Le Indicazioni nazionali allegate al D.lgs 59/94 hanno
introdotto nella normativa primaria il concetto di Unità di
apprendimento.
L’introduzione a livello legislativo di caratterizzazioni
pedagogiche ha portato la comunità scolastica ad interrogarsi sia
sulla liceità di un simile inserimento, come allegato ad un decreto
legislativo, sia sulla reale portata di questa innovazione nel
panorama della didattica, soprattutto in riferimento alla scuola
primaria. Con l’emanazione del D.lgs 226/95 sul 2° ciclo
dell’istruzione il concetto di Unità di apprendimento è stato
riproposto senza alcuna variazione. Per l’attuale parte politica al
Governo, nel futuro la scuola deve procedere per Unità di
apprendimento. Tutto questo sta generando apprensione e attesa,
perché la questione ha perso il suo valore espressamente didattico
ed educativo ed è diventata solo politica. La coalizione di Centro
sinistra ha dichiarato nel suo programma che abrogherà molta parte
della Riforma morattiana (alcune componenti di quella coalizioni
stanno ancora dicendo che va abrogata tutta e subito), mentre il
Centro destra ha stabilito per via legislativa che l’Unità di
apprendimento dovrà “accompagnare” l’alunno italiano in tutto il
suo percorso scolastico.
Apprendimento/insegnamento. Tutto l’impianto nato dalla legge
delega 53/2003 e dai successivi decreti applicativi si fonda sul
concetto di “apprendimento”, messo in contrasto – anche se mai in
forma esplicita – con il concetto di “insegnamento”.
La separazione dell’insegnamento dall’apprendimento è una questione
teorica che data da lungo tempo, tant’è che lo sviluppo di una certa
operatività nella scuola, la ricerca attorno alle competenze e alle
abilità (al “saper fare”), il difficile meccanismo
dell’individualizzazione degli insegnamenti ha cercato di porre
rimedio ad una dicotomia, a tratti troppo forte, tra ciò che nelle
scuole veniva insegnato e ciò che dagli alunni veniva appreso.
L’idea che il punto di arrivo del processo didattico sia l’Unità
di apprendimento non ci può far dimenticare che fino all’attuale
riforma nella scuola si è parlato per lungo tempo di Unità
didattiche.
Chi ha scambiato il concetto di Unità di apprendimento per
una sorta di maquillage di quello di Unità didattica
(un po’ usurato dal tempo) ha sottovalutato la profondità della
proposta, nata nell’ambito del gruppo di lavoro ristretto diretto da
Giuseppe Bertagna. L’impianto delle Indicazioni nazionali è
andato a sostituire sia i Nuovi programmi della scuola media
del 1979, sia ai Programmi della scuola elementare del 1985,
sia gli Orientamenti per la scuola dell’infanzia del 1991. Il
fatto che già il Regolamento per l’autonomia (D.P.R.
275/1999) avesse permesso di aprire la discussione su quelle
emanazioni ministeriali, di fatto abrogando i Programmi,
non ha aiutato il dibattito, perché poche scuole hanno utilizzato il
Regolamento dell’autonomia per ridefinire i contorni dei
saperi insegnati a scuola, delle abilità coltivate, delle competenze
verificate in rottura con il passato legato a Programmi
ministeriali declinati dalle scuole attraverso Programmazioni.
L’idea pedagogica, che sta alla base del modello riformato è molto
complessa, infatti la pedagogia di riferimento è una pedagogia a due
facce: la prima guarda verso i docenti e li invita a
“individualizzare”, l’altra guarda alle famiglie e chiede loro di
“personalizzare”.
Tra questi due segmenti di formazione si colloca dunque un’idea di
persona, che deve raggiungere il “successo formativo” (di cui parla
il D.P.R. 275/99). Alla base di questo successo formativo ci sta un
ideale di apprendimento, come elemento cardine dell’attività
didattica, che decide di non legarsi più in forma diretta
all’insegnamento. Il concetto di “persona” che sta nell’idea dei
Piani di studio personalizzati non è in contraddizione con il
concetto di alunno che si aveva nella scuola precedente. Il concetto
di “persona” nell’impostazione riformatrice è in contraddizione con
l’idea di “gruppo” inteso come comunità di apprendimento o come
comunità di ricerca. Che poi nell’ambito delle nostre scuole la
logica del gruppo (“gruppo classe”, “gruppo di studio”, “gruppo di
livello”, “gruppo di ricerca”, “gruppo di lavoro”, ecc.) sia
impossibile da sradicare è dovuto ad una forte solidarietà
pedagogica nata e sviluppatasi negli anni passati e che ha radici
profonde nella storia del secondo dopoguerra. E’ molto difficile che
una ridefinizione per via legislativa dei saperi possa andare a
toccare durature basi di prassi pedagogica.
Rendicontare la
didattica. Con l’introduzione delle Unità di apprendimento
la didattica italiana dovrebbe spostarsi dalla parte della
programmazione a quella della rendicontazione dell’evento
pedagogico. E’ un salto molto ardito, anche perché presuppone una
trasformazione della didattica seriale in didattica “epifanica” e la
trasformazione della programmazione preliminare in piano di lavoro e
di verifica progressiva degli apprendimenti dei propri allievi. Se
si divide la sequenza processuale proposta dalle Indicazioni
nazionali si vede chiaramente come i tre momenti costitutivi dei
Piani di studio personalizzati hanno una scansione piuttosto
autonoma tra di loro e solo la loro fusione permette una
sistemazione organica. Tra il punto di partenza del lavoro
programmatorio della scuola (la definizione degli Obiettivi
formativi) e quello finale (la declinazione delle Unità di
apprendimento) si stende il territorio degli Obiettivi
specifici di apprendimento, che sono già stati definiti dalle
Indicazioni come “livelli essenziali di prestazione” che le
scuole devono fornire ai propri allievi (ma che non necessariamente
gli allievi devono recepire in toto, visto che possono
personalizzare il loro percorso formativo), nella duplice
codificazione di ciò è conoscenza (colonna a sinistra degli OSA) e
di ciò che è abilità (colonna a destra degli OSA). Il far transitare
gli Obiettivi formativi all’interno di un terreno strutturato
significa costringere la progettualità a diventare il punto di
origine della fusione tra le esperienze personali dei ragazzi e
quelle professionali dei docenti.
Un altro elemento che distingue le Unità di apprendimento
dalle Unità didattiche è la loro totale apertura alla
trasversalità e alla transdisciplinarietà, perché il passaggio
attraverso i saperi divisi e gerarchizzati è già sancito negli OSA.
Sembra quasi che le Indicazioni nazionali assegnino alla
scuola riformata il compito di contaminare le conoscenze e le
abilità, dopo aver ordinato in forma arbitraria, ma sintetica, tutto
ciò che del sapere umano deve comparire nella formazione di un
bambino dai 6 ai 14 anni. Il meccanismo programmatorio delle
Unità di apprendimento ribalta completamente la didattica per
obiettivi, che partiva comunque da un programma di studi nazionale.
Nelle Indicazioni nazionali non c’è il programma e compare
invece l’invito a gestire il sapere per grandi aree, utilizzando gli
Obiettivi formativi come una coperta da stendere sulle varie
declinazioni del sistema dell’istruzione. Se non ci può essere
apprendimento senza competenze, allora bisogna trovare il modo di
sposare le “buone pratiche” della scuola “modulare” o “media” del
passato con le esigenze di una didattica che punta solo su ciò che
può venir appreso e valutato. Il riferimento immediato è quello ad
alcuni spunti teorici di Edgar Morin, Jerome Bruner e Howard Gardner.
Dare coerenza
alla didattica. Per poter gestire al meglio le Unità di
apprendimento è necessario frammentare il meno possibile
l’attività didattica e cercare di raccogliere all’interno degli
Obiettivi formativi quelli che sono gli elementi caratterizzanti
della società attuale. E’ un lavoro molto complesso, perché rischia
di diventare obsoleto nel momento in cui viene codificato sulla
carta. Proprio l’evenienzialità dell’Unità di apprendimento
dovrebbe però venire in aiuto, in quanto permetterebbe una rapida
definizione di ciò che si lega allo specifico didattico di quella
data scuola e di quel dato ambito culturale. Il Piano
dell’offerta formativa e la sua stesura e approvazione da parte
del Collegio docenti
avrà sempre più uno scopo ordinatore e orientatore di quello che
sarà il processo di sviluppo culturale e didattico di ogni singola
scuola. Il Pof nasce dalla ricerca e dalla valutazione e non ha
momenti di stasi o di abbandono (non è un adempimento burocratico,
ma il vero e unico laboratorio della scuola nella sua evoluzione),
per questo permette di declinare Obiettivi formativi che
permettano di “aprire” gli OSA e quindi costruire delle Unità di
apprendimento, che siano il punto di incontro tra la scuola dei
programmi e degli obiettivi e la scuola delle esperienze personali.
Il Pof di ogni scuola è il punto di partenza per la creazione di un
reale “sistema degli apprendimenti”.
Se la didattica modulare della scuola elementare e quella coordinata
delle scuole medie avevano come obiettivo primario la reductio ad
unum delle varie metodologie e dei vari meccanismi valutativi,
la didattica delle Indicazioni nazionali cerca invece
un’unità nella diversità dei percorsi (appunto la
personalizzazione), non tanto attraverso cornici onnicomprensive,
quanto attraverso il trasferimento, nel progetto generale di ogni
scuola, delle singolarità nel loro sviluppo “storico” e “critico”.
Far convivere i due sistemi sarebbe molto faticoso e richiederebbe
sforzi programmatici che vanno al di là di quanto le scuole paiono
in grado di realizzare. Bisogna però stare attenti a non cadere
nell’evidente pericolo di appiattire tutta la didattica sugli OSA,
quasi che gli OSA possano essere dei “nuovi programmi” anche
se declinati in forma sintetica e non discorsiva. Non si tratta
insomma di trovare sotterfugi per poter continuare ad operare come
si è sempre fatto e come se nulla fosse accaduto, ma di non perdere
le “buone pratiche” e comprendere in che modo inserirle in un
sistema di progettazione curricolare fortemente mutato.
Unit of Learnig
Outcome. Il concetto di Unità di apprendimento si è
sviluppato in ambito europeo quando si è cercato di trasferire i
crediti da un sistema dell’istruzione o della formazione o
universitario da uno Stato all’altro. Appurata l’impossibilità di
trasferire i diplomi così come erano stati acquisiti nei vari Paesi
nell’ambito dell’Unione Europea si è fatta strada la certezza che
solo attraverso una certificazione delle conoscenze, abilità e
competenze (alte) realmente acquisite si sarebbe potuto raggiungere
un sistema trasparente e operativo di trasmissione delle persone
nell’ambito della società della conoscenza. Le Unit of Learning
Outcome devono dunque certificare le conoscenze (knowledge),
abilità (skills) e competenze (wider competences)
realmente acquisite dal soggetto e dunque inequivocabilmente
spendibili nel mercato della conoscenza. Questo meccanismo di
certificazione “a tasselli” permette di abbattere le tre barriere
relative alla società della conoscenza: la non accumulazione
di competenze acquisite, la loro non validazione e quindi il
loro non trasferimento. Attraverso la verifica delle Unit of
Learning Outcome si eliminano i tre “non” e si permette una
certificabilità spendibile.
Questo meccanismo trasportato nella Riforma Moratti ha prodotto un
blocco nella ricerca e un rifiuto dell’innovazione in chi si è
trovato a dover fronteggiare un sistema di certificazione che non è
stato capito nella sua derivazione, nella sua necessità, nella sua
attuabilità. Coloro che hanno pensato le Indicazioni nazionali hanno
poi fornito spiegazioni spesso confuse e certo molto complesse,
nell’ambito di un’idea di ologramma che è di tipo metafisico e
dunque va in controtendenza rispetto a molta parte della cultura
italiana. E il documento Lavorare per Unità di apprendimento
in vista dei Piani di Studio Personalizzati – L’uso dei Documenti
nazionali
ha mostrato con impietosa evidenza la teoricità e la complicazione
di un metodo di lavoro basato su esperienze che non sono italiane.
Saperi contaminati. La sistematicità
del processo di apprendimento può trovare forma compiuta con
l’abbandono della rigida divisione disciplinare coniugata attraverso
le materie inserite nelle ore. Sarebbe necessario giungere all’
un’integrazione dei saperi per la definizione delle competenze da
certificare e l’utilizzo delle abilità acquisite in forma veicolare
o strumentale. Non si scambi quanto sopra detto per un richiamo
utilitaristico alla prassi o all’economicità del sapere, ma si
cerchi di vedere - se è possibile - il tentativo di passare da un
sistema di saperi gerarchizzati ad un sistema di saperi contaminati.
Forse è possibile che il passaggio
elettorale non crei ulteriori traumi alla scuola italiana se questa
farà intendere una capacità di contaminazione tra due idee diverse
di organizzazione scolastica. Se il DPR 275/99 apriva verso una
sistematica individualizzazione dei percorsi formativi (parlando di
Obiettivi specifici di apprendimento, di ore opzionali, di scelta
delle famiglie, di doppio canale), la legge delega 53/2003 ha aperto
– con terminologia analoga - ad un’idea di personalizzazione che
tenta di “acchiappare” lo spirito del tempo. Bisognerebbe cercare di
raggiungere, attraverso la contaminazione, un modello unitario, che
contempli la possibilità di integrare l’insegnamento e l’apprendimento,
l’unità didattica e l’unità di apprendimento, l’individualizzazione
dell’insegnamento e la personalizzazione del percorso
nella ricerca di un’uscita decorosa se non virtuosa da un tortuoso
percorso di riforma.