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Timidezza e senso remissivo: due componenti interconnesse

 

 di Giusy Rao

 

Potrebbe la timidezza ripercuotersi sulla vita sociale del bambino? Qual è la linea di demarcazione fra un atteggiamento timido e un comportamento troppo remissivo?

La timidezza si sviluppa sulla base delle relazioni che il bambino instaura col mondo esterno, quindi è da considerarsi un atteggiamento che si acquisisce in base agli stimoli provenienti dall’esterno.

Secondo il punto di vista di numerosi esperti, la timidezza non può essere considerata una patologia psicologica da eliminare, né un difetto da correggere. Presumibilmente, le questioni maggiori della timidezza infantile sono proprio quelli legati all’approvazione o al rigetto di questo modo di essere (da parte di genitori, insegnanti, amici) del bambino stesso. È quasi un istinto naturale quello che un genitore tenda a spingere il figlio che ha “paura degli altri” verso di loro. Trattasi di un atteggiamento “naturale”, quasi comprensibile ma che molti esperti considerano sbagliato e per nulla proficuo.

Anche con i più piccoli è necessario evitare atteggiamenti che possono aumentare la loro difficoltà a rapportarsi con gli altri. Genitori sempre critici e rimproveri continui a lungo andare rovinano completamente l’autostima del bambino e lo rendono insicuro, ingigantendo la sua timidezza”. In una situazione del genere, l’adulto dovrà evitare di mostrare eccessiva ansia, disappunto o  disinteresse e derisione nei confronti del piccolo; la timidezza, infatti può diventare paralizzante se quest’ultimo si sente umiliato o rifiutato.

Il più delle volte, la timidezza ha un suo background di base: spesso il bambino timido è cresciuto con una mamma timida che, in maniera del tutto involontaria, può avergli comunicato e così trasferito le sue ansie e le sue paure circa gli eventi della vita.

Sin dai primi approcci madre-figlio, nascono i presupposti della vita emotiva del piccolo, lo si veda ad esempio dalla reciprocità degli sguardi.

Solitamente il genitore è teso a garantire al figlio il pieno soddisfacimento dei bisogni fisici i quali assumono una posizione di rilievo rispetto alle componenti psicoemotive e spirituali, merita invece, di essere opportunamente sottolineata l’importanza di questi ultimi due aspetti in quanto essi contribuiscono a garantire al soggetto un ottimo adattamento alle situazioni sociali.

Durante lo sviluppo corporeo, è necessario che l’adulto osservi scrupolosamente il carattere del piccolo intervenendo per facilitare sia l’accrescimento fisico, sia l’espressione emotiva. In questa fase si dovrebbe rigorosamente evitare di programmare l’intera giornata del fanciullo, il quale deve essere posto in una situazione in cui sia possibile inseguire i suoi pensieri e fantasticare con la mente. Similmente al “counselor”[1] il genitore o l’insegnante che si trova ad interagire col fanciullo, deve porsi in una situazione di vicinanza, senza porre domande ma  cercando di far parlare il bambino, mediante l’ausilio del gioco o della fiaba.

Lentamente, l’adulto riuscirà ad accorgersi di eventuali problemi che il bambino non esprime e ad aiutarlo a comunicare tutto ciò che prova o sente.

Solitamente, i bambini timidi rivelano delle difficoltà ad esprimere sentimenti negativi, (paura, rabbia e odio), appare così fondamentale insegnare loro a gestire l’aggressività, a tirarla fuori, a dominare i propri istinti e le proprie emozioni.

 E' fondamentale che il bambino venga aiutato  a capire il suo mondo interiore, ricco ed ilare, ma proprio per questo difficile da comprendere. Se la timidezza è motivata dalla paura degli altri, occorre stare vicini al bambino, facendogli attenzionare i lati piacevoli e divertenti delle persone in modo tale da debellare quel senso di soggezione emergente. Qualche problema maggiore può nascere quando ci si accorge che il ragazzino, crescendo, diventa sempre più timido e chiuso. “Più aumentano i suoi contatti con il mondo, più crescono i rossori e le paure”. Al fine di aiutarlo, gli adulti dovranno mostrare di apprezzare i suoi punti di forza e accettare, senza colpevolizzazioni, i suoi limiti. Così agendo, anche il ragazzino imparerà a non sentirsi inferiore o umiliato per la sua debolezza.

Giunti a questo impasse, l’adulto, dovrà spingere il piccolo a socializzare con gli altri bambini: mediante gli sport competitivi (se lo sport diventa una passione agonistica, tanto meglio, sarà un aiuto in più per sfogare tutte le emozioni) o di squadra il bambino può imparare a considerare gli aspetti positivi inerenti l’appartenenza ad un gruppo ed acquisire contemporaneamente il piacere di gestire meglio i suoi rapporti sociali. Indicato anche uno sport in cui il bambino possa confrontarsi direttamente con un altro, un avversario, come il tennis.

La suddetta esperienza va vissuta nell’ottica del divertimento e della socializzazione, poiché se venisse vissuta come imposizione, innesterebbe nel bambino un ulteriore senso di inadeguatezza che lo porterà a considerare se stesso come piccolo uomo inserito a forza nella dinamica sociale “poiché timido e quindi soggetto da curare”. La timidezza se non viene ben canalizzata, può generare nel bambino un atteggiamento fin troppo remissivo. Il bambino remissivo è spinto a non esprimere opinioni, a non reagire alle offese dei coetanei, ad accettare ogni situazione senza esprimere la sua volontà. Talvolta, il fatto di essere fin troppo accondiscendenti, è da imputare al carattere, altre volte il bambino non ha ancora appreso come negoziare la controversia, vale a dire non è ancora stabile in lui la capacità di far presenti al mondo esterno le sue aspettative e i suoi desideri. Non è da escludere il fatto che il clima familiare porta il bambino a reagire in questo modo. Non è raro infatti che, se c’è tensione in famiglia, il bambino si convinca che per “aggiustare” un po’ la situazione debba essere sempre buono  e quindi non creare altri problemi motivo per cui, si fa viva in lui l’idea che sia conveniente mantenere un atteggiamento remissivo che poi inevitabilmente verrà trasferito a tutti i rapporti sociali. L’adulto che si trova a far fronte a tale situazione di accondiscendenza estrema, dovrà seguire delle linee base che lo guideranno via via ad aiutare il piccolo ad acquisire maggiore sicurezza in sé.

Innanzitutto, l’adulto deve evitate di intervenire quando il piccolo si trovi a litigare con i coetanei. Anche se la prima reazione sarebbe quella di difendere il bambino questo comportamento potrebbe rivelarsi controproducente per due motivazioni: in primis il bambino potrebbe convincersi di non essere all’altezza nel saper fronteggiare da solo una situazione di lite e svilupperà conseguentemente un’idea di inadeguatezza del sé; in secondo luogo i coetanei (se prepotenti) troveranno nell’atteggiamento remissivo del bambino un’ulteriore occasione per poter infierire su di lui ed enfatizzare così un atteggiamento ancor più prepotente.

Così come Carl Rogers nel suo “Colloquio d’aiuto” si batteva per il rispetto dei tempi del soggetto, parimenti l’adulto dovrà considerare e rispettare i tempi di crescita del piccolo.[2]  È di prioritaria importanza mantenere un atteggiamento che valorizzi le capacità e che potenzi ed apprezzi le qualità del piccolo timido.

Qualora si verificasse un dissidio con qualche coetaneo, il bambino deve poter contare sulla comprensione dell’adulto: se alle difficoltà già incontrate si aggiungessero le critiche per un comportamento giudicato troppo remissivo il bambino rischierebbe di vivere un’esperienza di solitudine.[3] 

L’adulto dovrà inoltre aiutare il piccolo ad esternare le sue emozioni e le sue opinioni cercando di sottolineare quelle che sono le sue vere aspirazioni. Solo così agendo si potrà dare al bambino l’opportunità di diventare un essere sociale in grado di fronteggiare le diverse situazioni senza rischiare di tramutarsi in un capro espiatorio.


 

[1] Le definizioni date dal dizionario alla parola Counseling non sono di rilevante aiuto poiché tendono a enfatizzare il significato di consiglio e in qualche caso il Counselor (vale a dire il consulente) viene definito come un consigliere. Il termine Counsel deriva dal latino consilium che nel suo significato traslato significa consiglio, giudizio o consultazione. È perciò ovvio che il termine Counseling tradizionalmente si riferiva alla “pratica di dare consigli o di pronunciare giudizi”.

 

[2] Per maggiori informazioni Cfr. Rao Giusy, Riflessioni sull’utilità del Counseling, in “Qualeducazione”, trimestrale internazionale di Pedagogia, Anno XXII, n° 1-2, Fasc. n° 67, Ed. Luigi Pellegrini, (In corso stampa)

[3] Marini Franco, Mameli Cinzia, Il bullismo nelle scuole Ed. Carocci, 1999

 


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