|
|
Ripensare la scuola
Nel corso del tempo di una carriera iniziata negli anni ’70, chi ha avuto l’onore di affiancare schiere di alunni e alunne nel difficile e indispensabile sforzo dell’apprendimento ha potuto studiare, conoscere, applicare, non applicare, diversi stili metodologici, educativi, teorie e sperimentazioni, concezioni mutevoli di approccio relazionaleconsigliate, o enunciate da esperti a vario titolo, sostenute da Dirigenti e Ispettori, aggiornatori provenienti da associazioni e università. Inoltre ha potuto agire con la massima libertà d’insegnamento creando e reinventandouna didattica vivace tramite un vero e proprio artigianato magistrale forgiatosi nell’impatto dolce e forte insieme con infanzie più o meno facili, più o meno fortunate, spesso, soprattutto nelle grandi città, deprivate economicamente e culturalmente, le quali convivevano, nella scuola statale, con altre provenienti da ceti medio alti e alti. Una palestra, la scuola, di vita per tutti. Ricchissimo è stato il panorama, mai uguale a se stesso. Si sono
abitati tanti mondi possibili nonostante i luoghi fisici
dell’apprendimento siano, purtroppo, rimasti immutati fino a diventare
in molti casi fatiscenti. Eppure la fatiscenza delle strutture, più o
meno evidente, non ha impedito ai gradi “bassi” dell’istruzione di
essere grandi e rinomati fuori dai confini nazionali. Non mi interessano
le obiezioni e osservazioni ministeriali che non sono mai state generose
di riconoscimenti, che, anzi, spesso al contrario, hanno messo il
bastone fra le ruote dell’ingranaggio fino a disconoscere le buone
pratiche anziché incentivarle. Tralascio di riferirmi ai tagli impietosi: ognuno che per un
qualsiasi motivo e con un qualsiasi ruolo alberghi nella scuola li
conosce bene. Voglio invece dire di scuola, di come la vorremmo, di
quella buona che è stata ed è ancora in parte…essa è rimasta sconosciuta
ai ministeri, i quali, ovviamente, come ogni ignorante che si rispetti,
hanno gettato via il bambino con l’acqua sporca. Il non conoscere, anzi
avere la presunzione di sapere a priori ciò che accadeva, e a volte
ancora accade nelle realtà, li ha indotti nel grave errore di far
politiche dissennate che hanno colpito soprattutto dove non dovevano,
facendo trionfare viceversa la superficialità, il buon sensismo, la
meccanicità dell’insegnamento, un cattivo utilizzo dei tempi, la fretta,
sistemi di valutazione tranchant (comodi per la velocità, ma
assolutamente riduttivi e inutili per fronteggiare la dispersione) e via
dicendo. Vorrei quindi fingere che i ministeri e i loro tagli a risorse e
Programmi non siano mai esistiti e vorrei parlare della scuola
dell’utopia che resiste ancora (per quanto?). La docenza Intanto, la tanto temuta (da chi ci guida dal quartier generale)
libertà di insegnamento è fondamentale sia garantita, perché soltanto
incentivando il pensiero autonomo dei docenti, essi possono liberare le
loro energie intellettuali in più direzioni, anche inesplorate, per
affrontare le sfide del presente. L’aggiornamento dovrebbe essere sostenuto e potenziato sempre e
comunque, con un’attenzione rigorosa sia alle novità in campo disciplinare, sia a quelle particolari
dei docenti e del territorio in cui essi lavorano. Tuttavia l’aggiornamento in sé sarebbe poca cosa se non si
attivassero periodi di ricerca applicata dentro le scuole, durante i
quali i docenti dovrebbero poter confrontare sia le teorie sia le
pratiche, dovrebbero poter discutere, conversare, condividere o
scegliere percorsi diversi da verificare in corso d’opera e alla fine.
Una consuetudine siffatta motiverebbe alla relazione fra adulti,
creerebbe un sistema di controllo del sé e dell’altro in azione, un
controllo sull’ambiente, sul clima e sulle scelte di progetti
integrativi dei percorsi fatti. Una docenza serena che non teme l’errore è di primaria importanza per
garantire il travaso di esperienze culturali e didattiche positive. Non
bisogna negare, infatti, che spesso nella scuola si teme il confronto,
ma ciò non è dovuto alla mancanza di un sistema esterno di valutazione.
E’ dovuto invece a un ritorno all’individualismo spinto, causato dalle
politiche scolastiche, a far tutto in proprio, vedi il revival del
maestro unico impegnato sulle materie “principali”, o peggio, del
maestro prevalente su una rosa di altri che coprono le “ore buche”
dediti a materie ormai ritenute “secondarie”. Ci sono situazioni in Italia che hanno visto, nell’anno scolastico in
corso, fino a 10 docenti impegnati nelle prime classi col cosiddetto
maestro unico o che dir si voglia. Che i Dirigenti siano stati costretti ad avallare tale stato di cose
è un dato di fatto, ma che ciò sia inconcepibile per una scuola che ha
sperimentato altri modelli ben più positivi e di valore è altrettanto un
dato di fatto. La favola del bambino che ha bisogno di un unico punto di riferimento
non è più creduta da alcuno, tuttavia anche quella di un presupposto
“divertissement” con una
miriade di adulti che saltano da un’ora all’altra, da una classe
all’altra, è assolutamente ridicola. Anzi, è alquanto pericolosa sia per
gli alunni sia per i docenti impegnati nella “giostra”. La questione della validità del teamteaching è stata a lungo
dibattuta ed è sempre controversa. Tuttavia la scuola dei cosiddetti
moduli si stava attestando su un buon livello di organizzazione
flessibile e plasmata sulle differenti richieste, quando su di essa si è
abbattuto il ciclone dell’ultima riforma. E tutto è stato spazzato via
in un sol colpo per lasciare il posto a traballanti sistemi senza un
senso condiviso e ricercato. Il vuoto metodologico ha sostituito
l’invisibile ragione della pedagogia e quella altrettanto invisibile
della psicologia dell’età evolutiva…Possibile che per ciò che riguarda
la scuola non si riesca a trovare un equilibrio in questo Paese? Il team docente delle tre aree, linguistica, scientifica,
antropologica, affiancato eventualmente dallo specialista in lingua
straniera, era quanto di più culturalmente equilibrato si potesse
trovare. E’ vero che si erano viste alcune storture nell’organizzazione
e nell’applicazione del modello di alcune scuole. E su quelle si sarebbe
dovuti intervenire, non su tutto il territorio e in modo indiscriminato.
Il rischio della secondarizzazione, della frammentazione dei saperi, di
orari non ben calibrati, c’era. Eppure, se si fosse avuta la pazienza
istituzionale di entrare con uno sguardo benevolo nello specifico di
realtà funzionanti, si sarebbe potuto evitare il più grave balzo
indietro che la storia della scuola italiana ricordi. Stessa cosa per il tempo pieno. Invece di incentivarne le qualità
positive di scuola laboratorio, si è puntato il dito sulle esperienze
che si ritenevano di scarso valore per spazzare via tutte quelle
positive che avevano addirittura “salvato” l’Italia delle famiglie
impegnate con il lavoro a costruire il futuro del Paese. Le bambine e i bambini Non sono una categoria e nemmeno un sindacato! Lo dico perché è avvilente leggere su di loro sempre le stesse cose.
Una minestra riscaldata che nessuno vorrebbe mangiare, tanto meno gli
stessi bambini…che si conoscono eccome nelle loro diversità, e meglio di
qualunque opinionista che scrive sui giornali. Essi vengono dipinti come
iperstimolati, nativi digitali, tecnologici, svegli, facili
all’apprendimento…insomma piuttosto cognitivi…e…ricchi di ammennicoli,
quindi tutti figli di famiglia ricca, la quale li porterebbe senza
tregua ad attività pomeridiane sparse sul territorio… Senza dubbio ciò sarà anche vero in parte…ma molto in parte… Si chieda a un bambino qualsiasi la composizione tipologica della
propria classe e vi dirà alcune cosette: molti hanno paura del giudizio dei pari, altri temono di andare
in bagno da soli, alcuni se la fanno addosso fino alla seconda
elementare, tanti non si sanno allacciare le scarpe, diversi non portano
il materiale essenziale per lavorare, altri ancora tengono nello zaino
le merendine non consumate per mesi e mesi, alcuni usano le mani e le
parolacce per difendersi, non pochi si ribellano a qualsiasi
osservazione dell’insegnante, si irrigidiscono dinanzi all’errore, si
incupiscono…parecchi hanno un cattivo rapporto col cibo, alcuni sono
disarmati davanti alla più lieve ferita o a una caduta in giardino,
pochissimi hanno il computer a casa e quando ce l’hanno lo utilizzano
con i giochi dei livelli…, la condivisione dei giocattoli e dei
materiali è difficoltosa: l’espressione “è miooo” va oltre l’età
consentita. Le depressioni infantili sono in aumento, così come i disturbi della
letto-scrittura e del calcolo, ecc… Di contro i docenti più esperti sanno che quegli stessi bambini hanno
un mondo interiore complesso e ricco che spesso attende impazientemente,
anche in modo ribelle, di essere scoperto e valorizzato. Su questo non
ci sono dubbi. Ecco, probabilmente, l’analisi più corretta sarebbe
quella che tenesse in considerazione le estreme differenze di esperienze
pregresse ed extrascolastiche, di stili di apprendimento, di relazioni
familiari, di sistemi educativi in famiglia, dai più rigidi ai più
lassisti. Ecco, si potrebbe considerare che spesso il problema degli
inserimenti di alunni stranieri viene ingigantito, mentre andrebbe
analizzata più attentamente la composita situazione degli alunni
italiani che realmente riflettono la società in cui si vive, tanto
diversificata e stratiforme. A volte gli alunni stranieri rispecchiano
un mondo di regole e valori che era il nostro del dopoguerra e procedono sicuri e
veloci nell’apprendimento senza scossoni, mentre gli Italiani rivelano un’altalenante modalità di approccio
all’apprendimento, della serie “ora ti voglio ora no”. Quindi dobbiamo
tener presente che i luoghi comuni sui “bambini e le bambine di oggi”
devono essere lasciati sulle pagine dei quotidiani. Altrimenti succede
come a una giovane collega di mia conoscenza che è stupita per il
livello scarso di apprendimento e la maleducazione della “sua” classe,
perché non corrisponde al cliché che lei ha in testa. Addirittura è
convinta, senza ombra di dubbio, che le altre classi siano diversamente
sortite, quindi si sente sfortunata e malcapitata. Niente di più sbagliato pensare che l’apprendimento degli alunni sia
più veloce perché essi avrebbero un background già sviluppato di
informazioni di base… Le famiglie Anch’esse non sono una categoria o un sindacato! Sono multiformi oltre che multi colorate, multi religiose, multi
educanti e multiculturali. Esse producono diversi sistemi relazionali, i più vari e interessanti
da conoscere. Non c’è un unico modello, quindi vanno analizzate le loro
modalità educative e la ricaduta che hanno sui figli, i quali poi devono
stringere relazioni che per forza di cosa inizialmente sono
conflittuali. E se è vero che il conflitto fa crescere, è altrettanto
sacrosanto il ritenere che per gestire i conflitti in modo democratico
scuola e famiglia debbano comprendere che i tempi della costruzione dei
rapporti sono più lunghi, a meno che non si ritenga inutile il lavorare
in questo senso a favore di una scuola che concepisce ogni bambino col
suo banco e con i suoi strumenti di lavoro come una monade
autosufficiente. Le famiglie sono il trampolino di lancio più efficace per una
adeguata motivazione all’apprendimento, di conseguenza il rapporto che
si intreccia con esse deve essere saldo e franco. La franchezza e il
rispetto sono gli elementi essenziali per una riuscita del lavoro di
adulti e bambini. Lo spiegare per filo e per segno ciò che si fa a scuola e perché lo
si fa è importante, ma ancora più importante è il modo in cui si
spiegano le attività. E’ fondamentale che la famiglia sappia quale filosofia di riferimento ha il docente, che essa possa comprenderla e
“sentire” che il pensiero alla base dell’insegnamento è rivolto alla
crescita globale del bambino, è dalla parte dei sentimenti e
dell’intelligenza, che tale pensiero tiene in grande considerazione il
fornire gli strumenti per affrontare difficoltà e sfide della vita. Le
famiglie oggi sono tutte molto attente a come agisce la scuola, non per
il riscatto sociale (lo è ancora per gli extracomunitari) quanto per
l’opportunità che offre di imparare a vivere insieme, per superare le
fragilità, per impadronirsi di buoni mezzi per saper fronteggiare le
difficoltà, per destreggiarsi nel mare delle opportunità, per sedare le
ansie e i timori di non essere all’altezza delle situazioni, per mettere
ordine interiore di fronte a una realtà che spesso è rumore e velocità
d’azioni non ben ponderate. Il tutto condito e sostenuto da una cultura
di base buona. Un tempo non molto lontano erano le famiglie stesse a
occuparsi naturalmente di un’educazione alla vita, ora sempre di più
esse chiedono alla scuola di occuparsene: in parte, in alcuni casi, in
toto, in altri. Genitori
siamo noi stessi docenti così come lo sono gli altri. Ognuno di noi
adulti sa bene quali siano i tempi contingentati della vita lavorativa,
sa bene quale potere abbiano i media sull’immaginario giovanile e ancor
più quale sia l’attrazione dei pari sui singoli, in particolare dei
gruppi sui singoli. Il tempo dell’ascolto, del dialogo, della
conversazione, nel senso etimologico di cum versare, si è andato via via
assottigliando sempre di più. Una politica della scuola che tenesse
conto della realtà e fosse preoccupata dell’impatto che essa ha a breve
e a lungo termine sulle menti, dovrebbe proteggerla, sostenerla,
fornirle risorse costantemente senza tema di sprecare investimenti. I Dirigenti Che bello sarebbe averli sempre al fianco! Pronti a sostenere attività, a battersi per ottenere sovvenzioni e
per costruire insieme coi docenti momenti e periodi di ricerca. Il sogno di una figura pedagogicamente in grado di fare scuola e
contemporaneamente di sapere organizzarla in funzione del fare scuola
andrebbe reso realtà al più presto. Invece mi risulta che l’ormai
prossimo concorso per la carica dirigenziale sarà impostato con un bel
quizzone (di 100 item) preconcorsuale selettivo. Si dice che le domande principe verteranno sulla
normativa, quindi relative al diritto, alla sicurezza, al codice
disciplinare… Speriamo di no. Altrimenti ancora una volta si perderà l’occasione di
vedere emergere una figura professionale vivace pedagogicamente, con un
occhio attento alla didattica, ai docenti, alle classi, alla ricerca dentro la propria scuola, con
efficienti relazioni con il
mondo universitario dei saperi in evoluzione e con il mondo della
cultura in generale… Vedremo. Ora come ora, i migliori dirigenti hanno saputo barcamenarsi
nel bailamme di circolari, decreti, leggi e hanno saputo salvare il
salvabile proprio grazie alla solida cultura pedagogica che avevano alle
spalle. Chissà se domani, divenuti più funzionari che insegnanti,
sapranno rispettare il respiro della pedagogia. Fare scuola Fare scuola si deve con gli alunni e le alunne reali di cui ho
parlato in precedenza, con le loro famiglie reali, nella situazione che
vede povere economicamente sia l’istituzione sia le famiglie. Quando i materiali scarseggiano, si fa con quello che si ha. E quello
che si ha in primis è il pensiero. Proprio per questo, a scuola, sto creando un angolo dell’immateriale,
quello del pensiero…quello dell’astrazione; qualcuno si stupisce di ciò,
perché oramai si è abituati soltanto alle cose, cose più o meno sensate,
a volte anche molto sensate, ma pur sempre cose: si vuol vedere il
quadernone, il prodotto finito di cartone o di corda o di che altro non
so…, ma leggere i pensieri, le osservazioni spiazzanti delle bambine e
dei bambini è faticoso, richiede pazienza e soprattutto una grande
profondità che oggi è merce rara…Le bambine e i bambini non sono dal
punto di vista sintattico e formale immediatamente corretti (a volte sì,
e anche parecchio dopo che si è lavorato sodo sui libri e sui brani da
essi estrapolati!), eppure sanno porsi e porre domande… difficilmente
accettano risposte senza senso…Anzi, sono in grado di mostrare
subitaneamente quel disagio che molti adulti nella società mascherano, per quieto vivere o interesse, dinanzi
alle realtà sconosciute e apparentemente inspiegabili … Oggi per le bambine e i bambini, esposti quasi senza tutela a
mediatici sistemi violenti, è poi fondamentale lo studio della Storia
per ricostruire il senso del sé, per dare la possibilità di conoscere il
valore dell’ordinare, per avviare alla riappropriazione della propria
umanità che rischia continuamente il vilipendio, per fronteggiare i
media, le sirene dell’effimero, del “mollo tutto”. Chi vive coi piccoli
tutti i giorni sa bene quale sia l’attenzione duratura che si sviluppa
intorno a temi “grandi” come quello del diritto/dovere alla vita,
all’istruzione, alla parola, alle pari opportunità fra donne e uomini,
al lavoro, alla protezione, alla solidarietà, ecc… Quindi, nessuno scandalo, se gli insegnanti, nel rispetto della
libertà d’insegnamento, scegliessero percorsi alternativi alle vigenti Indicazioni ministeriali in
materia di Storia e affrontassero nel corso delle tre classi finali
della primaria argomenti ben collegati dalla preistoria ai giorni
nostri. La cooperazione e la valutazione Vorrei poi attirare l’attenzione sul problema dei problemi: quello
della valutazione per mezzo dei voti. Tale tipologia di “misurazione”,
ritengo da anni e anni e lo scrivo ovunque, che sia la ragione più
importante che costringe gli insegnanti a sminuire culturalmente il proprio stesso insegnamento, oltre
che rendere asfittico l’apprendimento degli studenti…La trilogia,
SPIEGAZIONE-STUDIO-INTERROGAZIONI diviene imperante, supera ogni più
fervida immaginazione,
altro che laboratori, altro che attenzione al soggetto che apprende! I voti sono l’errore-orrore della scuola, non per la faccenda banale
della diversificazione del merito che indurrebbe alla competizione, ma
perché tolgono speranza alla volontà di ricercare e cercare soluzioni
proprio a quei ragazzi che si vorrebbero recuperare allo studio. Ancora
una volta, invece di trovare strade alternative alla valutazione di
sempre, ci si attesta su un passato che ha fallito nell’impresa di far
fronte alla dispersione scolastica. Cambiare modo di valutare significherebbe liberare tutti gli attori
dal nulla della presunta o pressappochista oggettività. Una senatrice
illuminata, una volta, tanti anni fa, durante il Ministero di
Berlinguer, mi disse ridacchiando fra sé e sé: “La sua è un’idea
formidabile, ma troppo avanti!” Ci vorranno cinquant’anni almeno prima
di accorgersene veramente.” Ero molto giovane e mi pareva tutto più
raggiungibile…così me ne risentii. Invece ora ho compreso bene il potere
che alcuni fanno risiedere in questa lucida, anzi poco lucida follia
delle scalette. Gli effetti positivi degli sforzi di una metodologia rivolta
all’integrazione, alla pedagogia conversazionale, alla pedagogia attiva,
alla didattica laboratoriale, al rispetto per gli stili di
apprendimento, alla fiducia nell’errore come risorsa, all’apprendimento
cooperativo sapientemente condotto, ecc… rischiano di perdersi in un
colpo solo nello spazio di una casella col voto, soprattutto per gli
alunni più “deboli”, e tale perdita avviene anche per il valore
simbolico che ha il voto per alunni e genitori che li induce a spostare
la loro attenzione dall’analizzare qualità e profondità del percorso
scolastico, delle scelte didattiche, contenutistiche, laboratoriali… ai
semplici risultati contingenti di interrogazioni e verifiche… Per concludere… libertà d’insegnamento andate difendendo, care colleghe e
colleghi… Rispettare le leggi dello Stato è
ottima cosa per qualunque cittadino. Tuttavia, dentro la scuola, una
legge è sicuramente al di sopra delle parti, ed è quella costituzionale
che ci induce a perseguire il bene di tutti e tutte, quella che ci
impone di non allontanare alcuna persona dagli studi e di sviluppare le
potenzialità di ognuno/a. Per ubbidire alla Costituzione noi
docenti siamo chiamati ad agire con la libertà di insegnamento che ci è
non concessa bensì imposta, in modo adeguato alle richieste di cura e di
crescita culturale di alunni e alunne. Il resto conta, ma non fino al
sacrificio delle opportunità di un apprendimento efficace e rilevante
che vanno difese su tutto.
12 settembre 2011 Claudia Fanti
|
La pagina
- Educazione&Scuola©