor), non tradisce, però, nemmeno lo sviluppo logico dei contenuti di insegnamento. Laboratori e Gruppo classe. Ciò non significa, però, che le attività laboratoriali non possano essere organizzate anche per e nel Gruppo classe almeno in due sensi. Perché niente impedisce che il docente Tutor per un anno o per alcuni periodi dell’anno, si assuma la responsabilità di condurre moduli di lavoro all’interno di uno dei Laboratori appositamente costituiti nell’organizzazione della scuola e affidati ad un collega che ne è responsabile, mantenendo l’unità del suo Gruppo classe e così obbedendo anche al vincolo di svolgere con esso, fino alla terza Primaria, da 594 a 693 ore su 891 o 990 annuali di presenza. Perché qualsiasi insegnamento si può svolgere in maniera laboratoriale. Per Scienze, ad esempio, si può pensare ad attività sperimentali e di realizzazione pratica delle conoscenze e delle abilità perseguite; per Storia si può prevedere l’analisi e l’interpretazione dei documenti, anche nella forma della multimedialità, che sfoci in materiale di consultazione/ presentazione di periodi storici, anche per altri; per Italiano si può progettare una Biblioteca, in cui all’attività di lettura facciano seguito occasioni di schedatura, di manipolazione dei testi originari, di predisposizione di percorsi di lettura/ascolto per i compagni più piccoli della scuola, ecc. Esempi. Senza pretendere di soffermarsi sulle attività caratterizzanti tutti i Laboratori, può bastare, come esempio, ricordare che il Laboratorio di Attività Espressiva può essere il momento in cui l’allievo riunisce i diversi tipi di linguaggio che ha imparato a conoscere (verbale, orale, scritto, visivo, gestuale, musicale, artistico, …)(finora cosa si è fatto?! Santo cielo, cosa resta da fare al docente della classe, in classe? Come si vuole che noiosamente insegni chi non gestisce i laboratori?! Al docente della classe resterà forse l’insegnare in modo meccanico tabelline e grammatica?), ed utilizzarli con una precisa intenzione comunicativa che può trovare realizzazione in uno spettacolo teatrale, in una mostra, nell’arredo pittorico della propria aula o della scuola, in una campagna pubblicitaria ecc. Analogamente, nel Laboratorio di progettazione si possono prevedere percorsi formativi interdisciplinari in grado di mettere realmente in gioco le competenze acquisite dagli allievi e di promuoverne di nuove. Si pensi, per esempio, a progetti operativi legati alla tutela ambientale, alla educazione alimentare, all’educazione alla salute, all’educazione alla cittadinanza…, laddove la semplicità delle operazioni da compiere non si traduce in banalità ma, anzi, favorisce l’acquisizione di una logica di lavoro corretta che pone criticamente l’alunno di fronte ad un problema e gli fornisce l’opportunità di progettarne prima e di verificarne poi la più o meno soddisfacente soluzione. Una cura particolare merita il Laboratorio di Lingue. In esso si possono ovviamente prevedere attività di Gruppo classe riferite all’apprendimento della lingua italiana, ma diventa indispensabile utilizzarlo per l’apprendimento della lingua inglese. Il Laboratorio, in questa direzione, potrà essere affidato alla responsabilità della maestra specialista che, a seconda dei livelli di maturazione degli allievi e della natura delle attività a volta a volta proposte, potrà lavorare con profitto sia, in alcuni momenti, per Gruppi classe, sia, per lo più, per Gruppi di livello o di compito interclasse. Non meno importanti i Laboratori di recupero e sviluppo degli apprendimenti (Larsa). Poiché non tutti i ragazzi necessitano di tempi uguali per gli stessi apprendimenti, né godono delle stesse opportunità familiari ed ambientali per acquisire gli obiettivi formativi stabiliti da ogni Istituzione scolastica, è indispensabile l’intervento di una funzione compensativa della scuola: dare di più a chi ha di meno e dare meglio a tutti. Occorre perciò utilizzare uno strumento flessibile come il Laboratorio che permette di personalizzare i processi di apprendimento e di maturazione, nella piena consapevolezza che spesso non è necessario agire sulla quantità ma sulla qualità e sulla pluralità piuttosto che sulla ripetitività del metodo (non è sempre vero che con tanti esercizi di riflessione sulla lingua, si migliora l’abilità linguistica di un alunno in difficoltà, a volte occorre un approccio metodologico diverso, un ambiente d’apprendimento meno affollato, l’utilizzo di un diverso tipo di intelligenza, un rapporto relazionale diverso, …). I Larsa possono essere assegnati al docente Tutor (soprattutto nei primi anni) oppure possono essere progressivamente affidati a docenti che si specializzano anche sul piano scientifico sul tema del recupero e dello sviluppo degli apprendimenti (tutte/i le/i docenti devono avere competenze in tal senso e se le sono anche create con anni e anni di aggiornamento "volontario e non" , per gestire intere classi.). Nei Larsa non sono da escludere, previa accurata organizzazione dei docenti, forme di mutuo insegnamento tra gli allievi più esperti e principianti, e le differenti formule che oggi contraddistinguono le pratiche della peer education e del cooperative learning. Nella maggior parte dei casi, infatti, i tutelati non solo non sviluppano nei confronti dei loro compagni riconosciuti più competenti alcuna dipendenza cognitiva, ma traggono molto profitto dalle spiegazioni. I tutori, per converso, non perdono tempo, ma acquistano una comprensione più profonda della disciplina insegnata. Il reciproco insegnamento (apprendimento per consulenza o per collaborazione tra pari), inoltre, motiva maggiormente la comprensione intellettuale, l‘interesse emotivo, la partecipazione sociale e la ricerca di ulteriori livelli di approfondimento (è proprio così, ma dentro le classi e con tutta la classe, ci vorrebbe soltanto un numero adeguato di bambine/i per classe, ma questo costa, vero?!) Valorizzare le differenze. Ciascun allievo porta a scuola tutto l’intreccio di affetti, emozioni, conoscenze, esperienze e relazioni che costituiscono la sua cultura, e quindi la sua identità. Un’identità per certi aspetti di tipo spaziale, per altri temporale; per alcuni aspetti legata alla famiglia e alla tradizione, per altri alle più radicali discontinuità del virtuale e dei messaggi massmediologici più o meno adulterati; da una parte di tipo collettivo, dall’altra di natura individualmente stilistica, emozionale, corporea. Proprio a scuola, ogni allievo ha la possibilità non solo di scoprire le varie sfaccettature della propria identità, ma anche di sperimentare concretamente quelle degli altri, con compagni provenienti da altre regioni e da altri Paesi del mondo, con altre storie, altri modi di vivere e di raccontare la diversità tra maschi e femmine, il temperamento, il carattere, le capacità personali ecc… Davanti a questa ineliminabile condizione di molteplicità si aprono due strade: quella dei tentativi di riduzione forzata ad un’unità omogenea ed uniforme, tipica delle culture e delle appartenenze chiuse e totalizzanti; quella che, invece, prende atto delle diversità, le tematizza e le trasforma, attraverso l’incontro, la ricerca e la reciprocità, in una ricchezza comune (proprio così, allora facciamo in modo che la classe rimanga il luogo in cui allacciare stabili e solidali relazioni, il luogo in cui le piccole persone siano sicure di poter valere indipendentemente dai livelli e dalle differenze!). La Scuola Primaria è chiamata ad intraprendere questa seconda strada. Si tratta, quindi, anzitutto, di rendere consapevole il fanciullo della circostanza di avere già di per se stesso un’identità frutto della combinazione unica e differente di percorsi e di storie diverse, vicine e lontane, personali e familiari, di gruppo e sociali. In secondo luogo, si tratta di fargli toccare con mano quanto la circostanza sia comune anche a tutti gli altri, per cui consolidare la propria identità, in questo contesto, non può semplicemente significare un’estensione di quella personale a quella altrui, di ciò che è prossimo a ciò che è remoto, oppure di ciò che è più forte a ciò che è più debole, oppure ancora la semplice addizione di stili e modi di vita differenti ma incompatibili, bensì intraprendere un percorso più lungo e costoso che, tuttavia, si presenta anche come efficace sul piano personale e sociale. È il percorso della riflessione sempre aperta sul gioco delle affinità e delle differenze reciproche per elaborare senza semplificazioni, in un processo mai terminato di comunicazioni e di aggiustamenti, un modo di essere se stessi e di stare con gli altri che trasforma il riconoscimento delle differenze in opportunità di affermazione personale, di relazione e di interdipendenza sociale, di ricerca culturale e scientifica e di responsabile scelta morale. Iniziano qui i primi apprendimenti della Convivenza civile che ha tra i suoi scopi proprio la maturazione di comportamenti improntati al rispetto, alla solidarietà, all’integrazione sociale, tramite l’incontro con e la conoscenza dell’altro. La logica del positivo. Se si assume l’ottica che ciascuno di noi è "diverso" dall’altro, con i suoi pregi e i suoi difetti, le sue potenzialità e i suoi limiti, le sue divers-abilità si ribalta la logica con cui si è tradizionalmente guardato ed affrontato il problema della diversità nella scuola e, in questo contesto, il tema particolare dell’handicap. Non è più questione, infatti, di integrare nessuno in una astratta normalità che poi si traduce in propensione all’uniformità, bensì di valorizzare al meglio le dotazioni individuali, escludendo qualunque modalità stereotipata di approccio alla pluralità di situazioni e di prestazioni che caratterizzano ogni essere umano. Le diversità di ciascuno, in altri termini, segno di una possibile ricchezza per tutti nel momento in cui ciascuna fosse ottimizzata e impiegata, con creatività, come intenzionale contributo ad un’inclusione sempre più ampia e ad un’affermazione di sé sempre più congrua nel mondo e nella società. Per questo non bisogna mai definire nessuna persona per sottrazione: non ha, non sa, non sa fare, non può fare questo e quello. Tanto meno indulgere a questa propensione con i soggetti in situazione di handicap. Non è mai la carenza di alcunché, infatti, che può contraddistinguere chiunque, ma la sua capacità di sentire, di fare, di agire e di pensare nell’unico suo modo specifico e personale. È da qui, dal positivo, dunque, che si inaugura l’educazione che non è poi altro che lo sviluppo dell’unità e dell’integralità di se stessi a partire dalle capacità unitarie e integrali che si possiedono e, quindi, a partire anzitutto dall’accettazione globale di sé. Sapienza didattica è assecondare questo percorso evolutivo che consente a ciascuno di essere un tutto, una persona integrale, pur potendo sempre contare al meglio soltanto su alcune parti di sé; e di scoprire che la persona integrale, come ogni tutto, è per definizione una miniera inesauribile di risorse e di energie, perciò mai ‘sfruttata’ fino in fondo e una volta per sempre. Per questo, in fondo, così sorprendente e generativa da affermarsi perfino quando i limiti e i condizionamenti sembrerebbero comprimerla in maniera invincibile. Handicap e cultura pedagogica. Collocare in questo quadro teorico il problema degli allievi in situazione di handicap nei Gruppi classe e nei Gruppi di livello, di compito ed elettivi significa revisionare alcuni stereotipi. In particolare, serve a condannare il facilismo didattico giustificato con il moralismo pedagogico. Questi atteggiamenti rischiano, infatti, di tenere il processo di apprendimento di questi, come di qualunque altro allievo, fermo ed immobile, prigioniero di un pensiero improntato al timore del rischio, alla cultura dell’autoconservazione, all’oblio del generale principio secondo il quale l’integrazione di chiunque nello spazio simbolico della cultura e nelle relazioni tipiche della Convivenza civile richiede innanzi tutto una pedagogia della speranza (molto simile a quella genitoriale) che proietta con fiducia gli allievi verso positive prospettive personali di vita e rispetta la loro dignità di uomini che si immaginano e si costruiscono il futuro, a partire dal proprio. Collocare il problema degli allievi in situazione di handicap nel contesto di una generale valorizzazione delle differenze, inoltre, serve anche a condannare le fughe tecniciste, siano esse di tipo psicologizzante oppure riabilitativo e medicalizzante. Queste prospettive, infatti, sono più etiologiche che prospettiche; guardano più alle cause che ai fini; colgono e lavorano più sui deficit che sul positivo di ciascuno. Privilegiano, insomma, nell’accostarsi alle persone, lo sguardo della parzialità più che quello della integralità, com’è e deve essere quello educativo. Ora, è doveroso confrontarsi con i Profili dinamici funzionali (soprattutto se non ripropongono gli assi dei tradizionali manuali diagnostici statistici per le malattie della mente). Né è di per se negativo avere nel Pei di un allievo in situazione di handicap documenti di natura medico-riabilitativa. Ciò che pare importante, però, è non fermarsi a questo punto, ma affermare la specificità dello sguardo pedagogico; sguardo che, pur partendo da prospettive parziali, punta sempre, come si anticipava, a sollecitare un progetto di vita globale per la persona che c’è, nella sua unità e globalità, consapevole che essa è in divenire e possiede comunque risorse originali, sorprendenti e creative che è professionalità scoprire e valorizzare in prospettiva educativa. Il caso dislessia: oltre il sintomo.Il discorso si ripete, per esempio, a proposito di quei ragazzi che pur essendo intellettualmente dotati nella media, se non, spesso, oltre la media, sono, tuttavia, affetti da dislessia, disgrafia, discalculia fino alle disprassie e alle disritmie. L’insistenza sul sintomo o, ancora peggio, il suo mancato riconoscimento soprattutto dopo il primo biennio, rischia di creare notevolissime difficoltà all’allievo. Nel primo caso gli crea prima ansia da prestazione e poi frustrazione e autosvalutazione. Nel secondo caso, scambiando per negligenza o pigrizia ciò che è invece da addebitare a precise cause di natura neurologica, gli determina addirittura un vero e proprio blocco della volontà di apprendere, così sprecando un’intelligenza che era vivida e perfino superiore. Se il successo nell’apprendere è la motivazione più importante ad apprendere per chiunque, è naturale che occorra costruire per questi allievi un setting pedagogico che li ponga nelle condizioni di sfruttare la pur notevole intelligenza di cui sono dotati. Sarà allora necessario non solo poter contare su una precisa diagnosi prodotta da specialisti (neuropsichiatra, logopedista) per riconoscere il disturbo, ma anche, per non dire soprattutto, aggirare la didattica del sintomo (d’accordo, ma cosa significa in pratica? Se la famiglia non dovesse dare il suo assenso a un aiuto di tipo specialistico al manifestarsi del disagio, le/i docenti e la scuola cosa dovrebbero fare? Potrebbero interpellare in tempo sufficientemente utile e, senza il consenso, gli specialisti in questione? Una risposta coraggiosa a questo annoso problema andrebbe data, perché spesso le famiglie tendono a sottovalutare questo tipo di disagio e a intervenire in grave ritardo) Infatti, se la competenza nella lettura e nella scrittura è indispensabile nell’apprendimento di tutte le discipline, ma, allo stesso tempo, se è proprio su questa competenza che i soggetti con queste particolari patologie non riescono ad avere successo, è gioco forza chiedere alla scuola di trovare canali d’apprendimento diversi dalla lettura ad alta voce, dalle verifiche scritte, dalla copiatura di testi o di consegne ecc., ma molto più basati sulle dimensioni multisensoriali dell’operare, del toccare e del vedere. Per esempio, bisognerebbe adoperare calcolatrici, registratori, videoscrittura con correttore ortografico incorporato, sintesi vocali, schemi e sequenze iconiche. Oppure, bypassando ogni riferimento alla lettoscrittura, agire sulla pura costruzione mentale, modalità di apprendimento, come è noto, che sta nella parte più alta di qualsiasi tassonomia delle capacità cognitive. In questa direzione, è necessario, allora, sostituire l’insegnamento nel Gruppo classe, di solito standardizzato, con attività più mirate in Gruppi di livello, di compito ed elettivi nei quali si possano opportunamente differenziare per i diversi soggetti le strategie didattiche. Oppure bisogna procedere all’insegnamento nel Gruppo classe, adoperando però per tutti o le strategie di apprendimento multisensoriali piuttosto che linguistico-astratte, o quelle altissime che aggirano la lettoscrittura. Nell’uno e nell’altro caso, comunque, andare oltre la didattica del sintomo per assumere quella globale della persona, vuol dire assicurare a ogni allievo un rapporto individuale costruttivo, l’abitudine a prendere sul serio i suoi problemi, a provare comprensione e solidarietà, a creare un clima di fiducia e serenità, a non confondere mai il giudizio sui risultati di un lavoro con quello relativo alla persona che l’ha svolto. Inoltre, intervenire con tutti con opportune strategie metacognitive e di orientamento, ovvero aiutare ogni allievo a riflettere sulle modalità di apprendimento che preferisce, insegnargli le tecniche specifiche attraverso le quali può migliorare il suo apprendimento, guidarlo a comprendere le proprie capacità e ad impiegarle al meglio proprio per costruire un proprio progetto di azione che dia senso al suo lavoro scolastico, sostenere la sua autostima e irrobustire la sua sicurezza. L’apprendimento, infatti, non è soltanto una questione di abilità specifiche, ma riguarda sempre la totalità delle dimensioni umane (passaggio molto bello).
|
La pagina
- Educazione&Scuola©