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Valutazione specchio di una società in crisi di Stefano Stefanel
La società italiana è in forte crisi e
non riesce più a trovare una direzione condivisa questo è sotto gli
occhi di tutti, ma nella scuola tutto diventa ancora più complicato. La
crisi italiana va a frangersi sul problema della valutazione, a tutti i
livelli, incluso quello scolastico. Teoricamente gli italiani sono
favorevoli alla valutazione e al merito, ma praticamente lo sono solo se
valutati sono gli altri e quando il merito non va a toccare diritti
presunti o acquisiti. Così si assiste sul tema della valutazione ad una
lotta di estremismi tra coloro che la vorrebbero applicare in forma
invasiva e punitiva (Roger Abramavel, Renato Brunetta, Luciano Hinna) e
coloro che invece non vogliono alcuna valutazione paventando meccanismi
di schedatura alla base della ricerca del merito (Cobas, partiti di
sinistra, parti consistenti del mondo sindacale tradizionale). Da questo
imbuto non se ne sta venendo fuori e si perde molto tempo a mettere in
moto meccanismi valutativi complicati, sempre sperimentali, sempre
ostacolati. Nel mondo della scuola tutto viene vissuto come un’ingerenza
e le ostilità verso meccanismi tendenzialmente neutrali di valutazione
(Invalsi, Ocse) trovano albergo sia in coloro che sono favorevoli alla
scuola gentiliana di stampo comunque umanistico (Paola Mastrocola), sia
in coloro che propugnano didattiche “alla don Milani” o “democratiche”
(come Marina Boscaino). INVALSI
L’estensione delle Prove Invalsi alla
Scuola secondaria di 2° grado ha aperto poi un ennesimo fronte di
sconto sul problema della valutazione di sistema, e sulla connessione
tra questa, la “schedatura” degli alunni e la valutazione premiante e
punitiva. I Cobas sono entrati nel dibattito attraverso la loro
tradizionale vena distruttiva, ma hanno rappresentato un sentire diffuso
di molti docenti, lontani anni luce sia da un’idea di scuola europea,
sia dalla società della conoscenza, che richiede valutazioni esterne e
di sistema per essere competitivi. Il fatto che tutto si sia stemperato
in una bolla mediatica e la protesta dei Cobas contro l’Invalsi si sia
derubricata a folklore dice molto su quello che il Paese sente nel
confronto della valutazione e del merito.
Il Contratto collettivo
nazionale del 29 novembre 2007 scrive, ad esempio, che “tra gli
adempimenti individuali dovuti rientrano le attività relative” allo
“svolgimento di scrutini ed esami, compresa la compilazione degli
atti relativi alla valutazione” (comma 3, lettera c). Alla luce di
questo passaggio del Contratto dovrebbe apparire surreale tutto il
dibattito sorto attorno all’obbligatorietà o meno delle Prove Invalsi,
reso però ancora più bizantino dalla comunicazione del Direttore
generale Carmela Palumbo: “quindi apparirebbero quantomeno improprie
le delibere collegiali che avessero ad oggetto la mancata adesione delle
istituzioni scolastiche alle rilevazioni nazionali degli apprendimenti”.
Anche perché questa frase trasmette la comunicazione che il Miur non si
ritiene in grado di “obbligare” le scuole a partecipare alla Prova
Invalsi. Una parte maggioritaria dei docenti considera uno spartiacque
solo l’obbligatorietà e quindi è disponibilissimo a prendere
deliberazioni improprie di cui non sarà mai chiamato a rispondere.
D’altronde il Miur ha passivamente accettato a suo tempo deliberazioni
che “respingevano” la Riforma Moratti.
La distanza tra il mondo reale
dell’Europa e dell’Ocse e l’Italia sta nella lettura di quanto ho sopra
esposto, che dimostra come una parte consistente del sistema scolastico
italiano non considera le Prove Invalsi un elemento di valutazione,
trasmettendo ad alunni e famiglie il messaggio che siamo di fronte
all’ennesima perdita di tempo. Gli alunni poi non saranno valutati anche
attraverso l’Invalsi e questo perché i docenti vogliono valutare tutto
in proprio (come mi pare accada solo in Lettonia e Romania) e danno
giudizi su una materia (la valutazione di sistema) di cui non ne sanno
nulla. Ciò non vuol dire che le Prove Invalsi non siano imperfette,
troppo nozionistiche e forse manipolabili. Ma non vuol dire neppure che
non siamo molto più serie e rigorose della stragrande maggioranza delle
valutazioni dei docenti italiani, capaci di misurare spesso soltanto
l’adeguamento dello studente a quando “insegnato” dal docente. Se
l’Invalsi zoppica, tutto il sistema valutativo nazionale
autoreferenziale e privo di controllo (Tar escluso) zoppica molto di più
e la nostra debole competitività nella società della conoscenza ne sta
facendo le spese.
Certamente solo in Italia può accadere
che una prova di valutazione nazionale e sistematica non venga
considerata elemento di valutazione da molte scuole e quindi ritenuta
non parte dei dovere di un docente, ma un semplice meccanismo
collaborativo (per i Cobas addirittura “collaborazionista” nei confronti
di un Miur che sta distruggendo la scuola statale). L’Invalsi non ha
molta competenza sulla didattica in classe, compito elettivo dei
docenti, ma i docenti non hanno
alcuna competenza sulla valutazione di sistema, compito elettivo
dell’Invalsi. Dunque sarebbe normale verificare dati e risultati e
produrre anche pareri e dibattiti. Le posizioni di grande buon senso e
buona cultura come quelle espresse da Franco De Anna (Aggiustare
la mira o inventarsi i bersagli? A proposito delle rilevazioni Invalsi,
su www.educationduepuntozero.it del 10
maggio 2011) o di Fiorella Farinelli (Eccesso
di fuoco sui test invalsi,
il manifesto del 17 maggio
2011) sono comunque apparse minoritarie in un mondo della scuola diviso
tra boicottaggio e superficialità e comunque ancorato all’idea che la
valutazione migliore è quella fatta dal docente di classe, che insegna a
suo modo e valuta a suo modo, usando i criteri del Collegio docenti o
del mondo scientifico e accademico come parole di sfondo cui dare il
significato ritenuto più vicino alla propria idea di scuola. IL COMPLOTTO Quello che mi pare “improprio” è dare giudizi
trancianti su cose non di competenza e poi organizzare azioni di
boicottaggio, pubblicizzandole come azioni di supporto alla scuola
statale. La scuola statale italiana non ne può più di corporativismo,
boicottaggi, proteste “democratiche”, scioperi a sorpresa, tagli
orizzontali, residui attivi non riconosciuti: per potersi organizzare
bisogna mettere fine a tutto il caos che circonda il sistema scolastico
italiano. Purtroppo si sta facendo strada in Italia la tesi
che noi abbiamo un’ottima scuola e che un complotto
nazionale/internazionale sta falsificando i dati per dimostrare che
invece la scuola statale italiana va male. Secondo questa idea l’Invalsi
vorrebbe dimostrare che un sistema scolastico ben funzionante è invece
carente e dunque debba essere modificato. Secondo questa tesi chi
boicotta l’Invalsi aiuta la scuola a salvarsi dai suoi detrattori. Il
dato oggettivo rimane la pochissima attenzione delle scuole ai risultati
di una valutazione di sistema, ritenuta parte opzionale e non integrante
dell’organizzazione scolastica. Su molti siti e in alcuni libri anche
interessanti (Girolamo De Michele,
La scuola è di tutti,
minimum fax, 2010) si ribatte con forza sull’esistenza di questo
”complotto” per declassare
nell’opinione pubblica mondiale e nazionale il sistema scolastico
italiano, che invece è ottimo. Se poi il nostro precariato è a livelli
altissimi, le difficoltà occupazionali dei nostri laureati sotto gli
occhi di tutti e la competitività italiana nella società della
conoscenza mondiale modestissima questi sono dati ritenuti
insignificanti. Due recenti contributi dall’America potrebbero
aiutare a comprendere il problema nostrano, perché mostrano come la
valutazione sia centrale in ogni sistema che vuole migliorare. Intanto
io credo vada sfatato il “mito” secondo cui la scuola americana è debole
e il sistema pubblico disastrato. La scuola americana è in difficoltà e
cerca di uscirne con metodologie innovative (No
Child Left Behind, Charter
school, ecc.) che noi non abbiamo il coraggio neppure di prendere in
considerazione. E’ un sistema in movimento, ma lancia messaggi
interessanti. Kim Marshall (Is
Merit Pay The Answer?, su “Education Week” del 15 dicembre 2009)
attacca il sistema che vuole premiare economicamente i docenti in base
ai risultato degli alunni ai test, ma lo fa per rilanciare l’idea di
valutazione dei docenti (“Si deve
allora rimanere ancorati al vecchio sistema retributivo basato
sull’anzianità doi servizio e i titoli accademici? No!”) come
centrale per garantire un corretto sistema di istruzione. Inoltre
Marshall chiarisce bene il problema della valutazione: il valore
aggiunto lo si misura nel medio periodo, anche perché
“occorrono almeno tre anni di
dati per misurare l’efficacia di ciascun insegnante individualmente”.
Tre anni mi sembrano un periodo corretto e non vedo difficoltà a
cominciare oggi e avere i primi risultati nel 2014. Invece noi non
cominciamo mai e quindi non abbiamo i risultati mai. Jonathan Mahler (La
lezione del Bronx, su “Internazionale” del 29 aprile 2011) è
ancora più esplicito e pone in capo al dirigente scolastico la gestione
della scuola e la valutazione dei docenti. Nell’esperienza raccontata il
dirigente scolastico decide se attuare un programma di supporto o
licenziare il docente “debole”, ammettendo che non è colpa dell’alunno
se il docente non è capace di insegnare e che è comunque necessario
avere un metodo rapido per valutare e decidere. Tutto questo passa
naturalmente per la valutazione dei dirigenti e per il loro possibile
licenziamento in caso di inefficienza e inefficacia della scuola. Una
volta stabilito questo però ne deve derivare che chi viene valutato e si
gioca il posto un minimo di autonomia decisionale la deve avere. Ma in
Italia sembra sempre che ci si debba fermare a discutere sui metodi di
valutazione e limitarsi a valutare gli alunni. Lo sguardo complessivo è
di basso orizzonte, ma non si vede ancora una vera luce condivisa.
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