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Los tres ejes de la mercantilización escolar por
Nico Hirtt
Dalla
fine degli anni ’80, i sistemi educativi dei paesi
industrializzati sono stati sottomessi a critiche ed a riforme senza
fine: decentralizzazione, deregolamentazione, crescente autonomia
dei centri scolastici, riduzione e deregolamentazione dei programmi,
“approssimazioni per la concorrenza”, diminuzione del numero di
ore di lezione per gli studenti, mercificazione da parte del mondo
imprenditoriale, introduzione massiccia delle Tecnologie dell’Informazione
e della Comunicazione (TIC), incremento dell’insegnamento privato
e a pagamento. Non si tratta di manie personali di alcuni ministri o
di una casualità. La somiglianza delle politiche educative venute
fuori nel contesto del mondo capitalista e globalizzato non lascia
dubbi sulla esistenza di forti determinanti comuni che spingo verso
questo tipo di politiche. La tesi qui sostenuta è che questi cambiamenti provengono da un profondo intento di adeguamento della scuola alle nuove esigenze dell’economia capitalista. Quello che si sta delineando è il valico tra l’”era della massificazione” dell’insegnamento e quella della “mercificazione” Della sua tripla mercificazione, dovremmo dire. In effetti, l’apparato scolastico, il più imponente servizio pubblico che sia mai esistito, sta per essere chiamato a servire di più e meglio la competizione economica in tre modi: formando più adeguatamente i lavoratori; educando e stimolando i consumatori e, per finire, aprendo se stesso alla conquista dei mercati. Questo nuovo adeguamento tra scuola e economia, si realizza sia sul piano dei contenuti didattici che su quello dei metodi (pratiche pedagogiche e gestione) e delle strutture. “I sistemi di educazione e [1] competitività europea, sempre che si adattino alle caratteristiche delle imprese del 2000."
La
commercializzazione dell’insegnamento segna una nuova tappa
storica in un movimento che si snoda nel corso di oltre di un
secolo: lo scivolamento progressivo della Scuola dalla sfera
ideologico-politica alla sfera economica (….). La
scuola primaria del XIX secolo si sviluppò, principalmente, come un
luogo di socializzazione. La dequalificazione del lavoro manuale,
conseguente l’industrializzazione, aveva gradualmente smantellato
il sistema mastro-apprendista ereditato dal Medioevo. Ma tale
sistema non aveva solo una funzione strettamente professionale;
attraverso di esso, infatti, il giovane imparava qualcosa di più
che una semplice attività: veniva educato, disciplinato, istruito
nei saperi necessari alla vita quotidiana e sociale. Sul campo,
parte della socializzazione del bambino si realizzava in famiglia: l’urbanizzazione
e la distruzione del modello famigliare tradizionale interruppero
secoli di tradizioni. Quando
nel 1841 il re del Belgio, Leopoldo I, difese la causa dell’istruzione
pubblica, egli insistette soprattutto sull’idea che si trattasse
di una “questione di ordine sociale".
[2]
Con
l’ascesa del movimento operaio organizzato e con il pericolo che
questo rappresentava per l’ordine stabilito, le classi dirigenti
assegnarono progressivamente alla scuola promaria del popolo una
seconda missione ideologica: assicurare un minimo di coesione
politica alla società. In Francia, Jules Ferry fundó la Scuola
repubblicana attraverso la Comune di Parigi: " Attribuiamo allo
Stato l’unico programma che possa vere in materia di insegnamento
e di educazione. Si occupa di questi assunti al fine di mantenere
una certa morale dello Stato, certe dottrine dello Stato che servono
per la sua conservazione".
[3]
Tra queste
dottrine, il patriottismo aveva il posto più importante e le
barbarie della Grande Guerra attestano l’efficacia mortale che l’istruzione
pubblica ha avuto in qualità di apparato ideologico dello Stato.
Parallelamente a questa scuola primaria, destinata ai figli del
popolo, l’insegnaento secondario del XIX secolo costruiva un
programma per i figli delle classi dominanti. Essa doveva dotarle
dei saperi che gli avrebbero permesso di occupare i ruoli dirigenti
nella società borghese. Legittimava il potere e contribuiva a
forgiare i suoi strumenti. Ma,
a partire dall’inizio del XX secolo, l’evoluzione della
tecnologia industriale, la crescita delle amministrazioni pubbliche
e lo sviluppo degli impieghi commerciali fanno rinascere la domanda
di mano d’opera più qualificata. Se per la maggioranza dei
lavoratori bastava una scolarizzazione di base, alcuni, senza
dubbio, dovevano acquisire una maggiore qualificazione professionale
e, per questo, un ritorno all’apprendistato tradizionale non
sarebbe stato sufficiente. Il sistema educativo si aprì, a partire
da questo momento, a sezioni “moderne”, tecniche o
professionali. Per forza di cose, la Scuola si convertì in una
macchina di selezione. I risultati finali degli studi primari
determinavano largamente chi, tra il popolo, avrebbe avuto il
privilegio di andare avanti negli studi secondari e si sviluppò,
quindi, un discorso meritocratico nel quale l’insegnamento si
trasformava in un metodo di promozione sociale per “i più dotati”
o i “più meritori”.
LOS TREINTA GLORIOSOS Il
programma economico della Scuola si impone in primo piano dopo la
seconda guerra mondiale, in un contesto di crescita economica forte
e duratura, di innovazione tecnologica pesante e di ampio respiro -
elettrificazione delle linee ferroviarie, infrastrutture portuali e
aereoportuali, autostrade, industria nucleare, telefonia,
petrolchimica. I settori che erano stati da sempre grandi
consumatori di lavoro manuale poco qualificato, subirono pesanti
perdite occupazionali. In Bergio, per esempio, l’agricoltura
perse, tra il 1953 e il 1972, il 52% dei suoi addetti non salariati.
Il settore del carbone (-78%) e delle miniere (-39%) seguirono la
stessa sorte. Ma queste perdite furono ampiamente compensate dalla
crescita dell’occupazione in altri settori. In primo luogo nell’industria:
siderurgia (+10%), chimica (+36), elettronica ed elettrotecnica
(+99%), impresa (+39). Analogamente, nel settore dei servizi: banche
(+131%), autotrasporti (+130%), amministrazioni pubbliche (+39).
Pertanto, il momento non solo esigeva una crescita della manodopera
salariata ma, soprattutto, una generale elevazione del livello
generale di istruzione dei lavoratori e dei consumatori. Questa
elevazione fu assicurata dalla massificazione, fatta a tappe
forzate, dell’insegnamento decondario
e, in misura minore, dell’insegnamento superiore.
(·) Riferimento ai 30 anni di rafforzamento capitalista e della nascita della così detta classe benestante.
In generale non fu necessario legiferare per prolungare la durata della scolarizzazione. La percezione da parte dei genitori e dei giovani del cambiamento nella composizione degli impieghi e la loro speranza di promozione sociale, stimolarono la domanda di insegnamento secondario e superiore. Derubati da queste speranze, gli operai qualificati passarono ad occupare, nella gerarchia sociale, la posizione che, trent’anni prima, era occupata da quelli non qualificati. Ma contribuirono senza dubbio nella corsa a mantenere la motivazione scolastica di una generazione di figli del popolo.
C’è
da sottolineare che questo si fece a carico dello stato che,
comunque, disponeva dei mezzi necessari: la crescita duratura e la
stabilità economica rendevano possibile una crescita parallela
delle entrate fiscali e degli investimenti pubblici a largo spettro.
Alla
fine degli anni 70, nell’Europa occidentale, le spese pubbliche
per l’educazione passarono dal 3% del PIL degli anni 50, al 6% e,
a volte, fino al 7% come in Belgio,. L’insegnamento pubblico si
sviluppò in tutte le direzioni. Nei paesi con forte tradizione
confessionale, questa si ritrovò sottomessa ad un crescente
controllo da parte dello stato in cambio di una funzione più
favorevole.
Il
ritmo di questa massificazione è stato impressionante. In Francia
il numero di Baccillerati in una sola generazione passò dal 4% del
1946 a più del 60% alla fine degli anni
80
[4]
. In Belgio,
tra il 1956 e il 1978, il tasso di partecipazione all’insegnamento
tra i giovani di 16-17 anni duplicò passando dal 42% al 81%.
[5]
Nel
corso di tutta questa epoca, l’intersse padronale sull’educazione
fu soprattutto di tipo quantitativo. Era necessario un maggior
numero di giovani che frequentasse gli studi secondari e superiori.
Serviva una educazione quantitativa migliore nei diversi rami e
necessità del mercato del lavoro. Da questo momento, gli aspetti
qualitativi dell’adeguamento dell’insegnamento all’economia
– obiettivi, contenuti, metodi, strutture – si trasformarono in
questioni di minore importanza. L’insegnamento secondario che si
massifica tra il 1959 e il 1980 ma, fondamentalmente, non cambia
molto. A valutare alcune velleità di riforme, i suoi curricula
continuano ad essere sostanzialemtne gli stessi dei decenni
precedenti, almeno nei rami dell’insegnamento generale.
Ma questa massificazione dà ugualmente un impulso al programma del sistema educativo come strumento riproduttore di stratificazione sociale. Dal momento in cui tutti hanno accesso all’insegnamento secondario, l’essenziale della selezione sociale non si realizza più “spontaneamente” alla fine dell’insegnamento primario, ma proprio nella scuola secondaria. In altri tempi, salvo rare eccezioni, solo i figli delle elites seguivano studi umanistici classici che portavano all’educazione superiore. Le classi medie facevano studi secondari “moderni”. I figli del popolo finivano di studiare dopo le primarie o, più raramente, facevano studi secondari tecnici o professionali. La massificazione degli anni 50-80 va a toccare questo solido equilibrio “naturale”. A partire da questo momento, i ragazzi entrano in massa negli “atenei” e negli istituti: molti sperimentano il destino dell’insegnamento generale, dato che la domanda di mano d’opera qualificata, per esempio nel settore dei servizi e dell’amministrazione, sembra offrire prospettive di promozione sociale. Per forza di cose, adesso la selezione va ad effettuarsi negli anni seguenti della scuola secondaria. Di contro, la massificazione si trasforma in massificazione del dissesto scolastico e del numero di ripetenti, una nuova forma di selezione gerarchizzante che continua ad essere, soprattutto, selezione sociale. Quindi tutti accedono nell’insegnamento secondario, entrano negli itinerari comuni ma, oggi come ieri, ad uscirne vittoriosi sono i figli delle classi favorite, quelli che superano gli studi più “nobili” e che fanno le carriere superiori più valorizzate e prestigiose. La scuola si converte quindi, secondo l’espressione di P. Bourdieu, in una macchina “riproduttrice” delle diseuguaglianze sociali.
Insistamo:
bisogna parlare di massificazione non di democratizzazione dell’insegnamento,
nonostante i discorsi ufficiali si compiacciano nel confondere
questi concetti. Se il
livello di accesso all’insegnamento si è effettivamente innalzato
per i ragazzi di tutte le categorie sociali, non per questo sono
diminuite le diseuguaglianze relative. Così l’Istituto Nazionale
di Statistica (INSEE) ha dimostrato che in Francia la mobilità
sociale non è cambiata affatto: per il figlio di un quadro rispetto
a quella del figlio di un operaio, la probabilità di ottenere un
diploma superiore è, oggi come 30 anni fa,
più o meno di 10 a 8.
[6]
Nel periodo
1951-1955, gli studenti di origine popolare erano il 18% degli
effettivi dell’ENA e il 21% di quelli dei Politecnici (Facoltà di
elites francese da dove escono la maggior parte degli alti
funzionari e dirigenti politici francesi) Nel periodo 1989-93 non
erano più del 6% e dell’8% rispettivamente. Nella comunità
fiamminga belga, solo per citare un altro esempio, i ricercatori Centrum
voor social Beleid hanno osservato ugualmente “lo
stesso distanziamento tra la partecipazione dei figli di famiglie
molto e poco scolarizzate all’istruzione”.
[7]
Un nuovo contesto económico
Le condizioni che avevano permesso la massificazione dell’insegnamento secondario e, in proporzione minore, di quello superiore, cominciano ad entrare messe in crisi con la crisi economica che si manifesta a metà degli anni 70. In un primo momento, gli effetti della crisi economica saranno principalmente i presupposti della crisi dei sistemi scolasctici. La crescita della spesa pubblica nella quale l’educazione occupa, a partire da questo momento, una posizione preponderante, inizia a frenale bruscamente: nei paesi in cui lo stato si era indebitato nei tempi delle “vacceh grasse” è il momento dell’austerità. In Belgio le spese per l’educazione calano rapidamente dal 7% del PIL a poco più del 5% alla fine degli anni 80. Senza dubbio non si mettono subito in questione i pilastri principali delle politiche educative: gli apparati istituzionali ed economici sperano ancora che la crisi sia breve e che, al termine delle risrutturazioni, indispensabili, ricominci la crescita economica forte e durevole del “trentennio glorioso”. Bisognerà aspettare la fine degli anni 80 perché queste speranze svaniscano e i dirigenti dei paesi capitalisti prendano piena coscienza del nuov contesto economico e dei nuovi compiti che questo impone all’insegnamento.
Vediamo
queli sono le carattersitiche di questo contesto.
Il
primo elemento che dev’essere considerato e quello legato all’innovazione
tecnologica. L’accumulazione delle conoscenze porta ad una
accelerazione costante del ritmo dei cambiamenti tecnici. Nella loro
corsa competitiva, le industrie ed i servizi si appropriano di
queste innovazioni per ottenere una maggiore produttività o per
conquistare nuovi mercati. A sua volta, la guerra tecnologica
aggrava la competizione tra imprese, cosa che si traduce in fusioni,
ristrutturazioni, razionalizzazioni, chiusura delle fabbriche e
spostamenti di imprese. La fuga in avanti verso la mondializzazione
e la globalizzazione capitalitica, favorita anche dallo sviluppo
delle tecnologie della comunicazione, non fa altro che accentuare
questa lotta al coltello tra imprese, settori e continenti. . A sua
volta, l’acuirsi della lotta tra le imprese che competono tra loro
spinge fortemente gli industriali ad accelerare lo sviluppo e la
introduzione delle nuove tecnologie nella produzione e nei mercati
di massa. C’erano voluti 54 anni perché il settore degli
aereotrasporti riuscisse a conquistare il il 25% del proprio mercato
attuale; al telefono ce ne vollero 35, alla televisione 26. Il
personal computer ha conquistato la quarta parte del suo mercato in
15 anni, il telefonino in 13 anni e internet in appena 7 anni.
Così, l’ambiente economico, industriale, tecnologico è diventato
più instabile, più cangiante e più caotico che mai. L’orizzonte
della prevedibilità economica si riduce fino a cessare.
La
seconda caratteristica essenziale della ”nuova economia” è
riferita all’evoluzione del mercato del lavoro. L’instabilità
economica si traduce, in primo luogo, in una precarietà sempre
maggiore dell’impiego. In Francia, il lavoro precario accomuna
più del 70% dei giovani che cominciano la propria vita attiva. Solo
negli anni 1994-95, il numero di contratti a tempo determinato è
praticamente raddoppiato.
[8]
I lavoratori si vedono obbligati a cambiare regolarmente
posto di lavoro, di impiego e anche di attività.
Gli impieghi non solo sono instabili: anche la loro normalità cambia. E’ stato detto e ripetuto: la “nuova economia” reclama una crescita impressionante del numero di informatici, ingenieri, specialisti di mantenimento dei sistemi informatici e di gestione dei programmi. E’ l’aspetto più conosciuto, per l’essere il più ripetuto, della evoluzione del mercato del lavoro. Senza dubbio si tratta solo della punta dell’icesberg, Si insiste molto meno sull’altro aspetto di questa evoluzione: la crescita ancora più esplosiva degli impieghi di basso livello di qualificazione.
Sono
passati dieci anni da quando, negli Stati Uniti, l’informativa
FAST II sull’impiego aveva dimostrato che, a capo delle
professioni con maggior tasso di crescita si trovavano: gli
spazzini, gli infermieri, i venditori, i cassieri e i camerieri. L’unico
impiego di carattere tecnologico, quello di meccanico, si trovava in
ventesima ed ultima posizione.
[9]
Più
recentemente, uno studio di prospettiva del Ministero americano del
lavoro, che si occupava del periodo 1998-2008, mostra che la
tendenza si rafforzerà nei prossimi anni. Certamente, i posti di
ingegnere e le relative occupazioni cresceranno in percentuale.
Così, dei 30 impieghi rispetto ai quali lo studio prevede la più
importante crescita nominale (a dire, in numero assoluto di
impieghi), 16 sono del tipo “short term on the job training”(formazione
di breve durata “nel proprio luogo di lavoro”). Tra questi si
trovano: posti da venditori, da guardia, da recezionista, da
ausiliario sanitario, di personale da mantenimento, da autista di
camion e anche “per l’installazione di macchine disptributrici
di bibite e di alimenti” (250.000 nuovi posti di lavoro soltanto
in questo settore). Negli USA, su un totale stimato di 20 milioni di
nuovi impieghi, da adesso fino al 2008, 7,6 milioni saranno di
questo tipo e 4,2 milioni richiederanno un bachelor (formazione
superiore di breve durata). La dualizzazione sarà percepibile anche
nel campo degli ingressi. Così il 35% degli impieghi sono inclusi
nelle categorie che oggi appartengono al quartile di ingressi
superiori (il 25% dei più ricchi), ma un altro 39% forma parte del
quartile inferiore (il 25% dei più poveri). Solo un 14 e un 11%,
rispettivamente, appartengono ai due quartili intermedi
corrispondenti alla classe operaia tradizionale ed alle classi
medie.
[10]
In altre parole: gli estremi crescono, i settori
intermedi si riducono.
Infine, la terza caratteristica dell’ambito economico, conseguenza dell’esacerbazione delle lotte di competizione e della curva di crescita economica, è l’abbandono del compromesso tra lo stato e i servizi pubblici. I ceti economici fanno pressione sui governanti perché diminuiscano la pressione fiscale, tanto sui benefici delle imprese e sugli ingressi di capitale, tanto sugli ingressi del lavoro, considerato che questo aumenta il margine di manovra e la negoziazione sui salari. Secondo la Tavola Rotonda degli Industriali Europi, conviene “utilizzare la quantità molto limitata di denaro pubblico come catalizzatore per sostenere e stimolare le attività del settore privato” [11] Nonostante vogliano farlo, cosa chegià non è molto abituale, le autorità politiche difficilmente sono in grado di resistere a queste pressioni, dato che la mondializzazione dell’economia rende il processo di “defiscalizzazione competitiva” terribilmente efficace.
Instabilità e
imprevedibilità delle evoluzioni economiche, dualizzazione delle
qualifiche richieste dal mercato del lavoro, crisi ricorrenti delle
finanze pubbliche sono le principali forze che determinano, al
passaggio tra gli anni 80 e 90, una revisione di fondo delle
politiche educative.
Fine della “massificazione”
La dualizzazione del
mercato del lavoro si deve riflettere in una parallela dualizzazione
dell’insegnamento. Se il 50-60% delle proposte d’impiego non
esige altro che lavoratori poco qualificati, non è economicamente
vantaggioso continuare con una politica di massificazione dell’insegnamento.
E’ questo, e i pensatori dell’economia capitalista lo sanno
bene, il punto più delicato delle riforme della scuola. Almeno sul
piano della tattica politica. In un documento pubblicato nel 1996
per i servizi di studio dell’OECD, Christian Morrison indicava
come i governanti dovevano farlo, con una chiarezza ed un cinismo
notevoli. Una volta esaminate alcune opzioni irrealizzabili l’ideólogo
di questo organismo di riflessione strategica del capitalismo
mondiale continuava: “dopo questa descrizione de misure rischiose,
si possono consigliare, al contrario, numerose misure che non creano
alcuna difficoltà politica, (…) Se si diminuiscono le spese per
il funzionamento di scuola e università, bisogna fare in modo che
non si diminuisca la qualità del servizio, ancora a rischio che la
qualità si abbassi. Si
possono ridurre, per esempio, i finanziamenti per il funzionamento
della scuola o delle università, ma sarebbe pericoloso ridurre il
numero di immatricolazioni. Le famiglie reagirebbero violentemente
se non si permette ai loro figli di immatricolarsi, ma non faranno
fronte ad un abbassamento graduale della qualità dell’insegnamento
e la scuola può progressivamente e puntualmente ottenere un
contributo economico dalle famiglie o eliminare alcune attività.
Questo si fa prima in una scuola e poi in un'altra, ma non in quella
accanto, in modo da evitare il malcontento generalizzato della
popolazione.”
[12]
Non si decreta,
quindi, la fine della massificazione ma se ne creano le condizioni
sul piano della qualità dell’insegnamento e dei suoi
finanziamenti, condizioni che rendono inevitabile l’arresto del
movimento iniziato nel corso degli anni 50. Non si decreta la
dualizzazione dell’insegnamento, ma se ne creano le condizioni
materiali, strutturali e pedagogiche. Questa politica dà già i
suoi frutti. Nella undicesima conferenza della European
Association for Internatiopnal Education,
svoltasi a Maastricht il 3 dicembre del 1999 ( Visions of
a European Futures: Bologna and Beyond), alcuni esperti dissero
che i paesi industrializzati sono “entrati in una fase di
post-massificazione” e che “la straordinaria esplosione del
numero di studenti degli ultimi 30 anni è prossima alla fine”.
[13]
In Francia, il numero di studenti della scuola
superiore, che ha sperimentato una crescita costante fino al 1995,
è quindi iniziato a diminuire. Le matricole all’inizio sono scese
dalle 278.400 del 1995 alle 250.700 del 1998
[14]
: nelle Fiandre, le immatricolazioni all’università
sono passate dal 19% del 1994 al 16,5 % appena del 1999.
[15]
Anche la durata media
degli studi universitari corre il rischio di diminuire. Certo è che
la dichiarazione di Bologna propone di generalizzare la durata a tre
anni del primo ciclo universitario. Ma raccomanda, parallelamente,
che questo ciclo porti al consegumento di un titolo direttamente
spendibile sul mercato europeo. E, per molti, il primo ciclo si
trasformerà nell’unico ciclo.
Le scuole europee al servizio dei mercati
Nell’arco dei trent’anni,
i settori economici avevano concentrato la propria attenzione sullo
sviluppo quantitativo dell’istruzione. La fine della
massificazione gli permette di rivolgersi, adesso, agli aspetti
qualitativi. Lo fanno con maggior forza, tenendo conto del fatto che
il cambiamento radicale delle condizioni di produzione e l’acuirsi
delle lotte competitive fanno sì che sia urgente, secondo loro, una
riforma fondamentale dell’istruzione: sul piano delle strutture,
dei contenuti insegnati e dei metodi Nel 1989, il gruppo di
pressione del padronato rappresentato dalla Tavola Rotonda delle
Industrie (en inglés: ERT, European Round Table) pubblicava la sua
prima informativa sull’istruzione proclamando che “ si considera
l’educazione e la formazione come investimenti strategici vitali
per il futuro destino dell’impresa” . Da questo momento lo
sviluppo tecnico ed industriale delle imprese europee esige con
chiarezza “un rinnovamento accelerato dei sistemi di insegnamento
e dei loro programmi.”
[16]
La ERT lamenta il fatto che “l’industria abbia solo
una scarsa influenza sui programmi d’insegnamenro”, che gli
insegnanti “ abbiano una così insufficiente comprensione dell’ambito
economico degli affari e della nozione di profitto” e che questi
stessi insegnanti “non capiscano le necessità dell’industria”.
[17]
In seguito, nel corso degli
anni 90, altre
informative verranno a precisare le “raccomandazioni” del
padronato quanto al “modo di adattare globalmente i sistemi di
educazione e di formazione permanente alle sfide politiche e sociali”
[18]
Le linee direttrici di queste informative saranno
riassunte nelle analisi dell’OECD, nei “libri bianchi” della
Commissione Europea ed in diverse pubblicazioni dei governi o dei
padronati locali.
All’inizio del 2001,
la Direzione Generale per l’Educazione e la formazione della
Comunità Europea, diretta da Viviane Reding, pubblicava un
documento in cui venivano sintetizzate le opinioni degli stati
membri quanto ai “futuri obiettivi concreti dei sistemi di
formazione”
[19]
Questo testo inserisce nell’introduzione la missione
generale dell’insegnamento nell’ambito degli obiettivi che si
erano sottolineati al Consiglio Europeo di Lisbona nel marzo 2000:
“L’Unione Europea si trova di fronte ad un cambiamento radicale
indotto dalla mondializzazione e alle sfide inerenti una nuova
economia basata sulla conoscenza”. Da questo momento il principale
obiettivo strategico cui l’insegnamento è chiamato a collaborare
è il “ convertirsi all’economia della conoscenza più
competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica
duratura”. Sottolineeremo qui il programma sempre più ampio della
Commissione Europea nell’ambito dell’unificazione delle
politiche educative al servizio dell’economia. “E’ certo che
dobbiamo preservare le differenze di struttura e di sistema che
riflettono l’identità dei paesi e delle regioni d’Europa, ma
dobbiamo anche ammettere che i nostri obiettivi principali, ed i
risultati cui tutti aspiriamo, sono molto simili” dice la
Commissione. E aggiunge “ che nessuno stato membro ha la
possibilità di affrontare da solo tutto questo. Le nostre società,
come le nostre economie, sono oggi troppo interdipendenti perché
una tale scelta sia realista”. Se Edith Cresson è stata l’iniziatrice
di una riflessione strategica relativa all’educazione su scala
europea, Viviane Reding è colei che avrà saputo passare dalla
riflessione ad una reale politica educativa comune.
L’era della flessibilità
Adattare la scuola alle necessità dell’economia? Il compito non è facile. I tentativi di realizzare un tale edeguamento nel corso degli anni 50 e 60 ebbero un esito generale penoso. Questo è ancora più certo se teniamo conto del fatto che, in sostanza, l’economia capitalistica è ribelle a tutte le velleità della pianificazione. E’ impossibile prevedere, nell’arco di 6-10 anni, quali saranno le precise necessità in materia di mano d’opera e, ancora meno, di qualificaizone. Come si può immaginare tale adeguamento in un contesto economico instabile ed imprevedibile come non mai? La risposta è già nella domanda: l’elemento centrale dell’adattamento dell’istruzione alle necessità del padronato risiede oggi, precisamente, nella considerazione di tale instabilità. Non potendo controllare il caos, bisogna adattarvisi. Di conseguenza, la parola chiave del nuovo adeguamento scuola-impresa è il termine “flessibilità”. I lavoratori si trovano obbligati ad adattarsi ad un contesto produttivo che cambia senza posa: perché le tecnologie si evolvono, i prodotti cambiano. Le ristrutturazioni e le riorganizzazioni impongono di cambiare il posto di lavoro, perché la competitività precarizza l’impiego. Questi incessanti riciclaggi costano molto tempo e denaro. Introdurre un lavoratore alle peculiarità di un contesto produttivo specifico è un’investimento lungo e oneroso, che ritarda la messa in moto delle innovazioni. La moltiplicazione dei costi, derivata dalla forte rotazione della manodopera e della tecnologia, diventa rapidamente proibitiva. Senza dubbio, la natura delle tecniche impiegate, la loro complessità sempre maggiore, fa sì che l’importanza dei saperi e, quindi, della formazione, diventi sempre più cruciale. Come risolvere questo dilemma? La risposta è: attraverso l’ “apprendistato nel corso di tutta la vita”. Questa dottrina, spiega l’OCSE “si basa in gran parte sull’idea che la preparazione per la vita attiva non può più essere considerata definitiva e che i lavoratori devono ricevere una formazione continua nel corso della loro vita professionale per poter continuare ad essere produttivi e impiegabili”. [20] Impiegabilità e produttività: il progetto non ha dunque nessuna ambizione umanista. Non si tratta di far apprendere a tutti e durante tutta la vita i tesori della scienza, delle tecnica, della storia, dell’economia, della letteratura, delle arti, della filosofia, delle lingue antiche o delle culture straniere. L’adattamento dei sistemi educativi a questo obiettivo costituisce, agli occhi della Commissione Europea: “la sfida più importante con la quale tutti gli stati membri si confrontano”. [21] Questo implica essenzialmente tre cose: “adattabilità”, “responsabilizzazione”, “deregolamentazione”.
Competenze per
favorire l’adattabilità
In primo luogo bisogna revisionare i programmi e i metodi dell’insegnamento di base al fine di far sviluppare, grazie ad essi, le capacità dei lavoratori nell’affrontare situazioni professionali estremamente variabili. Si tratta, come raccomandava il Consiglio europeo riunito ad Amsterdam nel 1997: “di concedere la priorità allo sviluppo di competenze professionali e sociali per un migliore adattamento dei lavoratori alle evoluzioni del mercato del lavoro.” [22] In questo ambito, il programma della scuola come luogo di trasmissione delle conoscenze viene già considerato primordiale: “il sapere si è trasformato, nelle nostre società e nelle nostre economie che si evolvono rapidamente, in un prodotto deperibile. Quello che oggi impariamo il giorno dopo sarà obsoleto o sarà considerato superfluo ” spiega la signora Cresson. [23]
Le conoscenze generali, che modellano una cultura comune e che danno la forza necessaria per la comprensione del mondo nelle sue multiple dimensioni, non sono mai state davvero importanti sul piano economico. I programmi d’insegnamento secondario generale, che oggi si dice siano “sovraccarichi” di conoscenza, rappresentano una reminiscenza dell’epoca in cui l’insegnamento era riservato ai figli delle classi dominanti, essi stessi futuri dirigenti. C’era bisogno di ridimensionare le armi del potere, i segni culturali e della legittimazione del potere della classe cui esse appartenevano. Senza dubbio questi programmi, inadeguati all’aspirazione di elevare il livello di formazione professionale delle masse, erano sopravvissuti ampiamente all’era della massificazione dell’insegnamento. In parte, senza dubbio, perché tutta l’attenzione era concentrata sulle considerazioni quantitative. Adesso che il contesto economico svia l’attenzione verso i contenuti e verso la ricerca di impiego, questo “accumulamento” di conoscenze generali viene attaccato da tutte le parti. Come sempre, l’attacco
usa a pretesto la reale ipertrofia di certi programmi per
giustificare l’abbandono dello stesso obiettivo, la trasmissione
dei saperi, da parte di tutta l’istruzione. L’importanza
concessa a certe dottrine pedagogiche, come la così detta “approssimazione
per le competenze”, concretizza questa tendenza. Queste dottrine
privilegiano alla conoscenza, la competenza: “insieme integrato e
funzionale di sapere, saper fare, saper essere, saper raggiungere,
che permetta prima di adattarsi, risolvere problemi e realizzare
progetti”. L’importante non è fondare una qualche cultura
comune, ma essere capaci di accedere a saperi nuovi utilizzandoli di
fronte a situazioni impreviste. Non dobbiamo lasciarci ingannare
dall’apparente generosità del progetto: privi delle basi
sufficienti, “i saperi nuovi”, cui i futuri cittadini avranno
accesso “nel corso di tutta la loro vita”, rimarranno confinati
in ambiti elementari come il dominio di un nuovo programma, l’utilizzazione
di una nuova macchina, l’evoluzione di un nuov
ambito lavorativo. L’ambizione di strumentalizzare l’insegnamento
a beneficio della competenza economica è manifesta.
All’interno delle
competenze reclamate ad altissima voce dal mondo padronale, bisogna
menzionare l’iniziazione alle tecnologie informatiche e della
comunicazione. “Tutti gli stati membri pensano che bisogna
riformare le competenze di base che i giovani dovrebbero possedere
al termine della scuola o della formazione iniziale, e che queste
dovrebbero includere pienamente le tecnologie dell’informazione e
della comunicazione”(TIC), indica il documento di sintesi della
Commissione Europea relativo agli obiettivi dell’insegnamento.
Questo non significa che si debbano formare un mucchio di
informatici. Abbiamo già visto per quali motivi non c’è nessuna
necessità di farlo. Al contrario è imprescindibile che tutti i
futuri lavoratori abbiano imparato a muoversi in un ambito dominato
da queste tecnologie, che abbiano acquisito i rudimenti del dialogo
uomo-macchina attraverso una tastiera e un mouse, che abbiano
imparato a rispondere agli ordini che compaiono sullo schermo di un
computer, che abbiano l’abitudine ad adattarsi rapidamente, quasi
in una forma intuitiva, a programmi differenziati e cangianti.
Questa è la funzione principale dell’introduzione delle TIC nella
scuola. E questo permette anche di capire molte cose riguardo al
come si sta facendo oggi questa introduzione. E’ necessario
constatare che si sta investendo molto in macchine e molto poco in
informazione. L’importante non che l’insegnante domini le TIC
come nuovo strumento pedagogico (la cui utilità potenziale non si
pretende qui di negare), ma sembra essere, piuttosto, che gli
studenti abbiano l’occazione di “far funzionare” un computer,
così da riuscire a superare i loro timori e da acquistare i
riflessi di base per un loro utilizzo elementare. L’impiegato
della Coca-Cola Company
che arriverà, un domani, a riempire le macchinette distributrici di
bevande nelle nostre scuole, sarà in grado di imparare rapidamente
anche ad utilizzare un sistema di conduzione informatizzato che gli
permetta di evitare le difficoltà del traffico. Ma è poco
probabile che i computer scolastici abbiano contribuito molto ad
insegnargli la storia o la fisica.
Sul piano della
preparazione di manodopera, l’introduzione delle TIC nella scuola
gioca anche un’altra ruolo. Si tratta, dice la Commissione
Europea, di mettere “il potenziale innovativo delle nuove
tecnologie al servizio delle esigenze e della qualità della
formazione lungo il corso di tutta la vita”.
[24]
Col fine di assicurare una rapida rotazione e una
massima flessibilità professionale dei lavoratori, questi devono
imparare a usare i computer e internet per aggiornare le loro
conoscenze e le loro competenze “dalla culla alla tomba”,
connettendosi a fornitori di formazione a distanza o utilizzando
supporti multimediali. Se tutti i lavoratori hanno imparato ad usare
Internet per accedere alle conoscenze, sarà facile stimolarli
affinchè mantengano, usando computer e connessioni che pagheranno
di tasca propria, il loro livello di competitività professionale
durante i loro fine settimana, le loro vacanze o le loro notti.
Questo è il contenuto di un annuncio pubblicitario del gruppo Sysco
Systems in cui si vede un uomo seduto in una banca pubblica che
naviga sulla rete con un computer portatile e un GSM; il testo dice:
“ impari come ridurre del 60% le sue spese di formazione”. La realizzazione di
questo obiettivo implica il “responsabilizzare” il lavoratore
prima della sua formazione, fare in modo che sia egli stesso ad
occuparsi di mantenere le proprie conoscenze e il livello delle sue
competenze per continuare ad essere “impiegabile”.
“In seno alle
società della conoscenza, il programma principale è relativo agli
individui stessi” dice la Comissione europea. “Il fattore
determinate è questa capacità che mette l’essere umano nella
possibilità di creare ed esplorare le conoscenze in modo efficace e
intelligente, in un ambiente in continua evoluzione. Per ottener la
parte migliore di questa attitudine, gli individui devono avere la
volontà e i mezzi per farsi carico del proprio destino”
[25]
Quando il cittadino si trasforma in consumatore
Abbiamo segnalato la
crescente importanza della scuola come luogo di formazione di
manodopera. Non per questo l’educazione del cittadino è
scomparsa, ma anche in questo si osserva uno slittamento dalla sfera
ideologica a quella economica. Claude Allègre
sottolineava quanto è importante l’insegnamento obbligatorio per
“preparare i giovani a vivere come cittadini” e chiedeva ad esso
anche di “trasmettere più che mai i valori repubblicani che
fondano la nostra vita collettiva e la nostra democrazia”
[26]
Dichiarazione simili si possono ascoltare dalla bocca di
tutti i responsabili politici, in particolare nella Commissione
europea. La scuoal continua ad essere, in effetti, un luogo in cui
si trasmette il dogma fondatore della coesione sociale e politica
delle società occidentali: i nostro stati sono legittimi posto che
siano democratici. Questo si suppone (faccia) dimenticare un po’
in fretta che il potere l’elettore lo detiene lì dove cominciano
gli interessi dei gruppo finanziari ed industriali. E questi
interessi sono adesso omnipresenti. La pretesa democrazia delle
nostre società altro non è che una costruzione ideologica
destinata a mascherare la dittatura dei mercati, ben reale in questo
caso. Ma è un’ideologia terribilmente efficace, profondamente
radicata nella coscienza di ampie fasce della popolazione, in
particolare nelle classi medie, quelle che plasmano l’ “opinione
pubblica”
Se la mercificazione
della scuola non ha posto fine al suo programma di apparato
ideologico, bisogna riconoscere che, su questo terreno, la si
ritrova situata in secondo piano o sostituita da altri strumenti:
stampa, pubblicità, radio, cinema e, soprattutto, televisione. Per
un altro verso, nel campo proprio della formazione del cittadino,
chi adesso si trova al centro delle attenzioni scolastiche è il
consumatore. La creazione di nuovi mercati di massa, collegati alla
tecnologia emergente, è possibile solo a condizione che i clienti
potenziali abbiano acquisito le conoscenze e le competenze che gli
permettano di esplorare questi prodotti, e che abbiano superato le
proprie paure. Il freno maggiore allo sviluppo del commercio
elettronico in Internet, per esempio, sembra essere più di ordine
psicologico che tecnico. Senza dubbio, secondo l’impresa Merryl
Lynch, questo settore dovrebbe rappresentare un mercato di
500.000 milioni di dollari entro la fine del 2002. La
Comissione Reiffers, fondata da Edith Cresson all’inizio degli
anni 90, nel riflettere sul futuro dell’educazione europea si
preoccupa: “Si può dubitare che il nostro continente mantenga la
posizione industriale che gli compete in questo nuovo sistema, se i
nostri sistemi educativi non si pongono rapidamente all’altezza
necessaria. Lo sviluppo di queste tecnologie, in un contesto di
forte competizione internazionale, ha bisogno di effetti di scala in
grado di esprimersi fino in fondo. Se il mondo dell’educazione e
della formazione non li utilizza, il mercato europeo si trasformerà
troppo tardi in un mercato di massa”
[27]
. Un mese dopo, nel corso di una conferenza davanti ad
un pubblico di industriali delle tecnologie dell’informazione e
della comunicazione, Edith
Cresson dichiarava: “ Il mercato europeo continua ad essete troppo
ristretto, troppo frammentato. Il numero ancora troppo basso di
utenti e creatori penalizza la nostra industria. ( ... ) Per quello
era indispensabile prendere un certo numero di iniziative per
aiutarlo e stimolarlo. Questo è l’obiettivo del piano d’azione
“imparare nella società dell’informazione” di cui la
commissione si è dotata nell’ottobre del 1996. Questo ha due
ambizioni principali: da una parte, aiutare le scuole europee ad
accedere alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione
il pù rapidamente possibile e, dall’altra, accelerare l’emergenza
e dare al nostro mercato la dimensione di cui necessita la nostra
industria”
[28]
.
Il piano d’azione”
imparare nella società dell’informazione” è il grande progetto
europeo al quale Claude Allègre destina 15 milioni di franchi
francesi per fornire i collegi
e gli istituti di computer connessi alla rete Internet, al
quale la Regione Vallona destina 3.000 milioni di franchi belghi per
attrezzare la scuola francofona “ciberclases” e nell’ambito
del quale la Deustche Telekom sottoscrive un partenariato con il
Ministero tedesco dell’educazione per accelerare l’acquisizione
dei TIC da parte degli edifici scolastici.
Le parole di Edith
Cresson erano confidenziali ed erano state pronunciate davanti ad un
assemblea padronale nel 1997. Tre anni dopo, nel corso del Vertice
europeo di Lisbona, già non ci sono più tanti scrupoli. Come
recuperare il ritardo dell’Europa relativamente alle TIC e al
commercio elettronico, si chiedevano i ministri riuniti sotto la
presidenza portoghese? E la risposta fu unanime: e-learning, cioè:
introduzione massiccia delle tecnologie informatiche nelle strutture
scolastiche.
L’entrata dei
mercati nella scuola è un altro segno di questa tendenza all’utilizzo
dell’insegnamento per appoggiare i mercati. Del pacchetto
tecnologico “colazione salutare”, prodotto dalla Nestlè, alle
videocassette su “il funzionamento dell’impresa moderna”,
realizzate esclusivamente con immagini della fabbrica della Coca
Cola di Dunkerque, passando per i
“masters in economia“ del grupbo bancario CIC, i centri
scolastici si vedono innondati dalle generose offerte di patrocini e
di materiale didattico gratuito. Una società francese di marketing
specializzata nel mercato giovanile che si chiama, modestamente, L’Institut
de l’Enfant, ha
calcolato che il consumo delle famiglie è influenzato dai giovani
per il 43% . Questo rappresenta, per la Francia, un mercato di 600
000 milioni di franchi (90.000 millones de euro). Per questo, come
scrive il periodico delle classi dirigenti Les Echos, “ l’ambito
scolastico e, soprattutto, la garanzia dell’insegnante, per un
marchio rappresentano un fattore di credibilità inestimabile”
[29]
.
Alla fine del 1998, la
Comisssione europea diffondeva un documento informale su “Il
marketing nella scuola” prodotto, a richiesta, dalla società
di... di marketing (!) GMV Conseil. Il documento finisce con una
serie di conclusioni e di raccomandazioni che rappresentano un
riconoscimento ufficiale in piena regola del diritto all’entrata
dei marchi nella scuola. “Senza mezzi di protezione, con la
penetrazione del marketing nella scuola, si corre il rischio di
atrofizzare il senso critico degli studenti, di provocargli
frustrazioni, di fargli percepire la società in modo impoverito e
di fomentare le loro attitudini agli stereotipi. Ma con mezzi di
protezione si eviteranno queste trappole e compariranno i vantaggi:
sicuramente quelli materiali per alcuni sistemi scolastici con una
cronica carenza di fondi, ma anche quelli pedagogici, dato che la
penetrazione del marketing nella scuola, da una parte apre al mondo
dell’impresa e alla realtà della vita e della società e,
dall’altra, permette di educare gli studenti relativamente
alle questioni di consumo in generale e alle tecniche publicitarie
in particolare. (...)” Per consentire al che
la scuola tragga il massimo beneficio finanziario e pedagogico dalle
azioni di marketing al proprio interno e per impedire gli effetti
“all’americana”, lo studio raccomanda (….): di mantenere la
pressione sulle imprese affinchè continuino a produrre materiale di
qualità secondo i criteri definiti precedentemente; (….)
Deregolamentazione
Una volta raggiunti
gli obiettivi educativi, si pone la domanda: come organizzare l’insegnamento
in modo che li si possa raggiungere? Nuovamente, il termine finale
della risposta sarà “flessibilità”. Non solo il lavoratore
deve essere flessibile, adattabile e competitivo: il sistema in
quanto tale deve dotare se stesso delle suddette caratteristiche.
Per ricordare un’immagine che piaceva molto a Laurette
Onkelinckx, ex ministro dell’Educazione della comunità
belga francese, bisogna abbandonare “la pesante nave” dell’insegnamento
diretto dallo stato e sostituirla con una “flotta di piccole navi
più facili da governare”. La metáfora è più esplicita di
quello che il ministro pensaba: il risvolto vero, in effetti, è che
gli altri saranno relegati a una flottiglia di barche a remi. Già nel 1989, la
Tavola Rotonda degli Industriali europei scriveva che “l’amministrazione
della scuola (è) dominata dalle esigenze burocratiche. Le pratiche
amministrative sono troppo rigide per permettere ai centri d’insegnamento
di adattarsi ai cambiamenti richiesti dal rapido sviluppo delle
moderne tecnologie e delle ristrutturazioni industriali e terziarie”.
[30]
Analogamente, per l’OECD, “il sistema scolastico
deve sforzarsi per ridurre i propri tempi di risposta utilizzando
formule più flessibili
della funzione pubblica, per creare o chiudere sezioni tecniche o
professionali, utilizzare personale competente, o disporre delle
strutture necessarie”
[31]
L’aumento dell’autonomia
delle strutture scolastiche gli offre un maggior margine di manovra
per adattarsi non solo alle aspettative dei mezzi economici; anche a
quelle della società e dei genitori, si potrebbe aggiungere.
Sicuro. Ma in un contesto in cui la competizione per l’accesso all’impiego
di maggiore qualità è ogni giorno maggiore, le aspettative degli
impresari influiscono inevitabilmente sull’intervento dei genitori
(nei consigli di rappresentanza o in altri ambiti). L’autonomía
permette soprattutto di stabilire partenariati con le imprese ( e
stimola a farlo nella misura in cui questi possono convertirsi in
patrocini, benvenuti in questi tempi di presupposta penuria). Così,
secondo l’informativa della CE gli “ conviene lanciare il laccio
nell’ambito economico, alle imprese e gli imprenditori più
concretamente, per migliorare la comprensione delle necesità di
questi ultimi e ampliare, così, l’impiegabilità degli studenti”.
Fin dal 1995, nel suo Libro bianco la Commissione indicava
che “i sistemi più decentralizzati sono anche i più flessibili,
quelli che si adattano più rapidamente e che consentono lo sviluppo
di nuove forme di partenariato”
[32]
. Questi partenariati
pretendono, in modo esplicito, l’introduzione nella scuola di ciò
che vergognosamente viene chiamato “lo spirito d’impresa”. In
effetti bisogna sottolineare che la flessibilità che si richiede al
lavoratore non si limita solo al piano strettamente professionale.
Si tratta anche di accettare i nuovi metodi di organizzazione del
lavoro: produzione, flessibilità, lavoro notturno, orari variabili.
Questo esige di “responsabilizzare” il lavoratore, cioè di
inculcargli l’idea che il suo stesso interesse si identifica con
quello del padronato. La CE lamenta che “ i temi d’insegnamento
si concentrino sulla trasmissione delle competenze professionali,
lasciando che l’apprendistato delle attitudini professionali si
realizzi in una forma più o meno aleatoria. Senza dubbio
è possibile migliorare queste attitudini in forma parallela
all’insegnamento delle competenze professionali, facendo questo
indirettamente per mezzo dell’insegnamento”
[33]
A questo punto interviene la collaborazione con le
imprese. Così l’OCSE stima che il maggior vantaggio che si può
trarre dall’insegnamento, in alterantiva, sia: “ imparare ad
essere membri di un gruppo di lavoro, ad accettare a ricevere ordini
e a lavorare con gli altri. Si tratta anche di capire meglio il
ritmo del lavoro e di essere disposti a rispondere a esigenze
diverse durante le tappe successive di una carriera professionale”
[34]
La volontà di
derogolamentare colpisce anche le forme di diploma. In un contesto
di rapida rotazione della manodopera, il padronato desidera, come
abbiamo visto, flessibilizzare il mercato del lavoro. Questo è oggi
regolato fortemente dal sistema di qualificazione e di diploma che
dà luogo a negoziati collettivi a garanzia dei salari,
delle condizioni di lavoro e della protezione sociale. Per
distruggere questo “rigido sistema” le classi economiche
difendono la necessità di introdurre certificazioni “modulari”.
Queste hanno il doppio vantaggio di consentire un reclutamento più
blando (che esercita una maggiore pressione sui diritti sociali) e
di costituire una iniziazione per gli “aspiranti” affinchè
privilegino nei propri curricula tutti gli elementi che possono
essere efficaci (realmente o presuntamente) in termini di
occupazione.
In Germania, il piano
d’azione nazionale per aumentare il numero di posti scolastici
prevede che “gli studenti che non approvano completamente i loro
esami finali, otterranno certificati di qualificazione parziali
spendibili sul mercato del lavoro”
[35]
In Francia, la Carta “Un lycée pour le XXIe
siècle” propone che nell’insegnamento professionale “i
diplomi (siano) oggetto di modalità di certificazione modulare
adatta alla diversità degli accessi relativi alla qualificazione
dei candidati”
[36]
. Anche in Belgio il Décret sur les missions de l’enseignement
obligatoire, prevede che gli studenti potranno, in un futuro
prossimo, farsi certificare “moduli” di formazione anche qualora
non abbiano seguito o approvato l’insieme delle materie. Al fine
di uniformare questo flessibile riconoscimento delle competenze nell’ambito
dei paesi membri della UE, la Commissione europea ha preso l’iniziativa
di intraprendere una serie di ricerche sulla fattibilità di una “carta
delle competenze” elettronica, la famosa “skill’s card”
[37]
.
La scuola autonoma, precursore della scuola di mercato
Dalla creazione del
suo gruppo di lavoro Education, nel 1989, la Tavola Rotonda
degli Industriali non ha smesso di “incoraggiare modalità di
formazione meno istituzionali, più informali”
[38]
. La lobby padronale europea è stata perfettamente
ascoltata. I sistemi di insegnamento di tutti i paesi europe,i e a
tutti i livelli, seguono grosso modo la stessa evoluzione verso una
maggiore autonomia e verso una maggiore specializzazione tra i
centri di studio. Un
informativa della cellula europea Eurydice sottolinea il carattere
internazionale di questo movimento di “liberazione” del tessuto
scolastico: “Le riforme apportate all’amministrazione generale
del sistema scolastico, si riassumono principalmente in un movimento
progressivo di decentralizzazione e delega dei poteri verso la
società. Praticamente, tutti i paesi interessati hanno introdotti
nuove regolamentazioni che dislocano il potere decisionale dallo
stato centrale alle autorità regionali, locali, comunali e, da
queste, ai singoli centri di insegnamento”
[39]
.
In questi momenti,
dice l’OCSE, “ si ammette che l’apprendistato si sviluppi in
contesti multipli, formali ed informali” e precisa che “la
globalizzazione -
[40]
económica, política e culturale- rende obsoleta l’istituzione
localmente radicata e inserita in una determinata cultura che si
chiama “la Scuola” e che, allo stesso tempo, spetta all’”insegnante””
I guru della Commissione europea sono ancora più espliciti, dato
che stimano che “è arrivato il momento dell’educazione fuori
della Scuola e della liberazione del processo educativo che così,
se reso possibile, porterà ad un controllo da parte di fornitori di
educazione più innovatori delle strutture tradizionali.”
[41]
Evidentemente quello
di cui si tratta qui è dell’insegnamento privato mercantile, dell’educazione
“for profit” come dicono gli anglosassoni. Lo sviluppo della
domanda di formazione durante tutta la vita favorisce la sua ascesa
ed assicura il superamento progressivo delle soglie di redditività.
Sarebbe inspiegabile se non ci si lanciasse, prima o poi, alla
conquista dell’insegnamento di base. “Le evoluzioni multiple che
si sono rese necessarie per le trasformazioni economiche e
tecnologiche non permetteranno che i sistemi scolastici e i poteri
pubblici si assumano da soli la preparazione iniziale e la
formazione continua della manodopera” dice l’OCSE. Pertanto
bisogna “incontrare un settore di responsabilità che, dipendendo
dalle particolarità di ogni paese, garantisca al tempo stesso la
qualità e la flessibilità degli insegnamenti e delle formazioni
”.
[42]
EDUCATION BUSSINES+
La spesa totale per
l’educazione ammonta all’ingente somma di 2 miliardi di dollari,
cioè a più del doppio del mercato mondiale dell’automobile. Da
mettere l’acquolina in bocca a molti investitori che cercano dove
piazzare i loro capitali in forma redditizia. E soprattutto in
investimenti con un profitto durevole, come hanno dimostrato i
clamori borsistici delle “start-up” neotecnologiche.
Privatizzare l’insieme di questi due miliardi a breve periodo e
quasi impensabile. Senza dubbio, con l’azione congiunta della
diminuzione dei finanziamenti pubblici, della domanda di formazione
nel corso di tutta la vita e della deregolamentazione amministrativa
e finanziaria dell’educazione e dei servizi connessi, i soldi
stanno cominciando a cadere, poco a poco, nelle mani della “Education
Bussines”
Per la consulente
americana Eduventures, gli anni 90 “resteranno nella memoria per
aver permesso che l’insegnamento di mercato (“for-profit
education”) arrivasse a maturazione. Le fondamenta della vibrante
industria educativa del XXI secolo – iniziative imprenditoriali,
innovazione tecnologica e opportunità di mercato – hanno iniziato
a fondersi aumentando la propria massa critica ”
[43]
. Gli analisti del Merryl Lynch ritengono che il settore
scolastico oggi presenti caratteristiche simili a quelle del settore
sanitario durante gli anni 70: un mercato gigantesco e molto
frammentato, una bassa produttività, uno scarso livello tecnologico
che non chiede altro che di aumentare, un deficit di direzione
professionale e un tasso infimo di capitalizzazione (15.000 millones
di dollari nell’UE per un mercato di capitale di più di 16
miliardi). Tutto questo porta la società del valore alla
conclusione che la situazione è matura per una vasta
privatizzazione commerciale. Merryl Lynch cita, inoltre, tra i
fattori che stimolano la crescita di questo mercato "l“insoddisfazione
dei genitori relativamente all'insegnamento pubblico". Quindi,
quelli che hanno i mezzi finanziari per evitare le scuole statali
senza soldi, costituiscono una formidabile riserva di clienti per un
Education Bussiness in piena crescita. Negli Stati Uniti, un’informativa
del National Center for Education Statistics ha mostrato che,
nel 1993, il 72% delle famiglie le cui entrate superavano i 50.000
dollari, mandavano i figli alle scuole private o cambiavano
residenza perché potessero studiare nella scuola pubblica da essi
scelta..
[44]
Sembra molto difficile disporre di stime globali su
scala mondiale, ma si sa che solo negli USA il mercato di questa
nuova industria educativa ammontava, nel 1998, a 82 000 milioni di
dollari - 24 000 milioni di prodotti, 30 000 milioni di servizi e 28
000 di ingressi dalle scuole di tutti i tipi
[45]
. Un paese come l’Australia guadagna 55 000 milioni di
franchi belgi (7000 milioni di franchi) grazie alla esportazione dei
suoi corsi di formazione. La qualcosa suscitò, dall’altra parte,
l’invidia dell’ex ministro francese Claude Allègre, che istigò
i suoi compatrioti a conquistare a loro volta questo “grande
mercato del XXI secolo” . Conquistare? La Francia occupa
attualmente il secondo posto nel mercato educativo mondiale,
soprattutto grazie alla sua posizione di monopolio nel mondo
francofono.
Nel Regno Unito, la
società d’investimento Capital Strategies ha lanciato l’indice
borsistico “UK Education and training index” delle cui grandezze
non si smette di fare l’elogio: un investimento di
1000 sterline al momento del lancio di questo indice ne
avrebbe fruttate 3.405 a giugno del 2000. Un incremento del 240% che
va comparato con il +65% dell’indice generale della borsa di
Londra, il FTSE.
[46]
Tra i fattori che spiegano un incremento così notevole,
la Capital Strategies cita gli investimenti pubblici in computers e
centri di formazione per le nuove Tecnologie, i sempre più numerosi
partenariati tra università e industria e la subcontrattazione
sempre più significativa sui servizi educativi. Il solo mercato
delle subcontrattazioni “peserebbe” qualcosa come 5 mila milioni
di sterline.
Continuiamo con l’Inghilterra:
dal 1993 l’ispezione delle scuole primaria è stata portata a
termine in un 73% dei casi da organismi privati che, in questo modo,
coprono un mercato di 118 milioni di sterline. Nello stesso paese
anche la sostituzione della docenza assente si è convertita in una
attività lucrativa. La società Capstan, per esempio, manda ogni
giormo un migliaio di professori sostituti nelle scuole.
[47]
Negli Stati Uniti la società Edison Schools gestisce
in piena autonomia cirsa 125 centri d’insegnamento pubblico.
Un catalizzatore chiamato Internet
Uno dei
catalizzatori più potenti della trasformazione dell’insegnamento
in un grande mercato mondiale e, senza alcun dubbio, lo sviluppo
delle tecnologie della comunicazione a distanza e, in particolare,
il successo di Internet. Considerando che si sentono sempre più
strettamente pressate dalla competenza delle offerte di
teleinsegnamento che vengono da ambienti legati al mercato, le
università tradizionali decidono, una dopo l’altra, di fare
altrettanto.
Negli Stati Uniti, è
la Western governor’s University, una iniziativa di grandi gruppi
finanziari privati, ad aver dato inizio a questo movimento
attraverso una collaborazione con IBM e la Microsoft. Rapidamente,
anche le istituzioni più “istituzionali” hanno fatto lo stesso:
in questo modo, tre grandi università americane e una inglese
(Columbia, Stanford, Chicago y la London Schools of Economics) hanno
firmato un accordo con una compagnia specializzata nella diffusione
pedagógica vía Internet per impartire formazione a distanza nel
campo del commercio e delle finanze. Por il momento, queste
formacioni non sono state favorite dalla possibilità di concedere
diplomi, ma nessuno fa mistero del fatto che “questa idea esiste”.
Tra gli operatori privati, citiamo anche la Concord University
School of Law che offre formazioni attraverso Internet ed è diretta
dal Kaplan educational Centers, una industria specializzata da tempo
nell’aiuto per la preparazione di esami, a sua volta proprietà
della Washigton Post Company. Alcuni, come il MIT, considerano
questo mercato abbastanza importante come mezzo per offrire
formazione gratuita. Ma la strategia è chiara: accaparrarsi parti
del mercato puntando sulla convenienza al fine di fidelizzarsi una
clientela che, in seguito, non avrà più altra possibilità se non
quella di pagarsi molto caro questo insegnamento a distanza
Secondo uno studio
realizzato da International Data Corporation, il numero di studenti
degli istituti secondari americani che partecipano a corsi “on
line” dovrebbe triplicare tra il 2000 e il 2002 per raggiungere i
2,2 milioni, cioè il 15% degli studenti effettivi che frequentano l’insegnamento
secondario negli USA. Lo stesso studio prevede che, da adesso a
quella data, l’85% degli istituti offriranno formazione a
pagamento via Internet.
[48]
Potremmo rallegrarci di vedere come i tesori della
scienza e della cultura diventino accessibili per il maggior numero
delle persone. Ma questo significherebbe dimenticare che questi
saperi non saranno (in una forma durevole) gratuiti e che l’accesso
ad essi verrà riservato, quindi, solo a quelli che potranno
pagarselo. Significherebbe dimenticare soprattutto che in questo,
come in tutta la globalizzazione di mercato, una lotta al coltello
farà sì che sopravvivano soltanto alcuni. E’ la
standardizzazione commerciale e, pertanto, l’impoverimento del
sapere ciò che ci aspetta alla fine del cammino. A causa della
forza del mercato, una tecnologia potenzialmente emancipante si vede
volta nel suo contrario: in un drammatico impoverimento
intellettuale e culturale.
Tra gli insegnanti
sono in molti a non credere nella generalizzazione dell’insegnamento
a distanza via Internet. Perché, dicono, questo non funziona:
quello che essi fanno non può essere automatizzato. Può essere che
su questo aspetto abbiano ragione, ma ciò avverrà in tutti i modi,
qualli che ne siano le conseguenze per la qualità dell’insegnamento.
Perchè, spega David Noble “ la chiave non è l’educazione; la
chiave è il denaro”
[49]
Questo è talmente sicuro che l’industria Merril Lynch
ha dedicato uno studio di più di 300 pagine alle prospettive del
mercato dell’insegnamento online. In eso si constata che questo
settore rappresenta già in questo momento un mercato 9.400 milioni
di dollari che dovrebbe aumentare a 54000 milioni da qui al 2002.
[50]
Un altro importante
mercato per l’insegnamento a distanza via Interner: quello dei
tutors e degli aiuti per la preparazione agli esami. La página
ExamWeb propone, per esempio, una preparazione all’esame di base
SAP (Scholastic Aptitude Test) al prezzo di 345 dollari o, all’altro estremo della scolarizzazione, un preparazione
di California Bar (esame per l’accesso all’avvocatura in
California) per la modica somma di 1.694 dólares. Ma attenzione:
per questa somma voi non avrete né lezioni né diploma, soltanto
una preparazione per sostenere l’esame. Queste diverse forme di
insegnamento on line hanno permesso, negli USA, una esplosione del
numero di ragazzini che compiono i propri studi (primari e
secondari) in casa: il così detto “home schooling”. In
altri tempi riservato ai bambini delle zone rurali isolate o alle
famiglie borghesi che potevano permettersi di pagare dei precettori
ai propri figli, l’home schooling ha conosciuto uno
sviluppo fenomenale passando da 500.000 a 1,7 milioni di bambini in
10 anni. I genitori che vedono con angustia il degrado e l’aumento
della violenza nelle scuole pubbliche americane, sperano in questo
modo di trovare, attraverso l’insegnamento (o l’aiuto all’insegnamento)
a distanza su Internet, una soluzione alternativa di buona qualità
e non troppo costosa. Queste istituzioni comunicano con i genitori
attraverso la rete, li informano dei progresso raggiunti dall’alunno
e propongono a volte attività parascolastiche. Tutto ciò a
pagamento, ovviamente. Ma l’ammontare dei prezzi varia
considerevolmente con il numero di ore di aiuto individualizzato e
in proporzione inversa al volume di messaggi pubblicitari che
accompagnano le lezioni....
Mondializzazione
A considerare di
quello che pensano alcuni, il reale interesse di internet rispetto
allo sviluppo dell’insegnamento di mercato, si estrinseca meno
nelle sue capacità multimediali che nella sua capacità di
diffusione istantanea su scala planetaria, associata ad un costo
marginale quasi inesistente. Niente prova che il libro e il video
siano meno efficaci di internet dal punto di vidta pedagogico, salvo
che quest’ultimo supporta una incontestabile dimensione di
interattività. Ma, soprattutto, ogni libro, cassetta prodotta,
implica un costo di materia prima, di fabbricazione, di adeguamento,
di imballaggio, di spedizione e di diffusione, costi che vanno ad
aggiungersi alle spese d’investimento nella realizzazione del
proprio prodotto pedagogico e che aumentano proporzionalmente alla
ricaduta finanziaria in caso di scarse vendite. In Internet, nulla
di tutto ciò: una volta messo a punto il “sito”, il suo
contenuto può essere venduto e rivenduto su scala mondiale. Senza
spese ulteriori (salvo quelle della comunicazione elettronica che
sono a carico del compratore) Internet permette così di
renditizzare investimenti importanti nella concezione scientifica,
pedagogica e multimediale dei prodotti educativi. Ma questo implica
anche che, per essere pienamente renditizzabile, il mercato deve
essere mondiale. Due organismi internazionali (e diversi gruppi di
pressione privati) lavorano attivamente a favore di questa
“liberalizzazione del mercato mondiale dei servizi
educativi”: l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) e la
Banca Mondiale (BM).
Nel 1998, con gli
occhi al Vertice di Seattle, il segretariato dell’OMC aveva
costituito un gruppo di lavoro incaricato di studiare le prospettive
di una maggiore liberalizzazione dell’educazione: nella sua
informativa, sottolineava il rapido sviluppo dell’apprendistato a
distanza e salutava la moltiplicazione degli accordi tra le
istituzioni d’insegnamento e le imprese del settore delle TIC. L’informativa
si rallegrava anche di fronte alla sempre maggiore
deregolamentazione dell’insegnamento superiore in Europa e si
congratulava con i governi che avevano iniziato ad “abbandonare la
sfera del finanziamento esclusivamente pubblico per avvicinanrsi al
mercato, aprendosi a meccanismi di finanziamento alternativo”. Per
finire, l’OMC enumerava le numerose “barriere” che si
dovrebbero eliminare per liberare il commercio dei servizi educativi
e citava, per esempio, “gli accordi che limitano gli investimenti
diretti da parte dei fornitori stranieri di educazione” inclusa
“l’esistenza di monopoli governativi e di establishment
ampiamenti sovvenzionati dallo stato”,
Dal fallimento di
Seattle, sembra che i negoziati sull’apertura dell’insegnamento
alla competenza internazionale continuino a Genova, nell’ambito
dell’Accordo Generale sul Commercio e i Servizi (AGCS).
Da parte sua, la Banca
Mondiale cerca di consegnare l’insegnamento superiore e il ciclo
superiore d’insegnamento secondario all’avidità del settore
privato nei Paesi del Terzo Mondo. L’argomentazione della Banca
Mondiale è semplice: la priorità, nei paesi in via di sviluppo,
deve essere data all’alfabetizzazione. Senza dubbio, dato che la
BM respinge qualsiasi forma di condono del debito del Terzo Mondo e
ancora meno vuole lavorare per un commercio più giusto, non ci sono
altre soluzioni, dice, che riorientare la spesa pubblica per l’educazione
all’educazione di base. Negli altri livelli di insegnamento è
necessario che “si favorisca il ricorso al settore privato, che
questo sia per finanziare centri privati o per costituire un
supplemento delle entrate ai centri dello Stato”
[51]
Questa privatizzazione
aumenterà la spesa dei genitori per gli studi dei figli? Favorirà
lo sviluppo disuguale dei centri scolastici? La BM respinge queste
obiezioni: “la questine vitale, adesso, non è di sapere se forze
non governativi vadano a giocare un ruolo sempre maggiore nell’educazione
– questo è già chiaro – piuttosto di vedere come questi
sviluppi si possano integrare nelle strategie globali delle nazioni”
[52]
. Nel 1999, a Washington, la Banca Mondiale organizzò,
attraverso la sua filiale SFI (Sociedad de Financiación
Internacional), una conferenza dal titolo esplicito: “Opportunutà
di investimento nell’educazione privata nei paesi in via di
sviluppo”
[53]
La SFI inizia a costrure anche il servizio Edinvest,
“un forum per le persone, le società” che “fornisce
informazioni per rendere possibili gli investimenti privati a grande
scala”
[54]
Edinvest
[55]
illustra ai potenziali investitori quanto alle
relative possibilità di offerte per il mercato educativo dei paesi
in via di sviluppo. Il suo sito Internet è patrocinato da aziende
private come la Eduveres.com y Caliber. La Banca
Mondiale e la SFI erano anche ampiamente presenti nel primo World
Education Market, a Vancouver, nel maggio del 2000.
Durante il colloquio
di Washigton, Jack Maas, Lead Education Specialist della SFI,
esprimeva la propria ammirazione per una certa scuola del Gambia che
offre “un insegnamento di prima qualità” per la somma di 300
dollari USA all’ano. “E’ davvero un’occasione. Noi possiamo
spendere 300 dollari in una sola notte in un Hotel occidentale,
così che è davvero un affare”
[56]
. E’ necessario ricordare che le entrate medie degli
abitanti del Gambia sono inferiori ai 950 dollari USA l’anno…?
Conclusioni
L’adeguamento dell’insegnamento
alle nuove aspettative delle potenze industriali e finanziarie ha
due drammatiche conseguenze: la strumentalizzazione della scuola al
servizio degli interessi economici e l’aggravio delle
diseuguaglianze sociali nell’accesso ai saperi. La scuola si era
massificata permettendo ai figli del popolo di accedere
- sia pure parzialmente, timidamente
– alla ricchezza dei saperi che, fino a quel momento, erano
riservati ai figli e alle figlie della borghesia. Adesso che la
massificazione è giunta al suo termine, si commina all’insegnamento
perché torni a situare l’istruzione del popolo nei limiti da cui
mai si doveva affrancare: imparare a produrre, a consumare e, in
forma complementare, a rispettare le istituzioni esistenti. Né
più, né meno.
L’evoluzione attuale
dei sistemi d’insegnamento si realizza a detrimento dell’accesso
ai saperi, nella dimensione in cui essi permettono di capire il
mondo e, quindi, di intervenire su di esso. Precisamente è
controproducente al massimo per quelli che, in questo modo, vengono
privati delle armi intellettuali che sarebbero necessarie per la
loro emancipazione collettiva. Questa scuola della
produzione sarà, anche più di oggi, un’istanza di riproduzione e
di conservazione sociale. Al colmo dell’ipocrisia, nel nome della
lotta contro il fallimento, si seleziona e si abbassa il livello
delle esigenze per una parte ( quella che formerà la massa di mano
d’opera poco qualificata richiesta dalla “nuova” economia) e,
allo stesso tempo, si incitano gli altri a cercare nei “fornitori
di educazioni più innovatori” i saperi che faranno di loro la
punta di lancia della competizione internazionale: la
deregolamentazione dei programmi e delle strutture, l’esplosione
di forme diverse di insegnamento a pagamento, tutto ciò rappresenta
il terreno adatto in cui le diseuguaglianze di classe si
trasformeranno, con maggiore efficacia di oggi, in diseuguaglianze
di accesso ai saperi.
Quanto alla scuola
pubblica questa tenderà unicamente, secondo la confessione dello
stesso OCSE, ad “assicurare l’accesso all’apprendistato di
quelli che non rappresenteranno mai un mercato redditizio e la cui
esclusione dalla società in generale si accentuerà in misura in
cui altri continueranno a fare progressi”
[57]
Tutto questo è
inevitabile? Le determinazioni economiche che lavorano in questo
settore hanno l’aspetto di un compressore, ma il cammino della
storia non è lineare. La distruzione della Scuola pubblica e delle
sue aspirazioni democratiche, l’impoverimento del contenuto dell’insegnamento
obbligatorio, le condizioni di lavoro degli insegnanti, tutto questo
inizia a suscitare reazioni, resistenze, lotte.
(…)
I pensatori dell’OCSE
sono ben coscienti di questo: “La riforma più necessaria, e la
più pericolosa, è quella delle imprese pubbliche dato che si
tratta di riorganizzarle o di privatizzarle. Questa riforma è molto
difficile perché i salariati di questo settore si stanno
attualmente ben organizzando e controllano ambiti strategici. Si
preparano a lottare con tutti i mezzi possibili (….) Fino a che il
governo sarà sostenuto dall’opinione pubblica (…) Quanto più
un paese ha sviluppato un ampio settore pubblico, tanto più sarà
difficile portare a termine questa riforma”.
Il futuro dell’insegnamento
è ancora da scrivere. Sarà il frutto di queste forze contrarie,
del loro affrontarsi. (……).
Nico Hirtt, mayo 2001 Para tomar contacto
con el autor: Nico.hirtt@skynet.be Para consultar la mayoría de los documentos citados aquí visite el sitio Internet de L’Appel pour une école démocratique: http://users.skynet.be/aped [1] Comisión europea; Rapport du Groupe de Réfléxion sur l'Education et la Formation "Accomplir l'Europe par l'Education et la Formation" Resumen y recomendaciones, diciembre de 1996. [2] Citado por K. De Clerck, Momenten uit de gesdchiedenis vanhet Belgischonderwijs, De Sikkel, Antwerpen [3] Citado por Edwy Pénel en Le Monde del 14 de setiembre de 1980. [4] INSEE-Première, nº 488, septiembre 1996. [5] Anne Van Haetch, L’enseignement rénové, de l’origine à l’éclipse, éditions de l’ULB, Bruxelles 1985. [6] INSEE-première, nº 469 julio 1996. [7] Barbara Tan , Blijvende sociale ongelijkheden in het Vlaamse onderwijs, CSB_Berichten, Antwuerpen, mayo 1988. [8] L’insertion profesionnelle des jeunes lycéens: Nota informativa del Ministerio de la Educación nacional, la Investigación y la Tecnología 18 de junio de 1998 ISSN 1286- 9392, situación a 1 de febrero de 1997.
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