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TEMPO-SCUOLA E SCELTA DELLE FAMIGLIE: MA E’ DAVVERO “RIVOLUZIONE”? Pasquale D’Avolio Restringimento del tempo-scuola “obbligatorio” e affidamento alle famiglie della scelta sulle attività facoltative: sono le due grossi novità del Decreto 59 su cui si appuntano maggiormente le critiche di chi ritiene che in questo modo si vada verso una dequalificazione della Scuola pubblica Tralascio la questioni del tutor e quella del portfolio, che è collegato al tema della valutazione. A mio parere sarebbe proprio quest’ultima la questione decisiva su cui dibattere, perché è indubbio il collegamento tra portfolio, i piani di studio personalizzati e i cosiddetti “obiettivi minimi” che nella Riforma verrebbero ad essere cancellati con gravi conseguenze sul piano pedagogico e didattico. Ma di questo si parla poco; si preferisce battere sul tasto del tempo-scuola e sulla “scelta delle famiglie” come elementi dirompenti dell’assetto precedente. Ma quale assetto? Quello precedente alla Riforma Berlinguer/De Mauro o quello che discendeva dalla L. 30/2000? Perché in quest’ultimo caso onestà intellettuale vorrebbe che si dicesse chiaramente che la diminuzione del tempo-scuola nella legge 30 era ben piu’ consistente di quella prevista dalla L. 53, almeno per quanto riguarda la scuola di base. Tutti sanno (o hanno dimenticato?) che il ciclo di base era di 7 anni rispetto agli 8 attuali e quindi il tempo-scuola diminuiva di ben 1000 ore complessivamente. Chi scrive condivideva in pieno quella proposta per delle ragioni che andavano oltre la questione del tempo scuola. Si dirà che l’obbligo scolastico era stato portato a 15 anni e quindi con due anni in piu’, (in effetti 1 in piu’ degli attuali 8) ma sappiamo che il 35% degli alunni non riusciva a superare il primo anno delle superiori, e se aveva compiuto i 15 anni con una ripetenza poteva abbandonare la Scuola. E poi, ad essere precisi, nella nuova Scuola Media è garantito, per chi lo sceglie, un orario settimanale di 33 ore rispetto alle 30 ore della maggioranza delle Scuole medie attuali. Se ci aggiungiamo le 2 ore di mensa, gli alunni resterebbero a Scuola 35 ore alla settimana: non si è fatta una battaglia negli ultimi anni per le 35 ore? Perché si parla sempre del tempo-scuola e non del tempo di vita di alunni e adulti? A parte la battuta, siamo proprio sicuri che restare a scuola piu’ tempo giovi veramente ai ragazzi oppure entrano in gioco altri fattori: quello occupazionale dei docenti e le esigenze delle famiglie i cui genitori lavorano entrambi[1]? Tutti e due i problemi prima indicati meritano considerazione, ma non diciamo che ci si sta battendo per i ragazzi. Sono convinto che certe esperienze di tempo-pieno e/o tempo prolungato siano validissime sul piano pedagogico e didattico, ma siamo certi che tutte le scuole a tempo prolungato abbiano tali requisiti? Si dice che il modello del tempo pieno e’ scelto sempre piu’ dalle famiglie …… quindi vuol dire che funziona! Si è mai verificato quante famiglie in cui lavora un solo genitore l’abbiano scelto? La distribuzione geografica del tempo pieno (prevalenza netta delle città specie del Nord) la dice lunga sulla “preferenza” dei genitori per il modello pedagogico-didattico del tempo pieno. Ma qui appare una contraddizione grave in coloro che contrastano il nuovo tempo-scuola: da una parte ci si appella alla scelta delle famiglie, che non verrebbe rispettata dal nuovo Ministro, e dall’altra si contesta che il Ministero lasci alle famiglie la decisione circa il tempo-scuola. Non si può essere “familisti” da un lato e poi accusare di familismo la Moratti. Oggi, e presumibilmente anche domani, le due opzioni verranno lasciate alle famiglie; solo che adesso si costituiscono classi a tempo pieno staccate dalle altre (e in qualche caso le si impone a chi non vorrebbe, come nei piccoli paesi, dove il modello è unico) mentre da adesso in poi la stessa classe potrebbe essere costituita da gruppi con opzioni diverse. Ma in questo modo si spezza il gruppo classe, si provoca una discontinuità didattica e curricolare, si creano “differenziazioni” che a lungo andare creeranno disparità negli apprendimenti e nella formazione dei ragazzi!! Ecco il vero problema. Da quando si è cominciato a parlare di attività facoltative-opzionali tutti hanno inteso le ore “opzionali” come aggiuntive: si torna al doposcuola, si è detto[2]! Perché, dico, 27+3 non 27 e 3? Perché ore aggiuntive e non ore “integrative”? E’ possibile una programmazione curricolare che preveda “moduli” diversificati o integrativi o “espansivi”? Se si dice che non è possibile si rinnega quanto si è sempre affermato a proposito del “curricolo”. Ci si è riempiti tanto la bocca di “moduli”, di individualizzazione, di superamento della fissità della classe (che anche oggi contiene già diverse opzioni, come le lingue a volte diverse, IRC/aa, in qualche caso gruppi di educazione fisica, per fermarci alle differenziazioni “ordinamentali”). Ma non si dice da anni che l’autonomia deve puntare a superare le rigidità e le uniformità, a introdurre la flessibilità? Ci crediamo davvero o lo dicevamo perché allora andavano di moda, salvo poi constatare che riorganizzare i tempi e i gruppi scolastici è sempre stata una operazione titanica? Le stesse “compensazioni” fra le discipline prevista dall’autonomia mi risulta che si contino sulle dita di una mano nella secondaria. Il calendario non piu’ uniforme per l’intero anno, le classi aperte, gli interventi individualizzati: hanno qualcosa a che fare anche con le ore opzionali? Sembra che Moratti voglia introdurre la “rivoluzione”, ma quella “rivoluzione” l’abbiamo predicata noi, quelli che si battevano per le innovazioni metodologiche e didattiche contro una Scuola “immobile” e organizzata centralmente; e ora mi sembrerebbe assurdo combatterla perché dietro magari c’è una filosofia liberista e/o familista? Che sarà anche vero, ma questo riguarda un altro campo, quello delle scelte ideologiche o politiche, non quello pedagogico-didattico. Io non ritengo che le 27 o le 30 o le 33 ore debbano diventare necessariamente uno “spezzatino”. Lo spezzatino c’è già ed è costituito dalla frammentazione delle discipline, dalla mancanza di programmazione collegiale, dalla scarsa attenzione prestata alle cosiddette “abilità trasversali”, dalla semplice “successione” delle ore di lezione, dallo sviluppo lineare del “programma”, dalla poca attenzione all’unitarietà del sapere. Un orario compatto riesce a salvaguardare tale “unitarietà”? Io ne dubito e comunque non la garantisce; con le ore “integrative” (non chiamiamole aggiuntive) il problema resta e anzi diventa piu’ pressante. Ma proprio perché esso viene portato alla luce, proprio perché i rischi dello “spezzatino” sono reali, mi aspetto che i docenti piu’ accorti e piu’ preparati si impegneranno maggiormente a ricostruire quell’unità del progetto educativo che è essenziale nella scuola. Il punto della facolatività è effettivamente una grossa sfida e può introdurre elementi di differenziazione non piu’ governabili da parte della Scuola. Non mi sento tuttavia di dare per scontato quello che si dice a proposito delle famiglie e cioè le richieste delle famiglie “esprimono bisogni che non sempre coincidono con i bisogni formativi degli alunni”. Intanto mi pare importante aver inserito quel “non sempre”; mi sentirei di dire, sperando di non urtare suscettibilità, che “non sempre la Scuola riesce a intercettare positivamente i bisogni formativi degli alunni” e questo va riconosciuto onestamente. E’ vero che le famiglie vanno “guidate”, ma non c’è altro modo per responsabilizzarle e coinvolgerle nelle scelte educative dei figli. Forse l’incontro e, perché no, anche lo scontro tra Scuola e famiglie può aiutare entrambi ad abbandonare alcune certezze. Basta mettersi, o dico per i docenti, in un atteggiamento di ascolto e usare bene la propria “autorità” esperta nel campo della formazione per indirizzare al meglio le famiglie. [1] La questione dell’occupazione è indubbiamente importante ma non puo’ diventare decisiva nel contrastare una riforma. I sindacati fanno certo il loro mestiere, difendendo gli interessi dei propri associati, ma alla società interessa una Scuola migliore. Il numero dei docenti in Italia, è noto, è di gran lungo superiore a quello del resto d’Europa e questo era noto già ai tempi di Berlinguer, che infatti aveva cominciato a tagliare. I risultati sul piano degli apprendimenti degli alunni, come testimoniano alcune indagini internazionali, non rappresentano una conferma della bontà del numero dei docenti. Personalmente, dirigendo una Scuola a tempo “normale” e una a tempo prolungato posso dimostrare il contrario. Sulla naturale bontà del tempo pieno ritengo molto interessanti le osservazioni di due esponenti della pedagogia “progressista” (Cerini: “Il mitico(?!) tempo pieno” e Iosa “Il tempo non è denaro”) nonché le osservazioni del responsabile scuola dell’ANCI Massimo Nutini (“Tre minuti di silenzio….), interventi comparsi negli ultimi tempi sul sito di Ed scuola.com. Cito anche il dibattito di qualche tempo fa sulla questione “tempo” sul sito Pavonerisorse.to.it [2] Quando si parla di “doposcuola” si pensa subito alla “aassistenza” o alla custodia dei bambini, i cui genitori lavorano. Non sempre è così. In certi ambienti culturalmente deprivati, le ore “facoltative” possono essere utilizzate come “assistenza ai compiti” o guida al metodo di studio. Non trovo scandaloso che dopo le lezioni curricolari ci possa essere uno spazio in cui l’alunno svolga i suoi compiti, guidato da un docente magari attraverso anche metodologie innovative. E’ discriminante? Forse; ma non riesco a concepire come e quando i miei alunni del tempo prolungato (39 ore+2 di mensa alla settimana) debbano impegnarsi anche nello studio individuale a casa. Nella realtà che conosco (sono Preside di un I.C. da appena un anno) da sempre non è mai statadedicata un’ora delle 39 allo “studio individuale”!
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