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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Valutazione specchio di una società in crisi

di Stefano Stefanel

  

         La società italiana è in forte crisi e non riesce più a trovare una direzione condivisa questo è sotto gli occhi di tutti, ma nella scuola tutto diventa ancora più complicato. La crisi italiana va a frangersi sul problema della valutazione, a tutti i livelli, incluso quello scolastico. Teoricamente gli italiani sono favorevoli alla valutazione e al merito, ma praticamente lo sono solo se valutati sono gli altri e quando il merito non va a toccare diritti presunti o acquisiti. Così si assiste sul tema della valutazione ad una lotta di estremismi tra coloro che la vorrebbero applicare in forma invasiva e punitiva (Roger Abramavel, Renato Brunetta, Luciano Hinna) e coloro che invece non vogliono alcuna valutazione paventando meccanismi di schedatura alla base della ricerca del merito (Cobas, partiti di sinistra, parti consistenti del mondo sindacale tradizionale). Da questo imbuto non se ne sta venendo fuori e si perde molto tempo a mettere in moto meccanismi valutativi complicati, sempre sperimentali, sempre ostacolati. Nel mondo della scuola tutto viene vissuto come un’ingerenza e le ostilità verso meccanismi tendenzialmente neutrali di valutazione (Invalsi, Ocse) trovano albergo sia in coloro che sono favorevoli alla scuola gentiliana di stampo comunque umanistico (Paola Mastrocola), sia in coloro che propugnano didattiche “alla don Milani” o “democratiche” (come Marina Boscaino).

 

INVALSI

         L’estensione delle Prove Invalsi alla Scuola secondaria di 2° grado ha aperto poi un ennesimo fronte di sconto sul problema della valutazione di sistema, e sulla connessione tra questa, la “schedatura” degli alunni e la valutazione premiante e punitiva. I Cobas sono entrati nel dibattito attraverso la loro tradizionale vena distruttiva, ma hanno rappresentato un sentire diffuso di molti docenti, lontani anni luce sia da un’idea di scuola europea, sia dalla società della conoscenza, che richiede valutazioni esterne e di sistema per essere competitivi. Il fatto che tutto si sia stemperato in una bolla mediatica e la protesta dei Cobas contro l’Invalsi si sia derubricata a folklore dice molto su quello che il Paese sente nel confronto della valutazione e del merito.  Il Contratto collettivo nazionale del 29 novembre 2007 scrive, ad esempio, che “tra gli adempimenti individuali dovuti rientrano le attività relative” allo “svolgimento di scrutini ed esami, compresa la compilazione degli atti relativi alla valutazione” (comma 3, lettera c). Alla luce di questo passaggio del Contratto dovrebbe apparire surreale tutto il dibattito sorto attorno all’obbligatorietà o meno delle Prove Invalsi, reso però ancora più bizantino dalla comunicazione del Direttore generale Carmela Palumbo: “quindi apparirebbero quantomeno improprie le delibere collegiali che avessero ad oggetto la mancata adesione delle istituzioni scolastiche alle rilevazioni nazionali degli apprendimenti”. Anche perché questa frase trasmette la comunicazione che il Miur non si ritiene in grado di “obbligare” le scuole a partecipare alla Prova Invalsi. Una parte maggioritaria dei docenti considera uno spartiacque solo l’obbligatorietà e quindi è disponibilissimo a prendere deliberazioni improprie di cui non sarà mai chiamato a rispondere. D’altronde il Miur ha passivamente accettato a suo tempo deliberazioni che “respingevano” la Riforma Moratti.

         La distanza tra il mondo reale dell’Europa e dell’Ocse e l’Italia sta nella lettura di quanto ho sopra esposto, che dimostra come una parte consistente del sistema scolastico italiano non considera le Prove Invalsi un elemento di valutazione, trasmettendo ad alunni e famiglie il messaggio che siamo di fronte all’ennesima perdita di tempo. Gli alunni poi non saranno valutati anche attraverso l’Invalsi e questo perché i docenti vogliono valutare tutto in proprio (come mi pare accada solo in Lettonia e Romania) e danno giudizi su una materia (la valutazione di sistema) di cui non ne sanno nulla. Ciò non vuol dire che le Prove Invalsi non siano imperfette, troppo nozionistiche e forse manipolabili. Ma non vuol dire neppure che non siamo molto più serie e rigorose della stragrande maggioranza delle valutazioni dei docenti italiani, capaci di misurare spesso soltanto l’adeguamento dello studente a quando “insegnato” dal docente. Se l’Invalsi zoppica, tutto il sistema valutativo nazionale autoreferenziale e privo di controllo (Tar escluso) zoppica molto di più e la nostra debole competitività nella società della conoscenza ne sta facendo le spese.

         Certamente solo in Italia può accadere che una prova di valutazione nazionale e sistematica non venga considerata elemento di valutazione da molte scuole e quindi ritenuta non parte dei dovere di un docente, ma un semplice meccanismo collaborativo (per i Cobas addirittura “collaborazionista” nei confronti di un Miur che sta distruggendo la scuola statale). L’Invalsi non ha molta competenza sulla didattica in classe, compito elettivo dei docenti, ma i docenti non hanno  alcuna competenza sulla valutazione di sistema, compito elettivo dell’Invalsi. Dunque sarebbe normale verificare dati e risultati e produrre anche pareri e dibattiti. Le posizioni di grande buon senso e buona cultura come quelle espresse da Franco De Anna (Aggiustare la mira o inventarsi i bersagli? A proposito delle rilevazioni Invalsi, su www.educationduepuntozero.it del 10 maggio 2011) o di Fiorella Farinelli (Eccesso di fuoco sui test invalsi, il manifesto del 17 maggio 2011) sono comunque apparse minoritarie in un mondo della scuola diviso tra boicottaggio e superficialità e comunque ancorato all’idea che la valutazione migliore è quella fatta dal docente di classe, che insegna a suo modo e valuta a suo modo, usando i criteri del Collegio docenti o del mondo scientifico e accademico come parole di sfondo cui dare il significato ritenuto più vicino alla propria idea di scuola.

 

IL COMPLOTTO

Quello che mi pare “improprio” è dare giudizi trancianti su cose non di competenza e poi organizzare azioni di boicottaggio, pubblicizzandole come azioni di supporto alla scuola statale. La scuola statale italiana non ne può più di corporativismo, boicottaggi, proteste “democratiche”, scioperi a sorpresa, tagli orizzontali, residui attivi non riconosciuti: per potersi organizzare bisogna mettere fine a tutto il caos che circonda il sistema scolastico italiano.

Purtroppo si sta facendo strada in Italia la tesi che noi abbiamo un’ottima scuola e che un complotto nazionale/internazionale sta falsificando i dati per dimostrare che invece la scuola statale italiana va male. Secondo questa idea l’Invalsi vorrebbe dimostrare che un sistema scolastico ben funzionante è invece carente e dunque debba essere modificato. Secondo questa tesi chi boicotta l’Invalsi aiuta la scuola a salvarsi dai suoi detrattori. Il dato oggettivo rimane la pochissima attenzione delle scuole ai risultati di una valutazione di sistema, ritenuta parte opzionale e non integrante dell’organizzazione scolastica. Su molti siti e in alcuni libri anche interessanti (Girolamo De Michele, La scuola è di tutti, minimum fax, 2010) si ribatte con forza sull’esistenza di questo  ”complotto” per declassare nell’opinione pubblica mondiale e nazionale il sistema scolastico italiano, che invece è ottimo. Se poi il nostro precariato è a livelli altissimi, le difficoltà occupazionali dei nostri laureati sotto gli occhi di tutti e la competitività italiana nella società della conoscenza mondiale modestissima questi sono dati ritenuti insignificanti.

Due recenti contributi dall’America potrebbero aiutare a comprendere il problema nostrano, perché mostrano come la valutazione sia centrale in ogni sistema che vuole migliorare. Intanto io credo vada sfatato il “mito” secondo cui la scuola americana è debole e il sistema pubblico disastrato. La scuola americana è in difficoltà e cerca di uscirne con metodologie innovative (No Child Left Behind, Charter school, ecc.) che noi non abbiamo il coraggio neppure di prendere in considerazione. E’ un sistema in movimento, ma lancia messaggi interessanti. Kim Marshall (Is Merit Pay The Answer?, su “Education Week” del 15 dicembre 2009) attacca il sistema che vuole premiare economicamente i docenti in base ai risultato degli alunni ai test, ma lo fa per rilanciare l’idea di valutazione dei docenti (“Si deve allora rimanere ancorati al vecchio sistema retributivo basato sull’anzianità doi servizio e i titoli accademici? No!”) come centrale per garantire un corretto sistema di istruzione. Inoltre Marshall chiarisce bene il problema della valutazione: il valore aggiunto lo si misura nel medio periodo, anche perché “occorrono almeno tre anni di dati per misurare l’efficacia di ciascun insegnante individualmente”. Tre anni mi sembrano un periodo corretto e non vedo difficoltà a cominciare oggi e avere i primi risultati nel 2014. Invece noi non cominciamo mai e quindi non abbiamo i risultati mai.

Jonathan Mahler (La lezione del Bronx, su “Internazionale” del 29 aprile 2011) è ancora più esplicito e pone in capo al dirigente scolastico la gestione della scuola e la valutazione dei docenti. Nell’esperienza raccontata il dirigente scolastico decide se attuare un programma di supporto o licenziare il docente “debole”, ammettendo che non è colpa dell’alunno se il docente non è capace di insegnare e che è comunque necessario avere un metodo rapido per valutare e decidere. Tutto questo passa naturalmente per la valutazione dei dirigenti e per il loro possibile licenziamento in caso di inefficienza e inefficacia della scuola. Una volta stabilito questo però ne deve derivare che chi viene valutato e si gioca il posto un minimo di autonomia decisionale la deve avere. Ma in Italia sembra sempre che ci si debba fermare a discutere sui metodi di valutazione e limitarsi a valutare gli alunni. Lo sguardo complessivo è di basso orizzonte, ma non si vede ancora una vera luce condivisa.


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