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SPERIMENTAZIONE: SERVE UN “BEL GESTO”di Giancarlo Cerini (*)
1.
Lo scenario: un clima “non pacificato”
Quando le agende parlamentari si infittiscono di
appuntamenti e sui provvedimenti in discussione si sfiora
quotidianamente il conflitto “sulle regole”, allora diventa
quasi impossibile trovare quella serenità di intenti che dovrebbe
caratterizzare il dibattito sul futuro della scuola. Insomma, l’esempio
di George Bush jr, che nel gennaio 2002 firma la riforma USA della
scuola sotto lo sguardo soddisfatto di Ted Kennedy, leader storico
dell’opposizione, da noi è al momento impraticabile, anche se il
“No child left behind”
(“Nessun ragazzo resti
indietro”) non è poi così lontano dal “Non
uno di meno” propugnato da Tullio De Mauro (e che oggi dà il
nome al sito che raccoglie la bandiera di quella stagione
scolastica: www.nonunodimeno.it).
La situazione è ancora quella della
delegittimazione reciproca ed incrociata tra i due schieramenti che
si sono avvicendati alla guida del paese: l’invettiva “avevate
condotto la scuola sull’orlo di una bancarotta culturale”
addebitata ex-post al governo dell’Ulivo, va di pari passo con
l'anatema “state conducendo la scuola verso il baratro del liberismo selvaggio”
lanciato ex-ante al governo della Casa delle libertà. In questo modo è diventato pressoché
impossibile ingaggiare un confronto di merito credibile sulle
proposte di riforma presentate dal Gruppo di Lavoro Ristretto
presieduto dal prof. Giuseppe Bertagna (dicembre 2001) (cfr. l’interpretazione
riformista della vicenda fornita da C.Mancina, Gli errori della
Moratti, le sviste dell’opposizione, sulla dalemiana “Italianieuropei”,
n. 3, giugno-luglio 2002). Il documento dei saggi è stato travolto
dalle polemiche pregiudiziali, ma anche da qualche insipienza nella
conduzione delle operazioni in previsione degli Stati Generali, come
coraggiosamente rivela uno dei membri del gruppo di lavoro, l’autorevole
N.Bottani in “Un’altra occasione perduta: Letizia Moratti e
la commissione Bertagna“ sulla medesima rivista.
Così, anche un bilancio disinteressato sul recente passato
non riesce a cogliere la “mole” di innovazioni prodotte: dall’autonomia
delle scuole alla riforma dell’amministrazione, dall’obbligo
formativo a 18 anni agli esami di stato (penultima versione), fino
alla formazione universitaria dei docenti. Il dito si appunta
impietosamente sul presunto giacobinismo di alcune misure (come l’obbligo
scolastico a 15 anni per tutti nelle scuole superiori o l’istituzione
di una inedita scuola di base settennale) e comunque sulla mancata
condivisione delle riforme da parte della scuola, come sarebbe
dimostrato dal fallimento della proposta di "valutazione"
della professionalità docente. I nodi,
come si vede, sono sempre quelli e non possono essere sciolti con
qualche colpo ad effetto mediatico. Ragionando sui problemi,
commenta P.Ferratini sul prodiano “Il Mulino”, ci si
accorgerebbe, al di là delle polemiche, che forse è possibile
costruire un percorso di riforma bipartisan, addirittura all’insegna
dell’asse Berlinguer-Bertagna (cfr. P.Ferratini, La riforma
Berlinguer-Moratti, in “Il Mulino” n. 2, marzo-aprile 2002). Sulle scelte di fondo, sui principi fondamentali,
l’intesa è a portata di mano - suggerisce R.Drago, uno dei più
ascoltati consiglieri ministeriali-
le divergenze potrebbero manifestarsi, semmai, nelle
politiche di gestione e di implementazione, cioè sui modi di
coinvolgere e convincere le scuole e gli insegnanti ad intraprendere
processi di effettiva innovazione. L’atteggiamento difensivistico
dei sindacati, ben visibile nei ripetuti pronunciamenti critici del
Consiglio Nazionale della Pubblica istruzione, non aiuta il processo
di riforma e rischia di confermare i docenti in un’area di
marginalità sociale e politica. Ma -aggiungiamo noi- potrebbe
essere la "spia" di un malessere profondo che va ascoltato
e non semplicemente stigmatizzato.
In questa prospettiva –prosegue R.Drago- la sperimentazione
proposta dalla Moratti, al di là della sovraesposizione politica
avvenuta nel Consiglio dei Ministri, è una sana provocazione
perché mette le scuole di fronte ai nodi del cambiamento e le
invita ad adeguare la loro offerta formativa alle mutate esigenze
sociali. Così è per l’anticipo nella scuola dell’infanzia ed
elementare (per cui esisterebbe una forte domanda sociale), per i
nuovi modelli organizzativi (assai più semplici degli artificiosi
“moduli”), per i nuovi programmi di studio (strutturati per
abilità e conoscenze), per forme più incisive di alternanza tra
istruzione e formazione professionale (come già stabilito in alcuni
protocolli di intesa con sei regioni italiane). Il modello trentino,
sanzionato con un protocollo ministeriale, e accolto dalla provincia
autonoma di Trento a guida "ulivista",
dimostrerebbe la praticabilità politica di una riforma dei
cicli diversa da quella scritta nella legge 30/2000. Fin qui la voce dell’amministrazione. Ma sull’interpretazione
dei protocolli e delle sperimentazioni i punti di vista sono assai
diversi (cfr. G.Cerini, La svolta federalista, in “Notizie
della scuola”, n. 23, 1-15 agosto 2002) e oscillano tra la
percezione di un “vulnus” giuridico (non si dovrebbe
sperimentare ciò che non è stato deliberato in Parlamento) e l’enfasi
sulla volontà della base (scuole ed enti locali) di procedere
comunque sulle strade di una riforma praticabile. Il fatto è - scrivono alcuni intellettuali della
“sinistra movimentista”, in un recente pamphlet allegato al
mensile "Aprile", con l’ambita presentazione di
S.Cofferati - che si sta delineando per la scuola italiana uno
scenario assai poco
rassicurante, con un evidente restringimento di spazi democratici
(contrassegnato dalla precoce canalizzazione dei percorsi formativi
a 14 anni) e la consistente riduzione delle risorse destinate alla
scuola pubblica (come anticipato dalla legge finanziaria per il
2002). Ma, ribatte Bertagna
[1]
….(e qui si potrebbe proseguire ad oltranza in questo
dialogo tra quasi-sordi sulle sorti della scuola italiana…).
Preferiamo, invece, fermarci qui, prendendo atto di un clima non
ancora pacificato e auspicarne il superamento (serve, appunto un “bel
gesto”). Intanto, la prossima stagione autunnale propone
un nuovo oggetto (la sperimentazione) che è stato lanciato nel
dibattito politico sulla scuola, nelle prime pagine dei mass-media,
nelle aspettative e nelle preoccupazioni quotidiane degli operatori
scolastici e (anche) dei genitori. Forse il "bel gesto" è
necessario proprio a partire da questo oggetto. Vediamo, allora, di
spiegarci meglio.
2.
La sperimentazione, questa “conosciuta”
Non è una novità per il sistema scolastico
italiano superare i ritardi della decisione politica attraverso la
messa in atto di riforme “amministrative”. Interi settori si
sono rinnovati mediante programmi di sperimentazione o, comunque,
tramite processi di innovazione rimessi alla libera iniziativa delle
scuole. Ricordiamo la vicenda del tempo pieno all’inizio degli
anni ’70. La legge n. 820 del 20-9-1970 non aveva istituito il
modello di scuola a tempo pieno, ma semplicemente proposto alcune
ipotesi organizzative per l’avvio
del tempo pieno (tramite attività integrative ed insegnamenti
speciali). Il consolidamento del modello è venuto, più tardi, per
via amministrativa ed oggi supera il 25 % dell’intera utenza della
scuola elementare italiana, con larghi consensi nell’opinione
pubblica. La stessa riorganizzazione “modulare” della scuola
primaria (pluralità dei docenti, ambiti disciplinari, moduli, ecc.)
fu anticipata sperimentalmente dalle scuole alla fine degli anni ’80,
in migliaia di classi, assai prima che il Parlamento sanzionasse le
novità con la legge n. 148 del 5-6-1990. Anzi, qualcuno fece
osservare come il Parlamento fosse stato quasi costretto a
legiferare da un movimento “anticipatore” a favore della
riforma.
Analogamente potremmo dire per la più recente esperienza
degli istituti comprensivi (le istituzioni che raggruppano in una
sola struttura organizzativa e professionale le scuole materne,
elementari e medie di un medesimo ambito territoriale). Anch’essi
sono nati quasi per caso, all’interno di un provvedimento rivolto
alla tutela delle zone di montagna (la legge n. 97 del 31-1-1994),
con un basso profilo pedagogico ed organizzativo, che si è
precisato mano a mano che l’esperienza si estendeva. La
piattaforma pedagogica degli istituti comprensivi è stata messa a
punto anche attraverso processi di sperimentazione “controllata”
che hanno coinvolto gruppi di istituti con la guida di comitati
tecnico-scientifici autorevoli e con l’accompagnamento di azioni
di monitoraggio. In ogni regione sono stati costituiti poli di
documentazione per lo scambio di materiali, esperienze, risultati
delle ricerche curricolari degli istituti comprensivi. Potremmo continuare negli esempi con il
riferimento alla scuola dell’infanzia, coinvolta in anni recenti
nei progetti di ricerca-azione ASCANIO (su nuovi modelli
organizzativi) e ALICE (di formazione sui temi della qualità dei
contesti educativi) o con il più ampio quadro delle sperimentazioni
strutturali che hanno riguardato ampi settori delle scuole
secondarie superiori (fin dagli anni settanta). Si può affermare che la via sperimentale ha
rappresentato una strategia per la riforma in assenza della riforma,
con tutti gli elementi di ambiguità insiti in un simile approccio
(prevalenza del dato amministrativo, ruolo degli ispettori e dei
gruppi tecnici di elaborazione dei piani di studio, frammentazione
dei modelli, oscillazione tra ipotesi blindate dal centro –le
cosiddette sperimentazioni assistite- e spontaneismo “locale”),
con un endemico deficit nei criteri e nei sistemi di verifica e di
valutazione. Anche nel 1997, in attesa del decollo dell’autonomia
scolastica, un discreto numero di scuole secondarie (166, scelte “quasi”
direttamente dal Ministero) è stato immesso in un percorso di
sperimentazione, comprendente il riassetto degli orari curricolari
(leggermente ridotti e rimodulati per far posto ad attività
opzionali e a nuove discipline, come ad esempio le “tecnologie
dell’informazione e della comunicazione”). L'autonomia scolastica riconosce alle scuole un
ampio diritto di iniziativa di ricerca e di sviluppo, cioè l’attitudine
ad un continuo miglioramento della propria offerta formativa, per
meglio adattarla alle esigenze degli allievi e del contesto
socio-culturale. L’autonomia (art. 6 del Dpr 275/99) suggella il
riconoscimento di un modello naturalmente sperimentale, cioè un invito permanente alle scuole ad
innovare facendo leva sulle proprie energie interne. E’ su
questa base che il Ministro, anche di fronte alla stasi dei lavori
parlamentari sul disegno di legge di riforma degli ordinamenti, ha
aperto la stagione della sperimentazione, dapprima con alcune
Regioni, sul tema dell’integrazione tra istruzione scolastica e
formazione professionale, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo
scolastico a 15 anni, poi sul fronte della scuola primaria, con la
possibilità offerta a 200 scuole di sperimentare alcune delle
innovazioni previste dal disegno di legge n. 1306 del 14-3-2002. Nel primo caso si è fatto ricorso ad accordi
politici diretti con i Governi locali regionali (provinciale nel
caso di Trento) richiamando l’autonomia delle scuole nell’aderire
all’iniziativa; nel secondo caso (anche per ovviare alle critiche
sul metodo precedente) si è scelto il ricorso all’art. 11 del Dpr
275/99 che consente al Ministro, oltre che ad altri soggetti
(compresi gli enti locali e le scuole) di proporre progetti di
sperimentazione, anche di carattere nazionale, aventi per oggetto
innovazioni di ordinamento. In particolare, l’idea è quella di consentire
l’anticipo delle iscrizioni alla scuola dell’infanzia ed
elementare (per i bambini che compiono i tre e i sei anni nei mesi
di gennaio e febbraio dell’anno successivo a quello previsto), di
mettere alla prova i nuovi indirizzi curricolari per la scuola dell’infanzia
ed elementare (elaborati nel corso dell’estate 2002), di saggiare
la validità di alcune modifiche nell’organizzazione del lavoro
degli insegnanti della scuola elementare, tra le quali la figura di
docente prevalente all’interno del team degli insegnanti. La procedura per l’attuazione di una simile
sperimentazione prevede il parere obbligatorio del Consiglio
Nazionale della Pubblica Istruzione, che dovrebbe essere reso entra
la prima decade del mese di settembre. Restano, pertanto, molte incertezze circa l’effettiva
possibilità di avviare in tempo utile i progetti sperimentali,
vista anche l’esigenza di definire accordi con il sistema degli
Enti locali, specie per quanto riguarda l’anticipo nella scuola
materna e, ancora, di riaprire i termini di iscrizione per i
genitori interessati, di apportare le necessarie modifiche all’organizzazione
didattica, in larga parte già programmata. Inoltre, scarse notizie
si hanno, al momento, sulla disponibilità di risorse aggiuntive (di
personale o di finanziamento) per far fronte ai nuovi impegni. Sarebbe opportuno soffermarsi maggiormente su
queste condizioni di contesto (tempi, risorse, informazioni,
processi di decisione) che rischiano di ridurre l’impatto della
proposta tra gli insegnanti e nelle scuole, proprio nella delicata
fase di avvio dell’anno scolastico. Tuttavia, per non rimanere alle sole questioni di
metodo, proviamo ad entrare nel merito delle questioni più
importanti sollevate dal progetto di sperimentazione, che si
riferiscono all’anticipo delle iscrizioni, ai nuovi curricoli, ai
nuovi modelli organizzativi.
L’anticipo scolastico è una questione assai controversa,
sia sotto il profilo pedagogico, sia sotto quello istituzionale ed
organizzativo. Chi è favorevole ritiene che oggi le potenzialità
cognitive e sociali dei bambini di 3 o 5 anni siano nettamente
sottovalutate e che quindi le offerte didattiche dovrebbero meglio
adattarsi a questo maggior dinamismo dello sviluppo infantile. Chi l’avversa
ritiene invece che alimentare aspettative e anticipare obiettivi
cognitivi a questa età vada tutto a scapito di un equilibrato
sviluppo emotivo-affettivo dei bambini. Gli esperti del Gruppo
Bertagna avevano sconsigliato ogni forma di precocismo e di
anticipo.
Anche all’interno del Parlamento, e della stessa
maggioranza di governo, si sono manifestate idee incerte, che hanno
portato ad una proposta di estrema cautela, che prevede uno
scorrimento in avanti di soli due mesi (quattro mesi, in
prospettiva) dell’età di accesso alla scuola materna ed
elementare.
Anticipo alla materna.
Oggi è possibile iscriversi alla scuola materna avendo
compiuto i tre anni di età entro il 31 dicembre dell’anno
scolastico di riferimento. E’ già prevista una deroga per i
bambini nati nel mese di gennaio successivo, ma l’effettiva
frequenza decorre solo dal compimento del 3° anno (e quindi in
corso d’anno scolastico) e in subordine alla disponibilità di
posti liberi. La nuova normativa, così come viene congegnata nel
progetto di sperimentazione (e ampliata nel disegno di legge n. 1306
del 14-3-2002), consente invece la frequenza fin dall’inizio dell’anno
scolastico per i nati in gennaio e febbraio, configurando un
anticipo massimo di sei mesi nella frequenza della scuola dell’infanzia.
La decisione spetta, comunque, ai genitori.
Fino ad oggi sono stati gli enti locali a far fronte alla
domanda educativa per i bambini al di sotto dei tre anni di età,
attraverso gli asili nido (istituiti con la legge 1044 del 1971),
che accolgono generalmente bambini dai tre mesi ai tre anni di età.
Recentemente, in alcune Regioni, sono state approvate leggi
regionali sugli asili nido (e su altre tipologie più flessibili di
servizi) che consentono di potenziare l’offerta educativa per i
bambini dai 2 ai 3 anni di età. Tali servizi sono gestiti dai
comuni (es.: progetti 0-6) o dagli enti privati convenzionati (es.:
sezioni “primavera”)
La chiamata in causa dei nidi, che pure si rivolgono al solo
7 % dei bambini di età 0-3 anni, rappresenta un passaggio obbligato
nel momento in cui si intende aprire il tema dell’anticipo
sperimentale della frequenza alla scuola dell’infanzia di bambini
di 3 anni non ancora compiuti (con precisione, di 2 anni e 6 mesi).
Gli asili nido dispongono di una cultura pedagogica
appropriata ai bisogni educativi della prima infanzia (con una forte
attenzione alle dinamiche affettive e relazionali), modelli
organizzativi sperimentati in genere con molta cura, competenze
professionali messe a punto attraverso una consuetudine di ricerca e
riflessione sulle pratiche educative. Valorizzare questo patrimonio
è indispensabile per non azzardare soluzioni improvvisate con
bambini di due anni e pochi mesi.
Va anche chiarito che, oggettivamente, l’apertura di un
nuovo servizio educativo statale per una fascia di utenza così
particolare rischia di essere alternativa al nido, mettendo in crisi
le sue potenzialità di espansione futura. Analogamente potrebbe
avvenire nei confronti delle cosiddette “sezioni primavera”
annesse alle scuole materne paritarie e convenzionate con i Comuni,
che possono accogliere già bambini dai 2 ai 3 anni, facendo
riferimento ai parametri ed ai controlli delle apposite leggi
regionali sui nidi. In definitiva, si vorrebbe che il nuovo
esperimento dell’anticipo non fosse dettato solo dall’esigenza
di “inventare” nuovi servizi educativi a costi ridotti.
La domanda sociale dei genitori per questo tipo di servizio
è alta, occorre sapervi far fronte con risposte di qualità, “dalla
parte dei bambini”, con investimenti adeguati (si pensi ai
rapporti numerici ridotti per le sezioni), senza mettere in crisi
gli attuali assetti dei servizi prescolastici del nostro paese, che
hanno già una loro alta affidabilità, anche se non sono
sufficienti sul piano quantitativo.
L’anticipo alle elementari. L’iscrizione alla scuola elementare è
consentita, in base ad una norma di legge (Art. 143 del T.U. n. 297
del 16-4-1994), ai bambini che compiono i sei anni di età entro il
31 dicembre dell’anno scolastico di riferimento. Una
interpretazione estensiva di tale articolo ha fatto nascere la
figura del cosiddetto alunno “uditore”, cioè di un alunno di 5
anni considerato “iscritto non regolare”, ma ammesso di fatto a
frequentare la prima classe.
In generale, la frequenza dei bambini di 5 anni i cui
genitori aspirano all’anticipo, avviene regolarmente nell’ambito
della scuola materna, magari in apposite sezioni (definite talvolta
“primine”), ove viene svolto un programma didattico finalizzato
a superare l’esame di idoneità alla classe seconda. L’esame per
l’accesso diretto alla seconda classe (in qualità di alunno
privatista) è oggi l’unica forma “regolare” –anche se
forzata- di anticipo del percorso scolastico (prevista dall’art.
147 del T.U. cit.). Questa possibilità riguarda, secondo alcune
stime ministeriali, circa il 5 % della popolazione di 5 anni di
età. Non sembra, dunque, esserci una forte spinta sociale per l’anticipo.
Si interviene, oggi, con una limitata sperimentazione che,
emblematicamente, riguarda solo le prime classi elementari e la
scuola materna (ma sono sempre le scuole dei “piccoli” a doversi
mettere in discussione ?). Questa limitazione, abbinata all’enfasi
sull’anticipo delle iscrizioni alla classe prima per i bambini di
5 anni e sei mesi (in verità lo slittamento si riferisce a sole due
nuove leve mensili: i nati di gennaio e febbraio), contribuisce a
focalizzare la sperimentazione sul tema della continuità tra i due
ordini di scuola. Anche in questo campo esistono esperienze di
pregio, sollecitate dalla legge di riforma della scuola elementare
(art. 2 della L. 148/90) che poneva la continuità educativa, dell’intero
ciclo di base, tra i principi ispiratori del nuovo progetto
educativo.
I programmi del 1985 ipotizzavano una classe prima elementare
fortemente attenta alle diverse caratteristiche dei bambini in
ingresso ed, ancor più, alla qualità delle esperienze compiute
nella scuola dell’infanzia di provenienza. In questo senso si
esprimevano gli Orientamenti del 1991 per le Scuole dell’infanzia,
anche se, saggiamente, preferivano individuare come punti di
cerniera tra le due scuole i possibili traguardi di sviluppo dei
bambini di 5 anni, piuttosto che una rigida tassonomia di
prerequisiti.
Le bozze dei nuovi indirizzi curricolari si muovono in questa
direzione, ma scelgono di enucleare distintamente gli obiettivi di
apprendimento del primo anno di scuola elementare, innovando una
tradizione (risalente al 1955) che vedeva il primo ciclo composto di
prima e seconda elementare. Sulla nuova “nervatura” curricolare
si innesta ora il progetto di sperimentazione, attraverso la
creazione di un vero e proprio ciclo di raccordo didattico tra i due
ordini scolastici, cogestito dai docenti di entrambi i livelli,
operanti in un team integrato.
Questo sguardo “comune” sulla formazione dei bambini di 5
e 6 anni (capace di cogliere meglio le diverse dimensioni del loro
sviluppo) potrebbe smussare, almeno in parte, le preoccupazioni di
chi vede nell’anticipo scolastico un dannoso precocismo degli
apprendimenti, con la netta prevalenza delle abilità cognitive. La
cultura della continuità sembra così in grado di temperare la
spinta a raggiungere, a tappe forzate, abilità e competenze
strutturate per singole discipline, trasformando invece questi
traguardi in una impresa educativa comune che si distende su più
anni.
4. Nuovi
curricoli: solo un buon editing
?
Una
sola mano ha certamente ispirato (ma forse anche “scritto”) le
bozze dei testi contenenti i nuovi indirizzi curricolari per la
scuola dell’infanzia, elementare e media ed è visivamente
rappresentata dalla netta separazione redazionale tra le INDICAZIONI
(comprendenti gli obiettivi specifici di apprendimento minutamente
descritti, disciplina per disciplina) e le RACCOMANDAZIONI (ove
ritorna uno stile argomentativi e pedagogico tipico dei programmi
vigenti). Non
è solo questione di editing, infatti le Indicazioni
assumono un carattere prescrittivo (cioè indicano gli obiettivi
specifici che tutti gli insegnanti e le scuole devono
obbligatoriamente mettere al centro delle progettazioni didattiche a
livello di scuola, di classe ed anche di alunno. In questa ottica
gli obiettivi specifici sarebbero il corrispettivo e la garanzia di
quei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) da assicurare a
tutti i cittadini anche in presenza di una scuola fortemente “federale”.
Tra di essi è compreso il diritto all’istruzione, come diritto da
esigere e su cui, giustamente, pretendere un affidabile sistema di
rendicontazione e di valutazione; anche per la scuola dell’infanzia,
se vuole (come in effetti vuole) essere considerata parte integrante
del sistema nazionale di istruzione (pur con qualche inevitabile
rischio). Le
Raccomandazioni, invece, vogliono favorire la migliore
interpretazione del “senso” delle discipline di studio, la
coerenza delle scelte metodologiche e didattiche, l’esemplificazione
di possibili modelli organizzativi, con qualche nuovo oggetto di
interesse pedagogico (il port-folio, il laboratorio, il piano
personalizzato di studio, l’insegnante-tutor, ecc.). Lo
stile delle raccomandazioni risulta eccessivamente
espositivo-argomentativo, quasi si trattasse di un saggio d’autore
o di un articolo per rivista di settore. L’effetto ottico,
soprattutto per le indicazioni prescrittive della scuola elementare,
è di un eccesso di minuziosità negli obiettivi, anche perché sono
reiterati su tre distinti livelli (al termine della prima classe,
della terza classe, della quinta classe), per tutte le 10 discipline
del curricolo (italiano, inglese, storia, geografia, matematica,
scienze, tecnologia, musica, arte ed immagine, attività motorie e
sportive) e per l’undicesima, l’educazione alla convivenza
civile, che si articola in 6 ulteriori educazioni (educazione alla
cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute, alimentare e all’affettività). Apprezzabile
è lo sforzo di distinguere, anche graficamente, il quadro delle
abilità (colonna di destra) da quello delle conoscenze (colonna di
sinistra). Le une (abilità) non riconducibili ad un mero saper fare
esecutivo, le altre (conoscenze) non solo meri contenuti
nozionistici da acquisire. Ma, appunto, le nuove indicazioni si
leggeranno da destra verso sinistra (le conoscenze, innanzitutto !)
o da sinistra verso destra (le abilità al centro del progetto !),
oppure –proseguendo con un pizzico di ironia- dall’altro verso
il basso, con stretto criterio cronologico o tassonomico, oppure dal
basso verso l’alto ? Detto in altre parole: c’è un ordine
logico, epistemologico, psicodidattico nella disposizione degli
obiettivi sulle 11 tavole prescrittive (10 discipline + 1 “educazione”)
delle Indicazioni ? O ancora, con quale libertà (o discrezionalità
professionale) gli insegnanti potranno utilizzare questi materiali
(prescrittivi) per costruire un quadro di obiettivi
formativi , in grado di trasformare contenuti e abilità
descritti a priori in elementi di effettiva formazione e crescita
degli allievi, cioè in competenze legate a specifici contesti
operativi (l’ambiente, i ragazzi, la didattica) ? C’è
dunque un filo logico che lega tra di loro obiettivi specifici,
obiettivi formativi, unità di apprendimento e competenze degli
allievi, certamente non univoco,
né pedissequo. Basta un approccio ologrammatico, scrivono con nonchalance
gli estensori dei nuovi curricoli, cioè considerare sempre aperto e
reciproco il rapporto tra le parti e il tutto, tra il tutto e le
parti (cioè tra il ruolo dei saperi e la formazione di una
persona). Ma
afferma Laura Carotti Goggi, insegnante già impegnata nella
elaborazione dei curricoli “De Mauro”, mi sarei aspettata un
centro nazionale (il Ministero) che mi dicesse: “…la comunità nazionale vuole studenti che alla fine del loro percorso (o
nelle tappe intermedie) siano in grado di …… (segue l’elenco
di competenze complesse, naturalmente non analitiche) e tu docente
(tecnico della disciplina) analizzi e declini in procedura la
competenza, individui attraverso quali passaggi specifici, obiettivi
di apprendimento strettamente connessi a contenuti, uno studente
può arrivare all’esercizio consapevole della competenza richiesta…”.
Al di là di un dibattito che potrebbe risultare sterile
(“vengono” prima gli obiettivi specifici o gli obiettivi
formativi ? dove “mettiamo” le competenze ?) ci sono questioni
di forte impatto per il concreto lavoro didattico degli insegnanti. Ci
si dovrebbe chiedere, ad esempio, come mai esiste e permane uno
scarto consistente tra pratiche didattiche quotidiane e indicazioni
programmatiche nazionali (verrebbe da dire) indipendentemente dal
loro contenuto. Non basta cioè un buon lavoro redazionale, di
semplice editing e di maquillage (come è avvenuto nel caso della revisione limitata degli
Orientamenti della scuola dell’infanzia) per rendere utile e
funzionale un nuovo testo programmatico. C’è
un problema di metodo, di tempi necessari per il coinvolgimento
degli insegnanti e delle scuole in un processo di condivisione di
nuovi orientamenti culturali e pedagogici, che non possono essere
imposti solo con la forza della legge. Ma c’è, soprattutto, un’esigenza
di individuazione di un curricolo sostenibile, cioè di una
credibile sintesi tra principi pedagogici, strategie metodologiche,
condizioni organizzative, assunzione di responsabilità di tutti i
soggetti che agiscono nell’ecosistema formativo (in una classe, in
una scuola, in un territorio). Se
poi consideriamo gli effetti della insistenza sulla valutazione
standardizzata delle prestazioni (su cui si sta costruendo il nuovo
sistema nazionale di valutazione) esiste il rischio palese che l’idea
di percorsi personalizzati di formazione sia ben presto contraddetta
da un profluvio di prove e test oggettivi. O che si trasformi in una
pericolosa “disarticolazione” della vita della classe o del
gruppo di coetanei (dove ci si forma e si dà anche un valore
esistenziale all’apprendimento, come giustamente rivendicano i
nuovi indirizzi pedagogici), per fare posto a storie scolastiche
variamente “composte” e gestite dallo stesso studente, secondo
un’idea affascinante ma anche prematuramente rischiosa.
5.
I modelli organizzativi: e spuntò il “tutor”
L’organizzazione a moduli, scaturita dalla
riforma della scuola elementare del 1990, non ha mai goduto di una
buona immagine. Vista essenzialmente come escamotage
per salvaguardare gli organici dei docenti anche a fronte del
vistoso calo demografico, piuttosto che conseguenza naturale della
nuova impostazione culturale dei programmi didattici del 1985.
Infatti, far crescere i ragazzi attraverso l’incontro con i
saperi, le discipline, gli ambiti culturali, richiede il concorso di
competenze specifiche dei docenti (al plurale). In questi anni ci sono stati degli eccessi. Si è
assistito a volte al proliferare delle figure docenti, ad una
frammentazione che ha portato alla secondarizzazione degli
insegnamenti fin dalla prima elementare: troppi insegnanti (fino a
5-6), troppi quaderni, troppe “materie”, ognuna con le sue
esigenze di tempo, le sue attività, le sue esercitazioni. Ma gli eccessi, se ci sono stati, si possono
correggere; a maggior ragione, oggi, con gli spazi di autogoverno e
di autoregolazione consentiti dall’autonomia. Il Regolamento (Dpr
275/99) ha “liberalizzato” la composizione del team docente,
sulla scia di quanto era avvenuto nell’ambito del monitoraggio
della riforma (si ricordi la circolare 116 del 1996). Un team “ragionevole” può prevedere una
pluralità limitata nei primi anni, ad esempio, due docenti come
nelle classi a tempo pieno, quasi a presidiare le due grandi aree
della conoscenza, quella delle competenze
logico-linguistico-espressive e quella delle competenze
logico-critico-matematiche, che via via si arricchiscono con l’intervento
di altre figure, altre discipline, altre opportunità, secondo un’ipotesi
organizzativa che interpreta e accompagna lo sviluppo del curricolo
verticale. Non sarà facile accantonare il team. Amato dagli
insegnanti e dai genitori (con oltre il 65 % dei consensi tra i
genitori interpellati dall’ISTAT nel dicembre 2001), è entrato
stabilmente nel nuovo immaginario della scuola elementare. Disporre
di una pluralità di figure e di relazioni educative è considerata
dalle famiglie e dagli insegnanti un’opportunità di arricchimento
e di crescita per i ragazzi. Sarebbe difficile contro-proporre un
modello organizzativo diverso, magari ripristinando la figura del
docente unico, costellato da alcuni (o tanti) “specialistici”
con poche ore dedicate a discipline particolari (lingua straniera,
musica, educazione motoria e altro).
Certo, non è facile far funzionare un gruppo di docenti (o
di adulti). Intanto, è un “vero” gruppo (cioè un insieme di
persone che stanno insieme per un obiettivo comune) ? O è un
semplice e casuale accostamento di docenti ? C’è tra i membri del
gruppo un comune sentire sull’educazione dei ragazzi, un’etica
professionale (ma anche un’estetica, cioè un’ipotesi di
benessere nel lavoro) ? Nel gruppo l’io viene “scalfito”,
perché è l’altro (sono gli altri) ad entrare in scena. Nel
gruppo “si è per l’altro”. Entra in crisi la propria
identità. C’è una doverosa inquietudine in ogni gruppo. La
sicurezza non può essere imposta da regole formali (gli orari, le
discipline, un “capo-gruppo”, un tutor…); verrà dopo, col
tempo. Sarà la storia del gruppo a consolidarla: il gruppo è un’entità
che vive, cresce, si sviluppa, può anche perire. Non basta curare
le buone relazioni tra i docenti del team, occorre un progetto
culturale comune, da cui far discendere una strategia didattica
chiara e scelte metodologiche coerenti. Non sempre le istituzioni (le norme, i contratti,
le circolari) hanno aiutato i gruppi a crescere. Sembra prevalere la
“separazione” tra i docenti, tra le discipline, tra gli allievi.
Si ripropone il ritorno tout
court all’insegnamento frontale,
alla sicurezza di un rapporto asimmetrico (finalmente…ci sarà chi
insegna…e chi apprende), alla dura necessità della trasmissione
del sapere, dell’in-segnare come “lasciare il segno”. Insegnare a conoscere e
capire, ci dicono i migliori studiosi di questa strana e misteriosa
“scatola nera” che è l’apprendimento, significa promuovere
processi di scambio, di costruzione, di interazione, situati in un
ambiente ricco di segni e di immagini (di tecnologie e di artifici
“didattici”), dove si senta una pedagogia della compiutezza (e
non della parcellizzazione, delle unità didattiche “sfuse”,
delle schede e degli esercizi per disciplina, degli orari
incomunicanti). Certo, sono i difetti possibili di un “modulo”
che non funziona, dove le scelte non sono negoziate e il gruppo
viene vissuto come un peso, non come una risorsa. Ecco perché è importante ripensare alla
pluralità docente, dargli un significato, trasformarla in una vera
risorsa educativa. Ben venga anche la figura del docente “tutor”,
di cui molti oggi parlano; potrebbe contribuire a migliorare il
funzionamento del gruppo docente, a professionalizzarlo, a
integrarlo: ma –per favore- senza scorciatoie o infingimenti.
Parlare di tutor, di leadership “diffusa”, di ascolto e
condivisione è qualcosa di assai diverso dal ripristino “ideologico”
della figura del maestro unico.
6.
Appunto, serve un "bel gesto", ma quale ?
L'apertura di una stagione "sperimentale" può
rappresentare un'occasione importante per coinvolgere la scuola e
gli insegnanti nei processi di innovazione. Oggi si vive con
incertezza il futuro, anche perché sembrano mancare le occasioni di
dialogo, di ascolto, di elaborazione condivisa delle prospettive di
lavoro. La ridefinizione dei curricoli,
ad esempio, non può non tener conto della ricca storia della
nostra scuola dell'infanzia, elementare e media, recentemente
rinnovata con l'esperienza degli istituti comprensivi (che coinvolge
oltre il 40 % delle istituzioni scolastiche), muovendosi con più
sicurezza e coerenza nell'ottica della continuità del ciclo di
base.
Il piano sperimentale assumerebbe ben altro rilievo se fosse
accompagnato da un'ampia incentivazione a tutte le scuole, non solo
alle 200 prescelte, di usufruire pienamente degli spazi di autonomia
e di ricerca/sviluppo che è loro riconosciuta.
Così pure il lancio di nuovi indirizzi curricolari dovrebbe
puntare non tanto sull'effetto "sorpresa" di documenti
inaspettatamente già pronti, ma a far cogliere il rapporto tra la
pratica didattica e le indicazioni progettuali e culturali di
carattere nazionale, anche per aiutare a colmare gli scarti che
sempre si manifestano tra questi due livelli.
Al centro della sperimentazione non può stare solo
l'attualità dell'ultima versione del disegno di legge, ma un
approfondimento critico ed argomentato di ipotesi pedagogiche
fondate e di scelte organizzative praticabili.
In altre parole, le scuole dovrebbero incamminarsi sui
sentieri della sperimentazione, meglio se in rete, sapendo di poter
disporre di ampi margini di libertà di ricerca e innovazione su
alcune questioni fondamentali:
a)
la ricerca sui contenuti del curricolo
essenziale e comune, che deve ora confrontarsi con l'ambizioso
quadro di 10 discipline emergenti dalle nuove proposte di indirizzi
nazionali, anche per collaudarne la fattibilità fin nei suoi
risvolti orari;
b)
l'individuazione di una quota opzionale (obbligatoria) delle
attività e di una quota facoltativa (aggiuntiva) che risponde a
domande "locali" ma che deve salvaguardare l'insieme
dell'offerta formativa esistente, che comprende una vasta quota di
tempo pieno; si apre cioè la ricerca su una composizione interna e
flessibile del tempo scuola anche mediante la ricerca di
percorsi personalizzati, laboratori, gruppi di apprendimento;
c)
l’assestamento nell’organizzazione
del team docente e nella configurazione della collegialità
(limitandosi ad individuare il criterio-guida di un approccio
progressivo e graduale al sapere disciplinare e alla
differenziazione degli interventi), senza per forza “sponsorizzare”
il solo modello del maestro prevalente in classe prima (ma anche nel
tempo pieno) con 18-21 ore di insegnamento in una sola classe
d)
tenere aperta la questione della scansione
verticale del curricolo del primo ciclo, a partire certamente
dal ritmo 1+2+2 per la scuola elementare e 2+1 per la scuola media,
da non considerare però come approdo definitivo. Il problema del
curricolo verticale è assai controverso, come dimostra la diversa
scansione proposta nel documento Bertagna (dicembre 2001), con la
successione di quattro bienni in progressione, dei quali quello a
scavalco tra 5^ elementare e 1^ media finalizzato ad avvicinare e
“saldare” i due ordini scolastici. Di fronte ai dubbi degli
esperti, si dovrebbe esigere un maggior margine di manovra a livello
sperimentale, anche per saggiare l’impatto delle diverse ipotesi
in campo.
e)
Valorizzare gli istituti comprensivi, per coglierne gli apporti più
significativi, in particolare i primi tracciati curricolari emersi.
Una presenza così diffusa e generalizzata di istituti comprensivi
(IC) è ormai la “chiave di volta” del sistema scolastico di
base e tanto vale sfruttarne fino in fondo le potenzialità, ad
esempio nel bisogno (che l’IC rende esplicito) di un dialogo
ravvicinato, anche in materia di curricoli, tra scuola elementare e
media, un’idea che a livello nazionale è per il momento “raffreddata”.
Di fronte ad un simile “bel gesto”, certamente
cambierebbe anche l’atteggiamento delle scuole.
Un obiettivo condiviso dovrebbe essere quello di promuovere
un deciso investimento sulla professionalità degli insegnanti,
assicurando rapporti con le sedi della ricerca, forme di consulenza
sul campo, ambienti articolati per l'apprendimento professionale
continuo) ed un consapevole rilancio dell'autonomia scolastica e
delle sue condizioni di esercizio (organico funzionale favorevole,
risorse finanziarie per la progettazione, effettivi margini di
flessibilità organizzativa, articolazione di responsabilità e
funzioni professionali, più intensi rapporti con gli Enti locali ed
il territorio.
Forse sarebbero queste le "variabili" sperimentali
che i docenti e le scuole vorrebbero trovare nel decreto che dà il
via alla sperimentazione. Oggi invece, i contenuti sono molto
diversi, le domande "altre". Occorre recuperare questo
ennesimo scarto tra scuola reale e scuola legale. Occorre, insieme,
costruire le "domande" della sperimentazione, per rendere
possibili e utili le "risposte".
(*) Alcuni spunti dell'intervento sono stati ripresi da articoli dello stesso autore in corso di pubblicazione sulle riviste "La vita scolastica", "Notizie della Scuola", "Didascalie/Trento". Un più ampio studio sul problema della sperimentazione è in corso di stampa per Tecnodid come inserto del n. 1 di Notizie della Scuola: G.Cerini-M.Spinosi, Uno sguardo alla sperimentazione (inserto), 1-15 settembre 2002. [1] G.Bertagna, In nome della complessità. Riflessioni sulla riforma del sistema educativo di istruzione e di formazione attualmente in discussione, in “Scuola e Didattica”, n. 18, giugno 2002.
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