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LA SCUOLA REITERA L’ERRORE DI CARTESIO E DI PIAGET
di Pasquale Picone Il Liceo delle Scienze Umane è la nuova denominazione dell’Istituto Magistrale, la scuola superiore dove, dal secondo dopoguerra del Novecento, c’è stato l’insegnamento specifico di psicologia generale e dello sviluppo. Un indirizzo di scuola superiore che in Italia ha contribuito, per oltre mezzo secolo, a formare i docenti della scuola di base: scuola dell’infanzia ed elementare. Nel curricolo di psicologia del primo anno (quattro ore a settimana) le lezioni iniziali dell’anno scolastico sono dedicate all’unità didattica sugli organi di senso, propedeutica ai moduli di apprendimento sulla percezione. Ogni anno si ripete puntualmente la stessa scena. Quando il docente chiede qual è l’organo di senso del tatto, la stragrande maggioranza degli studenti, rispondono: “Le mani, è ovvio!”. Non è del tutto semplice per il docente, come potrebbe apparire, far assimilare in tempi brevi agli studenti la riflessione sul fatto che le qualità degli stimoli tattili sono rilevabili diffusamente su tutta la pelle, compreso, ad es., il cuoio capelluto o la pianta del piede. L’assimilazione, nonostante l’inequivocabilità, l’evidenza e l’mmediatezza dell’esperienza sensoriale, in quanto alla portata diretta di ogni singolo studente, richiede tempi lunghi. Come si spiega che i precedenti fattori non sono sufficienti a produrre in tempi brevi la stabilizzazione di una chiarificazione concettuale? Osservare l’inerzia di concetti, idee e rappresentazioni, è sempre molto istruttivo per chi si occupa di processi cognitivi e di insegnamento/apprendimento. Una simile difficoltà mette a nudo la reiterazione, l’inossidabilità, di rappresentazioni precoci che si oppongono pervicacemente alla revisione e al ri-orientamento, in questo specifico caso, della propria immagine corporea. Ancora più problematica risulta l’assimilazione, e la stabilizzazione nel tempo, del concetto della pelle come vero e proprio organo di senso del tatto. Una simile problematicità si osserva lungo il corso dell’intero anno scolastico, attraverso momenti diversificati dell’attività didattica. Sia in relazione alle verifiche del profitto scolastico nei periodici colloqui individuali, sia nei dibattiti e nelle discussioni collettive sui processi psicologici. Anche nei successivi moduli di apprendimento, i quali richiamano direttamente o indirettamente problemi di percezione, il concetto errato delle mani come organo del tatto riaffiora di tanto in tanto. Testimoniando una certa inossidabilità ad aggiornarne la concettualizzazione. Per l’osservatore di alcuni processi cognitivi della mente degli adolescenti, la prova del nove, del rifiuto delle mani a cedere il ruolo di organo del tatto, si ottiene al secondo anno. Durante le prime lezioni del nuovo anno scolastico, quando si vanno a richiamare i concetti sulla percezione, sui quali si è lavorato nel corso dell’intero anno scolastico precedente, il vecchio concetto delle mani-organo si riaffaccia, in alcuni studenti, con inesorabile puntualità. Per i docenti è un’esperienza veramente impressionante, proveniente dal vivo del lavoro d’aula, dell’errore di Piaget segnalato a suo tempo da H. Gardner, lo studioso delle intelligenze multiple. Egli dice: «Io sostengo che, quando ha affermato che i modi di conoscere più sofisticati del bambino più grande eliminano le sue forme precedenti di conoscenza del mondo, Piaget ha commesso un errore fondamentale. Forse ciò avviene nel caso degli esperti; ma ricerche condotte su studenti comuni rivelano una realtà drammaticamente diversa. Per lo più, le prime concezioni e i primi fraintendimenti dei bambini durano per tutta l’età scolare; e una volta che il giovane abbia abbandonato l’ambiente scolastico, queste prime visioni del mondo possono benissimo emergere (o riemergere) in tutta la loro vitalità. Lungi dall’essere state sradicate o trasformate, semplicemente hanno vissuto una vita sotterranea; al pari dei ricordi repressi dell’infanzia, si fanno avanti nelle situazioni in cui sembrano appropriate». Gardner H. Educare al comprendere. Stereotipi infantili e apprendimento scolastico. Milano, Feltrinelli, 1991, p.39. Ora, per capire l’eziologia di un simile processo, bisogna analizzare l’origine precoce della rappresentazione delle mani-organo. Basta recarsi in una qualsiasi aula di prima elementare ed osservarne le pareti. I cartelloni didattici riproducono l’insegnamento di alcuni principii di Comenio, filosofo ermetico e fondatore della pedagogia moderna. Nell’Orbis sensualium pictus, scritto nel 1653-54, Comenio illustrava le ragioni di associare sempre delle immagini concrete all’apprendimento della lettura e della scrittura di parole. Nelle aule della prima elementare in Italia, a fianco della parola “vista”, i cartelloni riproducono l’immagine degli occhi, all’olfatto corrisponde l’immagine del naso, e così via. Sino alla parola “tatto”, alla quale corrispondono le mani. Tale rappresentazione precoce costituisce un imprinting che, se non corretta, aggiornata ed integrata, perdurerà tutta la vita. Distorcendo, di fatto, la mappa cognitiva dello schema corporeo in larghi strati della popolazione. Tuttavia, questo primo resoconto sulla corretta concettualizzazione della pelle come organo di senso, non è sufficiente per descrivere la profondità e l’ampiezza della disfunzione di una rappresentazione che gioca un ruolo non trascurabile nell’elaborazione dell’immagine di sé e della vita di relazione, soprattutto nell’adolescenza. Quest’ultimo, inteso come periodo “costruttivo”, ma non certamente esaustivo, dei fondamenti dell’immagine di sé. E’ nell’esperienza, di chiunque rifletta, il prolungarsi di elementi adolescenziali nella vita adulta. La psicoanalisi ci ha documentato la sostanziale ricorsività, in stadi di sviluppo posteriori, dei processi specifici di fasi precedenti dell’evoluzione psichica. Esistono altri due vertici di osservazione grazie ai quali si può rendere più completa la rappresentazione del ruolo giocato dalla pelle nella vita umana. E coglierne altresì la dissonanza cognitiva come esito di un processo cumulativo ingenerato, inizialmente dalla buona intenzione della semplificazione, da quei cartelloni didattici di prima elementare, nel corso dei diversi stadi dello sviluppo della personalità. Negli studi sul fenomeno dell’attaccamento tra madre e bambino, condotti da Harlow e Bowlby ed in quelli, leggibili in diretta continuità con i precedenti, sullo sviluppo affettivo di Winnicott, Spitz ed altri, il ruolo della pelle nell’allattamento, nell’abbraccio e nelle interazioni di accudimento, risulta cruciale. Una madre depressa o demotivata (pensiamo ai casi di bambini frutto di gravidanze non desiderate) trasmetterà il suo stato emotivo attraverso un insufficiente contatto epidermico. Il bambino che non riceve contatti cutanei si ammala più facilmente e, nei casi più gravi, può sviluppare una depressione anaclitica. Alcune esperienze hanno dimostrato che bambini prematuri sottoposti a massaggi e carezze, riprendono ed intensificano la crescita, rispetto ad altri che non ricevono gli stessi stimoli cutanei. Da questo complesso di ricerche si ricava una rappresentazione della pelle come organo non solo del tatto ma anche di trasmissione delle emozioni. Un terzo stadio della rappresentazione della pelle è ancora più complesso e profondo, poiché implica una funzione simbolica inerente alla vita inconscia. Una rappresentazione che giunge a configurare la pelle, per così dire, come organo della socializzazione. Questo stadio lo si osserva a proposito dei gruppi di adolescenti. «A differenza delle “compagnie”, tipiche del periodo della latenza, questi gruppi sono tenuti insieme più che dalle affinità, dall’eterogeneità dei membri. Sono gruppi, cioè, che permettono una molteplicità di identificazioni. Ogni membro del gruppo è vissuto come una parte del Sé e l’intero gruppo come un contenitore di tutte le parti scisse. Il gruppo diventa, simbolicamente, l’equivalente psichico della pelle» (Canestrari R., Psicologia generale e dello sviluppo, Bologna, Clueb, 1984, p.591). L’interesse di questa configurazione riveste un particolare interesse per lo sviluppo del Sé che, nella concezione junghiana della psiche, rappresenta sia la personalità globale che il vero nucleo centrale della personalità stessa. Il Sé, insieme al processo di individuazione e alla funzione trascendente si posizionano come categorie portanti dell’intero contributo di C. G. Jung, il cui pensiero costituisce l’esito più recente della filosofia ermetica. All’equivalente psichico della pelle, dove si integrano le parti scisse del Sé, si dovrebbero connettere anche le riflessioni di non pochi autori che vedono la condizione attuale dell’adolescenza caratterizzata da multiformi “mutilazioni del Sé”: «Il narcisismo naturale è sempre meno contenuto dai limiti offerti dagli adulti. Anzi, vengono costantemente suggerite attese infinite e viene sminuito e ridotto lo spazio e il tempo dedicati alla costruzione del sé; allo stesso tempo però, il mondo mostra tutto intorno limiti terribili quali l’Aids, le guerre, la mancanza di lavoro e le nuove povertà, il disastro ambientale che sta provocando il progressivo inquinamento del pianeta e la distruzione dell’ecosistema eccetera. La costruzione del sé, possibile prima del confronto con il reale, è un processo oggi più difficile. Aumentano le tensioni o verso fantasie onnipotenti ma irraggiungibili o, al contrario, in modo speculare, verso la rinuncia e lo stato di attesa, spesso depressiva. C’è una situazione diffusa di perdita, che assume molte forme e mostra non solo una mutilazione negli scambi manifesti tra adulti e bambini o adolescenti, ma anche una limitazione dello spazio interno dei bambini o adolescenti stessi: una mutilazione del sé delle persone in crescita» (AA.VV., La scuola deve cambiare, Napoli, L’ancora, 2002, p.17). C’è da aggiungere che anche i dati delle ricerche sulla psicosomatica dei disturbi della pelle, nelle teorie dell’intelligenza emotiva di Goleman e altri, la pelle si presenta come l’organo primario delle emozioni nella vita infantile. Trovando continuità e conferma nella sessualità e nelle dinamiche affettive delle fasi successive della vita. Nel suo bellissimo libro su L’errore di Cartesio, A. Damasco (Milano, Adelphi, 1995) presenta delle prove autorevoli e molto persuasive, di neurologia clinica e sperimentale, a favore del ruolo fondamentale giocato dalle emozioni, dagli affetti e dai sentimenti per i processi cognitivi. Una rappresentazione collettiva più oggettiva dell’organo del tatto, che è contemporaneamente organo dei transfert emozionali nelle fasi precoci dello sviluppo ontogenetico, del confine con la realtà esterna e di una funzione simbolica, metabolica della socializzazione nell’adolescenza, contribuirebbe a farci uscire di più dal secolare errore di Cartesio della separazione tra il cogito dei processi cognitivi e le emozioni provenienti dal corpo. Infine, la riflessione sulla vicenda della pelle, olisticamente concepita nella sua triplice scansione evolutiva di organo del tatto, organo delle emozioni e rappresentante simbolico di organo contenitore della socialità nell’adolescenza, fa riflettere sulle difficoltà e le lentezze storiche della scuola, che vanno esse stesse comprese in profondità. Lentezza nell’aggiornare la strumentazione concettuale, onde fornire alle nuove generazioni una rappresentazione, in questo caso della realtà umana, rivista alla luce dei risultati della ricerca e della conoscenza scientifica. Tuttavia, tali difficoltà e lentezze, anziché vederle solo attraverso il riflesso condizionato della responsabilità degli operatori che erogano il servizio formativo (von Foerster: «bisogna comprendere ciò che si vede, altrimenti non lo si vede»), va colto nella pressione inconscia (quindi: tanto più efficace quanto più profonda, nascosta e difficilmente evidenziabile) di induzioni, inoculazioni e vere e proprie identificazioni proiettive negative di una funzione della scuola definita da una delega del controllo, di una mera ripetizione e trasmissione di conoscenze datate. Una pressione proveniente in gran parte da una inadeguata e disfunzionale struttura storica, tuttora vigente, dei processi di formazione della professionalità docente. Forse la scuola, provvedendo a sostituire l’immagine del corpo umano intero a quella delle mani, quando trasmette ai bambini di 5/6 anni la rappresentazione del tatto, sicuramente non risolverebbe, con un intervento così semplice, la disfunzionalità di rappresentazioni la cui profondità ed estensione, come si è visto, è alimentata da contenuti teorici prodotti da autori quali Cartesio e Piaget. Rispetto ai quali potrebbe anche scattare, come antidoto, l’aiuto della presa di coscienza degli idòla theatri («molti principi e assiomi delle scienze che si sono affermati per tradizione, fede cieca e trascuratezza») di baconiana memoria. Sicuramente, però, quel semplice gesto della scuola, potrebbe documentare una mentalità di ricerca, tesa a prendere coscienza degli errori, delle semplificazioni parcellizzanti e degli scotomi che generano dissonanze cognitive. La mentalità di ricerca è una forma di energia dinamica che si oppone all’inerzia di schemi mentali inadeguati. In questi casi bisogna ritornare periodicamente a riflettere sulla storia della rivoluzione copernicana. E’ necessario riflettere anche sul fatto che la mentalità di ricerca è uno dei portati più innovativi del dispositivo giuridico fondamentale su cui si sta cercando di costruire, oramai da un decennio, il nuovo sistema formativo (art. 21, L. 59/97 sull’autonomia scolastica e relativo regolamento attuativo DPR 275/99). L’autonomia vi è declinata, oltre che come autonomia didattica e organizzativa (artt. 4-5 del DPR), anche come autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo (art. 6). La mentalità di ricerca per il servizio formativo implica un sostanziale “partire da se stessi”. Dove l’apprendimento esperienziale, l’imparare dai propri ed altrui errori, è fattore epistemico ineludibile nelle scienze della formazione. Sono questi alcuni dei nuclei tematici che si vanno elaborando, nei termini di una teoria della supervisione formativa e delle rispettive traduzioni didattiche, nella formazione dei nuovi docenti. Tra gli obiettivi dei gruppi di supervisione di docenti in formazione per l’insegnamento secondario –nell’indirizzo di Scienze Umane, presieduto da Elio Matassi, della SSIS-Lazio, diretta da Giorgio Guattari- vi è quello dell’addestramento all’osservazione, attraverso il tirocinio svolto nei settings scolastici, delle numerose variabili che concorrono alla complessità della vita organizzativa del servizio formativo. Nelle sedute di supervisione vi è anche l’obiettivo, complementare ed integrativo del precedente, di un training di auto-osservazione delle variabili soggettive, dello stesso osservatore, che possono inficiare, limitare, fraintendere, ciò che si osserva. Variabili riconducibili alle immagini inconsce interiorizzate -nel docente in formazione- dalle fasi precedenti di scolarizzazione; a pregiudizi e stereotipi non sufficientemente elaborati; a posizioni ideologiche irrigidite; ad assunzioni unilaterali di teorie, modelli e strumentazioni professionali, ecc.. Si pensi, ad es., allo strumento professionale della valutazione degli apprendimenti assunto esclusivamente come procedura di selezione, e non anche di formazione e di autovalutazione del processo di insegnamento. Se immaginassimo che un intero segmento del sistema formativo intervenisse collettivamente, con il semplice gesto di sostituire quell’immagine dell’organo di senso del tatto nei cartelloni didattici della prima elementare, ci ritroveremmo di fronte ad un piccolo, particolare (Aby Warburg: «il buon Dio alberga nel particolare») ma significativo ri-orientamento di una delle funzioni fondamentali delle organizzazioni formative. Contribuire a “migliorare” l’assetto mentale collettivo. |
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