|
|
Prove INVALSI, altro giro
di Gabriele Boselli, consigliere CNPI
Fra qualche mese vi sarà un ulteriore giro di prove INVALSI. Come accade
da molti, troppi anni anche con altre operazioni scientificamente
discutibili, saremo disciplinati: gli ispettori (i pochi rimasti)
sovrintenderanno, i dirigenti organizzeranno, gli insegnanti
assisteranno. Socrate insegna che alle disposizioni dello Stato il
funzionario deve comunque obbedire, pur rendendosi conto dei loro
effetti; salvo sottoporle poi, dopo attento studio, a critica
epistemologica ed etico-politica.
Salvo novità, i tempi per compilare le schede saranno ristretti e i
quesiti difficili per chi non ha ben sviluppato il pensiero convergente.
L’anno scorso chi scrive non riuscì a espletare tempestivamente il test
di lettura per la seconda elementare e altri test lo misero a dura
prova. Ricordo per la secondaria di I grado un triangolo inserito in un
cerchio che fede impazzire due accreditati docenti di matematica.
Alla fine, anche questa volta saranno probabilmente
diffuse dai media sintesi assai negative sul valore della scuola
italiana, in quanto derivate da test che avranno tenuto
conto
solo degli aspetti più facilmente valutabili del rendimento scolastico,
quelli esecutivi, automatici o in cui comunque la capacità di pensiero
critico e creativo,
in un'ottica di visione seriale e
pseudo-oggettiva dei processi educativi, non ha spazio.
Una lettura attenta
dei testi originari di simili importanti (in
quanto hanno una grossa portata nell’orientamento dell’ opinione
pubblica) ricerche di sistema
mostrerà magari una rappresentazione dei
fenomeni più complessa ma pochi leggono le ricerche in originale e il
danno d’immagine sarà comunque compiuto. La responsabilità morale degli
autori di una ricerca non è peraltro limitata a quel che dicono ma anche
a quello che senza alcuna avvertibile smentita lasciano dire.
Dovere di confronto e di critica (analisi e riscrittura secondo valori)
L’essenziale – è nota la frase di A.De Saint
Exupery - “è invisibile agli occhi”. Ma il sistema vive esclusivamente
nel visibile e ne richiede imperiosamente un qualche simulacro. E'
dunque vero che qualcosa in materia di valutazione occorre fare: ma
sarebbe necessario che venisse fatto disinteressatamente, onestamente,
rigorosamente. Questo comporta per i
soggetti che non hanno gravosi interessi politici o economici e che non
devono rendere conto a nessuno delle proprie posizioni scientifiche una
presa di distanza rispetto alla macchina dei test “oggettivi”. Peraltro
stanno arrivando nelle professioni e nella scuola gli studenti a suo
tempo selezionati attraverso test
per l’accesso alle facoltà con questa
pratica perversa: bravi quando si tratta di compilare stampati o di
esercitare pensiero replicante ma mediamente scadenti per tutte quelle
attività in cui occorre capacità critica, attenzione a tutto campo,
fantasia, inventiva.
Questi meccanismi di valutazione, di derivazione
IEA e perseguenti metodologie non ermeneutiche abbandonate nei paesi ove
furono inizialmente applicate, sono comunque da prendere in
considerazione in quanto indicative dei loro presumibili effetti nel
condizionamento dell’opinione; occorre d’altra parte
esservi attenti in quanto sono spesso ricche
anche di dati utili a valutare quelle attività scolastiche in cui viene
posto in atto il pensiero convergente e immediatamente operativo.
Consapevolezza degli scenari epistemologici
Entro questo scenario, l’argomento che occorre affrontare è quello della
particolare visione della scientificità che va messa in opera, anche
perché da un punto di vista fenomenologico una valutazione “oggettiva”
che pretendesse di avere valore complessivo appare impossibile.
In ogni campo, i risultati di una ricerca sono
spesso (a volte in gran parte) il prodotto dei presupposti metodologici
e dei modelli quanti/qualitativi espliciti e impliciti.
Le
impostazioni della ricerca determinano gli esiti.
Quel che in una piccola ricerca è una frequente eventualità, in una
ricerca che richieda grossi finanziamenti e apparati stabili (es.
OCSE/PISA, INVALSI) occorre che i risultati siano, se non utili, almeno
compatibili con il sistema. E gli interessi deontologicamente mal
controllati uccidono la verità del valore (autenticità e autorevolezza
dell’attribuzione del valore), se mai questa esista.
Si tratta a mio avviso di costruire una valutazione
non appiattita sugli stereotipi di ricognizione/interpretazione degli
eventi che possono conseguire alla seriabilità delle procedure di
ricerca, delle pratiche di elaborazione, di pubblicizzazione. Secondo un
tipo di
valutazione fenomenologicamente impostata
entro l’area delle scienze dell’uomo, non ci sono oggetti, solo
soggetti. E l’intersoggettività esclude approcci oggettivistici come di
soggettivismo chiuso, concilia i termini dell’atto valutativo. Non sarà
mai applicazione di un metodo completamente preesistente. Il campo di
valutazione non può non essere posto in relazione esplicita con il
metodo impiegato per studiarlo. Se di fronte a me sta una scuola,
o
una banca, un sistema giudiziario, un mercato non posso comportarmi come
fossero la stessa cosa. Poichè di fronte a me vedo fenomeni e non cose
in sé, devo percepire quanto distino da me e non farne oggetti seriali
interscambiabili nelle procedure di cognizione con qualsiasi altro
oggetto; devo sì inter- rogarli, ascoltare quel che mandano a dire,
cercare di coglierli nella loro singolarità, nella loro essenza
costitutiva. Ma anche rendermi conto che non vedo ciò che è, ma solo ciò
che, anche onestamente, posso vedere, ciò che la comunità dei
ricercatori può vedere.
Valutare è comunque difficile
Se le grandi e costose ricerche di sistema sono
investimenti finalizzati della committenza pubblica e privata (sappiamo
che ormai la differenza è minima, data l’ampia privatizzazione
sostanziale del pubblico) anche le ricerche libere non possono
pretendere di essere meri rispecchiamenti di valori intrinseci
all’oggetto. Nemmeno una libera comunità di ricercatori senza padrone o
committente (un padrone a tempo determinato) può pensare di giungere al
vero, di valutare non quel che le appare, ma ciò che è.
Sta comunque entro un orizzonte di valori,
una rete di aspettative che fan sì che niente sia meno evidente
dell’evidenza e che l’evidenza sia solo quella visibile dalla propria
finestra.
Anche la ricerca più onesta –se ha dignità e
diritto di essere orgogliosa- deve conservare umiltà: non considererà
mai i suoi risultati universali e necessari, tantomeno “oggettivi”.
Potrà mirare a
risultanze dichiaratamente relative e plausibili,
almeno in potenza intersoggettualmente accettabili.
La pratica di valutazione che auspichiamo è
volta ai fenomeni, non ai fatti; un
discorso indagante che assume i dati ma guarda anche sotto gli stessi e
oltre, consapevole della prossimità di questi a una radice ignota.
Aspira a un’intelligenza dell'oggettualità (senza l'oggetto, anche il
soggetto si disperde) senza pretendere di essere semplice replica
formalizzata dell'oggetto; vi è protesa ma è consapevole della
impossibilità di farlo rientrare “oggettivamente” nel proprio pensare.
Le intenzioni determinano gli esiti
Certo, se la valutazione dei risultati non ha
adeguata struttura epistemologica, se la committenza non è interessata
alla verità ma alla produzione di materiale per argomentazioni
persuasive, la valutazione diviene uno strumento di pura gestione del
potere: se sei una scuola, ti valuto
per l'efficacia della rappresentazione che
–a suon di test e di slides- sai rendere credibile nel pubblico; se sei
un insegnante o un dirigente
ti valuto non per quel che sai e sai fare ma
per il lustro che deriva dalla tua presenza e per l'obbedienza che mi
presti. Se persegui valori diversi da quelli che mi sono utili non
considererò i dati che li riguardano.
I dispositivi di valutazione servono allora
per condizionare il pubblico nella sua
fiducia verso le
scuole; la pratica di
valutazione del docente serve per convincere
magari anche il docente stesso che forse è pagato poco, ma anche troppo
per quel che vale.
Continuando il lavoro di “Una valutazione possibile”, credo occorra
proseguire con rinnovata lena nella costruzione secondo il metodo
fenomenologico/ermeneutico di una teoria della valutazione generativa di
pratiche rigorose di ricerca; su questa poi si farà perno per sistemi di
rappresentazione al pubblico che rendano giustizia al grande valore
della nostra scuola e dei nostri insegnanti. Magari a costo di esser
partigiani come quelli dell’altro fronte.
L’impegno ha anche rilevanza politica: se non vi è
un modello di valutazione scientificamente fondato (oltre che
generalmente rispettato, se non condiviso, dalla comunità degli studiosi
e dei docenti) valutare diviene un'arma contro la libertà
d'insegnamento.
Un apparato retorico.
Il tentativo potrebbe invece essere quello di
elaborare scenari ed elementi progettuali per una teoria della
valutazione che consenta di produrre non fatti politici (ricerche da cui
trarre plausibilmente documenti da portare sui media a suffragio di
interessi) ma
atti scientifici.
Occorre individuare esplicitamente i principi del metodo d'indagine
e i processi configurativi, induttivi e deduttivi di costruzione
teoretica e attuazione pratica. Per mettere il tutto a disposizione di
chi proverà a valutare insegnanti, dirigenti e scuole o di chi sentirà
il bisogno di strumenti epistemologicamente fondati per difendersi da
valutazioni basate su modelli di “scientificità” e operazioni sempre più
avvertiti da chi lavora nelle scuole come alieni.
Per leggere:
AAVV
Una
valutazione possibile
La
Nuova Italia |
La pagina
- Educazione&Scuola©