Educazione&Scuola - DOSSIER

 

IL RIORDINO DEI CICLI

a cura di Giancarlo Cerini

 

 

Sommario:

 

 

 

 

 

 

 

 


Forlì, gennaio 1998


 

 

 

 

A CHE PUNTO SIAMO CON IL RIORDINO DEI CICLI?

Un anno di dibattito sulla "Grande Riforma"
di Giancarlo CERINI

Da dove, e come, partire ?

I punti deboli del nostro sistema scolastico ormai si conoscono: pochi diplomati (rispetto ai paesi europei), pochissimi laureati (solo 3 iscritti all’Università su 10 arrivano alla laurea), elevati tassi di dispersione (oltre il 30 % della popolazione abbandona il percorso scolastico, soprattutto tra i 14 ed i 16 anni), marginalità della formazione professionale (nelle sue varie espressioni), debolezza della scuola di base (se è vero che il 46 % dei ragazzi esce dalla scuola media con appena il giudizio finale di "sufficiente").

Occorre partire da questa diagnosi, fin troppo severa, per entrare nel merito della proposta del Ministro Luigi Berlinguer di riforma complessiva del sistema scolastico. Senza pregiudiziali, a favore o contro, ma con la voglia di capire e di discutere.

Dunque, come elevare i livelli di produttività (educativa, a scanso di equivoci) della nostra scuola ? Come rispondere alle domande di una società che cambia in fretta ? Come colmare i tanti ritardi accumulati in questi anni ? E, soprattutto, da dove partire ? Dall’autonomia, dalla riforma degli cicli (cioè da un nuovo ordinamento), dai programmi, dal sistema di valutazione, dalla parità tra pubblico e privato, dalle nuove tecnologie ?

Si tratta di alcuni titoli dei tanti cantieri aperti dal Ministro in questi mesi, con molto coraggio, ma forse con una eccessiva dose di "protagonismo", uno stile che comporta anche il rischio della "solitudine". Dietro le critiche, le perplessità, il mancato entusiasmo (provenienti soprattutto dall’interno della scuola) non è difficile scorgere la richiesta di una partecipazione più ampia, di un dialogo più corale, più esteso, più attento a raccogliere le idee, anche diverse, che si agitano tra gli operatori scolastici.

La scuola non cambia solo perché c’è un pensiero "forte" (70 anni dopo Gentile, si è azzardato) che dà forma ad una compagine "sformata", ma soprattutto se si avvia un processo di autoriforma culturale che coinvolge, in piena libertà, tutti i soggetti e soprattutto gli insegnanti. Anzi, LE insegnanti, come sottolinea Vita Cosentino ("A scuola è già riforma", sull’Unità del 23-4-1997) quando rivendica l’esigenza di un’autoriforma gentile (con la "g" minuscola) che sappia valorizzare le competenze, il sapere, l’esperienza (spesso al femminile) maturate nella quotidiana vita della scuola.

Questo è anche lo spirito dell’autonomia scolastica. In fondo, la scuola pubblica è tale perché tutti sono chiamati a costruirla e a condividerne i valori; ed è in questa caratteristica di "universalità" che sta la sua forza.

La qualità dell’educazione di un paese non è questione di breve respiro, di qualche legge, di qualche stanziamento finanziario, di qualche colpo mass-mediologico ad effetto: è un po’ tutto questo, ma è soprattutto una questione di lungo periodo, e non riguarda certamente solo gli insegnanti. Tuttavia, le ricerche ci dicono che docenti ben preparati, motivati ed orgogliosi del loro lavoro sono un fattore importante di qualità. Questa dipende anche dall’atteggiamento della società, dei cittadini, dei genitori (credono o no nel valore e nel ruolo dell’istruzione e della formazione ?), e si traduce poi nella scuola reale (con le sue leggi, le sue strutture, i suoi tempi, le sue pratiche) che esige l’umiltà "silenziosa" del buongoverno quotidiano. E’ tutto l’ecosistema formativo che deve assumersi nuove responsabilità e ripensarsi all’interno di una visione d’insieme, superando steccati e nicchie di comodo.

I "valori" in gioco: tra educazione e istruzione

E’ dunque, in primo luogo, un problema di valori (ma non di bandiere). Hanno ragione i cattolici a chiedere un confronto sui valori, sulla "mission" della nostra scuola, su come le "persone" si formano. La questione è esattamente questa. Noi, ad esempio, riteniamo che le persone ("soggetti liberi e responsabili, partecipi della comunità locale e internazionale") si formino -a scuola- soprattutto attraverso un preciso itinerario culturale, acquisendo competenze e abilità, imparando ad utilizzare l’apprendimento come una propria risorsa. Tutti principi che vengono ripresi nel Disegno di Legge presentato dal Ministro (e nella relazione che l'accompagna), dove si fa riferimento a "elementi culturali di tipo generale, metodologico e di indirizzo", alle competenze sociali, alla persistenza di conoscenze e nuclei "fondanti".

Troppa istruzione ? Poca educazione ? Ci sembra una sterile contrapposizione verbale, un gioco di parole: nel disegno di legge ora le parole (educazione, istruzione, formazione, persona, famiglia, nazione) ci sono proprio tutte, fin dal primo articolo ! Non è certo questo il problema.

Altra è semmai la preoccupazione, che deve riferirsi al significato democratico (di pari opportunità) della formazione delle giovani generazioni, alla scuola come luogo che fonda la cittadinanza e l’uguaglianza (almeno simbolica, ma è già molto, anzi tanto, per la democrazia). Ecco perché è indispensabile una formazione culturale di base, il più a lungo possibile disinteressata, per formare competenze e valori duraturi, su cui innestare poi le specializzazioni (per altro, soggette a rapido invecchiamento).

L’uguaglianza delle opportunità: solo un vecchio mito ?

Ecco, ancora, perché è necessario accentuare il tema della uguaglianza, della solidarietà, dell’intervento verso le fasce a rischio della popolazione scolastica, senza pensare di "scaricarle" precocemente verso canali (professionali) di minore valore formativo. Ecco perché non convince il recupero della formazione professionale fin dentro l’obbligo scolastico (prima dei 15 anni). Ai tutti i ragazzi (non solo a quelli più deboli) va offerta l’opportunità di incontrare il mondo del lavoro (attraverso stage, esperienze di alternanza), ma non certamente l’addestramento precoce ad un mestiere. Per chi è in difficoltà vanno organizzati seri interventi compensativi e di supporto, lungo tutto il percorso scolastico (cambiando il modo di fare scuola e di organizzare la didattica, perché il problema dell’apprendimento "debole" non si risolve con gli attuali corsi di recupero).

A prima vista sembra controproducente, a questi fini, la riduzione del percorso formativo di un’annualità (dalle attuali sedici annualità, dai 3 ai 19 anni, alle prospettate quindici annualità, dai 3 ai 18 anni). Questa contrazione, che fa recuperare al sistema circa 50.000 docenti, potrebbe però essere accompagnata dal messaggio forte dell’ obbligo formativo fino a 18 anni (tutti a scuola fino a 18 anni, anche se alcuni a tempo parziale). Gli eventuali docenti in soprannumero, che vanno però recuperati lungo tutto il sistema scolastico e non solo dalla scuola elementare (per la sua riduzione pratica ad un quadriennio), potrebbero svolgere quelle funzioni (di sostegno, di orientamento, di tutoring, di arricchimento del progetto formativo) indispensabili per "superare" i deficit formativi più volte evidenziati.

Insomma il messaggio che dovrebbe passare non è di "accorciare il percorso a 18 anni", ma viceversa di "ampliare le opportunità educative per tutti, fino a 18 anni". Un obbligo incrementato di un solo anno, il 15°, non fa volare alto l’immaginario riformatore. E senza forti "emozioni" la riforma non decolla...

Innovare: le scuole "basse" o quelle "alte" ?

E’ la stessa diagnosi sui "mali" del nostro sistema formativo a suggerire le possibili risposte sul piano degli ordinamenti. Siamo convinti che il massimo di inventività si debba esercitare nel settore secondario superiore (con una pluralità di offerte post-obbligatorie) e oltre, nella cosiddetta istruzione terziaria (cicli brevi post-secondari, formazione professionale superiore, pluralità di canali universitari). Sono questi i "buchi neri" del nostro sistema; invece ci ritroviamo con il massimo di novità nel segmento della scuola di base. Si propone, in questo caso, il superamento dei due cicli preesistenti e la loro riunificazione in una comune "scuola di base" (preferiamo questo termine a quello di "primario", utilizzato impropriamente, che sembra suggerire una elementarizzazione del percorso formativo di base). Una ipotesi affascinante, ma non ancora culturalmente matura (ad esempio, quando si formeranno nello stesso modo gli insegnanti di questa scuola unitaria ?) e bisognosa di una più lunga "incubazione" (come dimostra la vicenda ancora acerba delle scuole "verticali").

Appare troppo brusco l’invito rivolto alla scuola elementare e media a "sciogliersi" in un unico ciclo primario (ed il patrimonio di esperienze, di competenze, di identità ? e le strutture edilizie, così capillarmente presenti nel territorio ? e gli insegnanti ? e i dirigenti scolastici ?). Domande assai impegnative, troppo disinvoltamente trascurate nella prima stesura del disegno di legge.

Invece, le rassicurazioni verso una diffidente scuola superiore sono palesi. Viene il sospetto che si pensi per essa ad interventi assai limitati, di semplice aggiustamento amministrativo. Che dire della scomparsa, nella stesura definitiva del disegno di legge, della cosidetta "scuola dell’orientamento" ? Come valutare la perentoria enunciazione circa la unicità del ciclo secondario sessennale ? In questo modo il nuovo ciclo finisce con l’ereditare "in toto" gli attuali istituti secondari di 2° grado, salvaguardando la quinquennalità tipica dei licei e degli istituti tecnici (considerata, a torto o a ragione, un punto di forza del sistema scolastico italiano), anzi rendendola più "ariosa" con la estensione a sei anni.

In questo modo, però, i primi tre anni della scuola superiore (dai 12 ai15 anni) si trasformano in cicli inferiori strettamente connessi ai trienni superiori (addirittura ripristinando una situazione di marca, essa sì, "gentiliana"). E’ cioè evidente il rischio di una precoce canalizzazione dei percorsi scolastici fin dai 12 anni, se gli attuali istituti superiori "monovalenti" non diventano strutture largamente "comprensive" (con una pluralità di indirizzi). Ma di questa intenzione non c’è traccia nel documento.

L’ipotesi (esplicitata nella relazione tecnica) è quella di integrare verso l’alto i percorsi formativi, di irrobustire il tasso di secondarietà del curricolo obbligatorio, con tutti i rischi connessi a questa ambiziosa operazione (come mette in luce L.Benadusi in un recente intervento (Il Mulino, n. 2, 1997).

Una carenza di argomentazione

Apprezzando lo sforzo di un ridisegno complessivo del sistema scolastico, riteniamo però necessario continuare a discutere in modo aperto e sereno, come non è stato possibile fare nella prima consultazione "informale" sul documento del gennaio 1997. Non è stato reso pubblico nessun Rapporto sulla consultazione; nessun Libro Bianco ha chiarito o precisato i punti nodali della discussione; flebile e non sollecitata la voce dei corpi tecnici (CNPI, Ispettori, IRRSAE); scarso -e fuori tema- l’apporto del mondo della ricerca e della cultura; in nessuna Conferenza, Forum, Seminario è stato possibile interloquire a fondo con gli estensori del progetto.

Il disegno di legge -se vuole mantenere la sua portata "storica"- ha bisogno di ben altri coinvolgimenti, di approfondimenti "critici", di discussioni appassionate, di studi di fattibilità. Non basta stendere sulla carta i progetti: occorre valutarne la effettiva praticabilità, la pertinenza delle soluzioni ipotizzate, l’impatto "storico-ambientale" sulla scuola reale. Ad esempio le attuali 8.000 Scuole Medie italiane (di cui si preconizza il superamento) non sono solo un contenitore fisico (sono anche quello), ma sono soprattutto persone, valori, memorie, know-how. Disegnano una geografia "scolastica" che non si può cancellare dall’oggi al domani.

Si possono con tranquillità abolire le 100 scuole medie di Napoli (o di Torino o di Palermo), senza impoverire il tessuto culturale e civile di quelle città ? Ed è comunque urgente e doveroso precisare cosa ci sarà al loro posto; quale scuola troveranno gli adolescenti di 12-13-14 anni; quali obiettivi, organizzazione, docenti, strutture.

La prematura scelta di un modello istituzionale (il doppio modulo 6+6) ha creato malumori, diffidenze, desistenze, che non possono essere attribuite solo alla persistente "autoreferenzialità" della scuola italiana, malattia "senile" che attanaglierebbe i docenti e le loro organizzazioni sindacali e professionali.

Che il problema sia più complesso lo dimostra l’Europa, dove le soluzioni adottate in fatto di scansione dei cicli sono le più differenziate, perché vanno dalla prospettiva della scuola di base "lunga" (nei paesi scandinavi), alla presenza di tre segmenti distinti (nei paesi latini, come Spagna, Francia e per ora Italia), all’ipotesi del doppio ciclo primario/secondario (con esiti diversi, come dimostrano le diverse interpretazioni date in Inghilterra e Germania). Anche le cautele in materia di ordinamento scolastico del programma dell’Ulivo, dello stesso Accordo per il lavoro del settembre 1996, avrebbero dovuto consigliare maggiore prudenza e comunque tempi più distesi per l’elaborazione, la preparazione, la condivisione della proposta di un nuovo ordinamento quadro.

L’interazione Ministro-mondo della scuola è stata troppo debole. Siamo convinti che perdere un po’ di tempo (si fa per dire) per interpellare testimoni privilegiati, operatori scolastici, esperti; mettere alla prova di un contraddittorio qualificato le prime ipotesi elaborate; e, perché no, lasciare aperte alcune opzioni (da esplorare e chiarire nel corso del dibattito, con il contributo della scuola) avrebbe giovato grandemente alla costruzione di un clima positivo e costruttivo tra gli operatori scolastici. Una condizione indispensabile per un proficuo iter parlamentare del progetto di riforma.

Le due tendenze del dibattito

In merito alle scelte strutturali da compiere sono emerse, nel corso di questi mesi, due tendenze critiche, che chiameremo, per brevità, della scuola di base lunga e della scuola di mezzo. Con tali formule abbiamo riassunto anche il parere espresso dal Consiglio Nazionale della pubblica istruzione in data 22 maggio 1997.

  1. La prima opzione ritiene un valore positivo la scelta della unificazione dei due attuali segmenti della scuola dell’obbligo, per la possibilità di definirne meglio il profilo curricolare (unitario). Semmai si critica la ragioneristica operazione di "smistare" i docenti della scuola media tra i due diversi cicli, e si chiedono sostanziose contropartite per i docenti della scuola elementare (nuovo status professionale, formazione universitaria, scorrimenti facilitati verso l’"alto", maggiori opportunità professionali). In questo campo si registra però un consistente malessere circa un’eccessiva contrazione della scuola di base (dagli attuali 8 anni ai 6 ipotizzati), che rischia di metterne in crisi i compiti di alfabetizzazione funzionale, avvallando un possibile impoverimento della didattica. Un apprendimento efficace -si fa notare- richiede una ambientazione sociale, linguistica, operativa assai articolata, che ha bisogno di tempi e spazi "distesi". Da queste constatazioni emerge la richiesta di salvaguardare un percorso più consistente per la scuola di base unitaria: ad esempio ricollocando l’anno iniziale del sessennio superiore al termine della scuola di base.

La maggioranza di questa "corrente" accetta in linea di massima alcune delle opzioni di fondo del modello proposto nel disegno di legge:

Si reclamano tuttavia decisioni indispensabili in merito a:

- riorganizzazione complessiva del curricolo di base;

- definizione di una geografia credibile degli insediamenti scolastici;

- formazione unitaria per i docenti e valorizzazione delle professionalità;

- contromisure per evitare un sessennio primario a vecchia immagine e somiglianza dei cicli precedenti, adombrata purtroppo nella formula 4 (anni di elementari) + 2 (di medie).

  1. La seconda prospettiva rivendica invece il valore strategico di una scuola secondaria con un primo segmento autonomo, e ipotizza una scuola di mezzo "forte", magari potenziata e ristrutturata sulla base di un quadriennio (sul modello del college francese). I sostenitori di tale proposta si rendono comunque conto della insostenibile posizione della attuale scuola media, anche se chiedono prove più convincenti circa la sua presunta improduttività. Sono dunque disponibili a ripensarla radicalmente, fino a "rinnegarne" l’impianto unico, oggi in verità messo in discussione in tutta Europa, in favore di una maggiore articolazione interna (con dosaggi da studiare tra area comune, materie opzionali, percorsi integrativi, ecc.). Accettano cioè la sfida di un’offerta formativa differenziata (ma bisognerebbe meglio intendersi sul termine), in quanto meglio capace di accogliere diversità di stili, di ritmi, di interessi, di attitudini senza trasformarle in differenze irreparabili.

Se la nuova scuola media -si fa notare- potesse dedicarsi con più agio (di qui la richiesta di 4 anni) al consolidamento delle competenze di base (con un curricolo comune più essenziale) e ad un primo orientamento-proiezione verso le scelte successive, la sua "solitudine" (di cui parla emblematicamente il documento del gennaio 1997) verrebbe meno ed il suo contributo al sistema formativo riconosciuto pienamente. Inoltre - si precisa - questa scelta sarebbe più coerente con la storia della scuola italiana (rilegittimando la riforma del 1962), più compatibile con l’attuale geografia degli insediamenti, più rassicurante per i docenti dai quali sarebbe vissuta come ri-posizionamento verso l’alto, poiché si innesterebbe su un impianto esistente e lo amplierebbe.

Le prossime "mosse"

Gli operatori scolastici ora si interrogano sulle prossime mosse del Parlamento. Auspicano un dibattito aperto e coraggioso, che ritorni al paese e nei luoghi ove si fa scuola. Non è ancora il momento degli emendamenti di dettaglio, è necessario intendersi e appassionarsi alle ragioni forti e profonde del cambiamento. Senza innamorarsi di questo o quel "modellino" ingegneristico. La discussione dovrà chiarire il significato culturale complessivo del progetto, su cui si sono manifestate alcune incomprensioni. Si dovranno analizzare e confrontate le diverse ipotesi di soluzioni ordinamentali, magari chiamando le scuole a contribuire costruttivamente alle decisioni da prendere. Sarebbe assai gradita -nel frattempo- una Conferenza nazionale sulla scuola, una sorta di "stati generali" sulla formazione nel nostro paese, per raccogliere le idee via via emerse e ricomporle in un disegno più unitario e partecipato.

 

 

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LEGGE QUADRO SUL RIORDINO DEI CICLI DELL’ISTRUZIONE
(Testo e commento a fronte)

 

Art. 1 (Finalità)

 

1.1 L’educazione, l’istruzione e la formazione sono di preminente interesse nazionale, sono finalizzate alla valorizzazione e alla crescita della persona e della società e si ispirano ai principi sanciti dalla Costituzione, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e dalle Carte internazionali sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

Dopo le critiche, provenienti soprattutto dal mondo cattolico, circa la mancanza di espliciti riferimenti nel documento introduttivo di gennaio alla formazione della persona (poche volte era citato il termine "educazione" a fronte delle decine di referenze per "istruzione" e "formazione") il Ministro è corso ai ripari, distribuendo equamente lungo il testo di legge le terminologie valoriali. Ma con quale interpretazione ? Azzardiamo che "educazione" stia per promozione di valori, atteggiamenti, convivenza, cittadinanza; che "istruzione" indichi i processi di formazione culturale e di apprendimento di conoscenze, che "formazione" richiami l’acquisizione di competenze ed abilità da utilizzare in ambito specialmente professionale. E’ evidente che tali finalità sono strettamente tra di loro interrelate, ma che compito specifico della scuola è la formazione culturale. Perché non dirlo più chiaramente, richiamando comunque fin dall’art. 1 i compiti del sistema formativo ? La formulazione prescelta è troppo pervasiva ed "ecumenica" ed il richiamo all’interesse "nazionale" riecheggia modelli culturali desueti (insomma: educazione nazionale o pubblica istruzione come "dovere" della comunità nazionale ?)

1.2 I genitori, nell’esercizio del loro diritto dovere di educare e istruire i figli, collaborano con le istituzioni scolastiche per la realizzazione degli obiettivi di cui al comma 1.

Anche questo comma rappresenta un gesto di attenzione nei confronti di una tradizionale preoccupazione del mondo cattolico. Il tono appare comunque misurato. Il termine "collabora" segnala un punto di equilibrio che evita vecchie dispute sulla priorità dell’una o dell’altra istituzione nella formazione dei giovani.

1.3 La Repubblica valorizza le differenze e rispetta le identità di ciascuno, assicura a tutti pari opportunità di raggiungere un adeguato livello culturale, di acquisire capacità autonome di apprendimento e di giudizio critico e di sviluppare le abilità e le capacità coerenti con le inclinazioni personali e quelle necessarie per inserirsi nella vita sociale e lavorativa.

Comma ricco (fin troppo) di riferimenti concettuali e valoriali. L’impegno per l’ uguaglianza di opportunità (tema caro alla pedagogia progressista italiana, non solo a partire da Don Milani) appare oggi arricchito dal richiamo alle differenze e alle identità. Non si persegue un astratto uguagliamento dei percorsi, ma la complementarità e la diversificazione delle proposte formative per realizzare il "massimo" di sviluppo personale di ciascuno: principio che -come si vedrà- apre a considerazioni innovative (da ponderare con attenzione) sul piano degli ordinamenti (non più la stessa scuola uguale per tutti, anche nella fascia dell’obbligo). Va apprezzato il riferimento all’autonomia nell’apprendimento, obsoleto appare invece il concetto di "inclinazione" (perché non "attitudini"?), debole il richiamo alle competenze "sociali" ed "affettive". Appare contenuto il tema della formazione come "risorsa" per lo sviluppo personale, sociale e produttivo. Anche in questo caso si erano accese forti polemiche circa la presunta strumentalizzazione dell’istruzione alle ragioni "esterne" della produttività e della competitività dei sistemi economici.

art. 2 (Sistema di istruzione e formazione)

 

2.1 Il sistema di istruzione e formazione si articola in:

a) scuola dell’infanzia, istruzione primaria e secondaria;

b) formazione professionale;

c) formazione superiore non universitaria;

d) istruzione superiore universitaria;

e) formazione continua.

Il comma anticipa, in estrema sintesi, il quadro complessivo di un sistema formativo integrato, che non si limita a considerare il solo segmento curricolare (quello prettamente scolastico), ma si distende verso la formazione superiore e quella extrascolastica, lungo tutto l’arco della vita, in sintonia con i documenti europei sull’educazione permanente. Il disegno appare assai ambizioso. Riuscirà il testo dell’articolato a tener fede a queste "succose" promesse di innovazione a tutto campo ? Restano poi da definire i compiti ed i rapporti tra le diverse articolazioni del sistema così delineato. Occorre dunque inoltrarsi nel merito del progetto.

2.2 Tutti i giovani hanno diritto all’istruzione e alla formazione fino al diciottesimo anno di età.

Comma "breve", ma dalle conseguenze "incalcolabili" (ma sono state ben calcolate ?). Con questa dicitura, di fatto, il percorso scolastico si accorcia di un anno (oggi l’uscita è al 19° anno), e diventa indispensabile "ridisegnare" il rapporto tra i cicli attuali. Da un lato è un segnale verso le nuove generazioni (i tempi dell’adolescenza non possono dilatarsi all’infinito), che fa credito a più autonome capacità di scelta, di progettazione, di sviluppo personale; ma dall’altro si intravede anche l’idea di una accelerazione "produttiva" dei tempi di vita (quasi che per essere competitivi non si possa perdere troppo tempo...). E’ inoltre evidente che l’accorciamento di un anno di scolarità (oggi il percorso formativo istituzionale va dai 3 ai 19 anni) dovrebbe essere compensato da una più intensa scolarizzazione (cioè dall’aumento dei tassi di presenza a scuola). Appare quindi debole il solo principio del "diritto all’istruzione"; occorre almeno richiamare il concetto di "obbligo formativo" fino ai 18 anni (anche se non a tempo pieno), per non veder ridotte le opportunità di formazione.

E’ necessario anche uno sguardo più attento all’Europa, ove le scelte in materia sono diverse, ma dove in caso di uscita a 18 anni, non esiste una scuola secondaria superiore "lunga" (come è la nostra).

La prima impressione, da verificare negli articoli successivi, è che il duplice obiettivo di anticipare l’uscita dal sistema scolastico a 18 anni, salvaguardando al contempo un segmento lungo di scolarità secondaria superiore, produca una eccessiva contrazione dell’istruzione primaria (o meglio, di base).

Va inoltre ricordato che l’uscita a 18 anni (con la riduzione delle annualità di scuola da 16 a 15) "libera" 1/16 di risorse docenti (circa 50.000 insegnanti) che non possono essere considerati l’"esubero" per finanziare la riforma dei cicli, ma piuttosto 50.000 risorse "non frontali" per arricchire la qualità del sistema scolastico e migliorarne la produttività (attraverso forme incisive di tutoring, orientamento, individualizzazione, figure di sistema, ecc.).

2.3 Il sistema di istruzione e formazione si caratterizza, ai sensi della legge 15 marzo 1997, n. 59, per l’offerta lungo tutto l’arco della vita di percorsi formativi anche individualizzati, che, valorizzando tutte le capacità, consentano alle persone di realizzare in modo consapevole e responsabile il proprio progetto di vita.

Si pone al centro del percorso formativo (non solo scolastico) l’allievo, riconoscendogli una piena ed autonoma capacità di orientare e determinare la propria formazione. Sono qui abbozzati alcuni concetti fondamentali: di sistema formativo integrato, di orientamento, di individualizzazione della proposta formativa, di progetto di vita, che andrebbero meglio esplicitati. Appare pleonastico il richiamo alla legge 59/97.

2.4 La presente legge detta i principi fondamentali dell’istruzione impartita dalle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e dei suoi collegamenti definiti dal ministro della Pubblica Istruzione di concerto con il ministro del Lavoro, sentita la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, con la formazione professionale e con l’istruzione superiore.

Comma apparentemente tecnico (si precisa che siamo di fronte ad una legge quadro, di principi fondamentali), ma che assume un indubbio valore istituzionale, per l’ampliarsi dei soggetti coinvolti nella definizione del sistema formativo integrato. Rimane non definito (in attesa degli esiti della "bicamerale"?) a chi spetti la regia di un tale sistema integrato. Le diciture prescelte, come già nella L. 59/97, sono allusive di nuove concertazioni, armonizzazioni e collegamenti, tra istituzioni dello Stato ed autonomie locali, senza una esplicita definizione di compiti e responsabilità. Appare, al momento, forte il peso dei soggetti esterni alla pubblica istruzione (ministero del Lavoro e rete dei poteri locali), mentre è assente la voce "autonoma" della scuola, anche per la fragilità dell’attuale forma di rappresentanza (troppo sindacale e poco culturale e professionale) degli operatori scolastici nel Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione.

Art. 3 (Obbligo scolastico)

 

3.1 La scuola dell’obbligo ha la durata complessiva di dieci anni, inizia con l’ultimo anno della scuola dell’infanzia e si conclude col terzo anno del ciclo secondario. Alla generalizzazione della scuola dell’infanzia si provvede a norma dell’art. 16, con particolare attenzione e priorità per le aree più a rischio e svantaggiate.

L’estensione dell’obbligo a 10 anni è un dato acquisito nelle tesi dell’Ulivo alla base della coalizione di centro-sinistra (riconfermato nell’accordo per il lavoro del settembre 1996) e consente di colmare un ritardo europeo non più sostenibile. Occorre tuttavia rammentare che il semplice prolungamento dell’obbligo non risolve di per sé il tema del successo formativo, che va ricercato soprattutto nella qualità dell’offerta formativa (e quindi delle concrete condizioni del fare scuola). L’obbligo scolastico appare dunque uno strumento giuridico "spuntato" anche se di forte impatto sociale. L’aspettativa era comunque di una "salita" dell’obbligo a 16 anni, per raggiungere uno standard di livello europeo, anche come effetto di trascinamento del "battage" pluriennale sul biennio obbligatorio. In merito alla scelta di spendere le due annualità "obbligatorie" a 5 anni e a 15 anni occorre citare il dato del 93 % di frequenza attuale della scuola dell’infanzia, a fronte di frequenze più basse a 15 anni, ed ancora più ridotte a 16 anni. Spendere la seconda annualità obbligatoria a 16 anni potrebbe risultare un investimento più incisivo della proposta di anticiparlo a 5 anni. Questa scelta può essere fortemente fraintesa (lo si è già letto nel documento di gennaio e nelle interpretazioni della opinione pubblica) come precoce preparazione ai ritmi ed alle pratiche della alfabetizzazione strumentale. Un obbligo "lungo" (a 16 anni) potrebbe sfociare anche nel rilascio di una prima e parziale certificazione professionale (opzione prevista nell’accordo Governo-Sindacati del 10-12-1997), mentre una simile opzione in presenza di un obbligo "corto" (a 15 anni) rischia di anticipare troppo forme di professionalizzazione.

L’estensione dell’obbligo al 5° anno introduce la novità di una scuola (quella dell’infanzia) con due regimi giuridici diversi per la frequenza, con effetti tutti da approfondire sul piano pedagogico (v. oltre art. 5) e su quello istituzionale. Inoltre, una scuola obbligatoria a forte presenza non statale -circa il 40 % del settore- pone il delicato problema della parità, con tutte le questioni connesse (giuridiche e finanziarie, oltre che politiche).

La scelta proposta nell’articolato va dunque adeguatamente "testata" e non può essere data per scontata.

3.2 Ha adempiuto all’obbligo scolastico l’alunno che abbia superato l’esame previsto al termine del terzo anno del ciclo secondario. Chi non l’abbia superato è prosciolto dall’obbligo se dimostri di aver osservato per almeno dieci anni le norme sull’obbligo scolastico; in tal caso gli studi compiuti, le capacità e le abilità acquisite sono certificati a norma dell’art. 9, comma 2.

La formula prescelta per l’assolvimento dell’obbligo è di carattere "legale", pur con l’importante innovazione della certificazione dei "crediti formativi" spendibili successivamente. Ma sarebbe socialmente più efficace stabilire che al termine dell’obbligo si esce o con un titolo di studio o con una certificazione professionale. Va poi analizzato l’impatto di un ciclo (quello secondario) con due regimi giuridici diversi (obbligatorio e non) che sembra richiamare una netta demarcazione di percorsi (fino a prefigurare due scuole separate e diverse) e non un semplice passaggio all’interno di un ciclo unitario. E’ qui evidente una diversa impostazione tra documento di gennaio (con una più marcata autonomia del triennio secondario iniziale -scuola dell’orientamento) e testo del d.d.l. (in cui si sottolinea l’unitarietà del percorso sessennale secondario) (per tacitare le preoccupazioni espresse dalla variegata "lobby" delle superiori ?).

3.3 In via transitoria, a decorrere dall’anno scolastico successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, l’adempimento dell’obbligo scolastico può essere soddisfatto nell’attuale scuola secondaria superiore, a partire dalla prima classe, secondo quanto previsto dagli articoli 16 e 17.

La soluzione è transitoria ma si rivela estremamente debole, con un obbligo "posticcio" collegato alla frequenza della sola prima classe superiore (che finisce con l’essere un mero adempimento formale...)

3.4 Nella fase transitoria le istituzioni scolastiche possono applicare le disposizioni di cui all’articolo 8, comma 4 anche al fine di progettare percorsi individualizzati che favoriscano l’adempimento dell’obbligo scolastico.

Il comma pone il delicato problema degli interventi formativi necessari per sostenere anche gli allievi più "deboli", quelli a rischio di evasione dall’obbligo. Si propone a questi utenti una più marcata accentuazione "operativa" e "professionale" della loro formazione (anche con moduli "esterni" alla scuola). Il rischio è di prefigurare un percorso differenziato all’interno dell’obbligo (per i casi difficili), associando il carattere professionalizzante della formazione ad uno stato di apprendimento debole (riconfermando così una vecchia gerarchia dei saperi). In ogni caso resta il problema di come realizzare un effettivo processo di individualizzazione e personalizzazione dell’apprendimento.

3.5 Lo Stato, le Regioni e gli enti locali, nell’esercizio delle proprie competenze, attuano gli interventi necessari a garantire la frequenza della scuola dell’obbligo.

Il comma riconferma genericamente un quadro normativo in evoluzione, rimandando a futuri equilibri il rapporto tra i diversi soggetti istituzionali. E’ però urgente studiare le condizioni di fattibilità del modello strutturale proposto, il suo "impatto ambientale" in ordine alla disponibilità delle strutture edilizie (che da tre tipologie di insediamenti -elementari, medie, superiori- si ridurrebbero a due sole -primario o secondario), alla loro distribuzione sul territorio, alle dotazioni necessarie, ai servizi di supporto. Va puntualizzato il problema degli oneri "strumentali", relativamente all’ipotizzato segmento 12-15 anni: in quanto scuola dell’obbligo sarebbe di pertinenza del Comune, in quanto scuola secondaria della Provincia (v. Legge 23/94). Una ragione in più per sciogliere il profilo bifronte del primo triennio del ciclo secondario.

Art. 4 (Integrazione delle persone con handicap)

 

4.1 Nel sistema di istruzione e formazione si realizza l’integrazione delle persone con handicap, con l’obiettivo di svilupparne le potenzialità nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione e di garantire loro il raggiungimento della massima autonomia possibile, a norma della legge 5 febbraio 1992, n.104 e successive modificazioni e integrazioni.

L’articolo corregge opportunamente una dimenticanza del documento di gennaio, nel quale l’assenza di ogni riferimento alla scelta dell’integrazione nelle scuole comuni degli alunni in situazione di handicap (avvenuta invece in modo sistematico a partire dalla legge 517 del 1977) sembrava essere la conferma di una visione efficientistica e produttivistica della formazione. L’integrazione diventa dunque un indicatore di qualità per le innovazioni che si intendono introdurre nella scuola. La presenza di soggetti con handicap sollecita una attenzione più mirata a bisogni specifici (di apprendimento, di comunicazione, di socializzazione, di autonomia), bisogni che si riferiscono comunque a tutti gli allievi. L’integrazione dei "disabili" si trasforma così in una garanzia di qualità per tutti. Non è dunque un problema che riguardi solo gli insegnanti di sostegno (per i quali sono previste notevoli novità già nella Legge 449/97, collegata alla finanziaria 1998).

Art. 5 (Scuola dell’infanzia)

 

5.1 La scuola dell’infanzia concorre alla formazione e allo sviluppo affettivo, cognitivo e sociale dei bambini e delle bambine di età compresa tra i tre e i sei anni, promuovendone le potenzialità di autonomia, conoscenza, creatività e assicurando ad essi un’effettiva eguaglianza delle opportunità educative anche attraverso interventi di prevenzione e compensazione volti a ridurre ogni forma di svantaggio iniziale. Nell’ambito dell’integrazione dei servizi sociali ed educativi rivolti all’infanzia attua forme di raccordo con l’asilo nido.

Il profilo pedagogico della scuola dell’infanzia delineato nell’articolo è senz’altro in sintonia con i recenti Orientamenti educativi (1991). Le categorie di "sviluppo affettivo, cognitivo e sociale" richiamano da vicino le finalità di "identità, competenza, autonomia" descritte nel testo programmatico. Significativo è pure il termine "potenzialità", che riconferma il carattere plastico e dinamico dello sviluppo infantile, cui deve corrispondere un ambiente educativo di analoga qualità. Anche il riferimento alla "creatività" e all’"autonomia" rammenta l’esigenza di mantenere assai "aperto" e "flessibile" l’approccio metodologico e didattico, non immediatamente preoccupato di raggiungere in anticipo risultati scolastici, ma piuttosto di promuovere una pluralità di linguaggi e di forme di rappresentazione e comunicazione. Si tratta di una caratteristica pedagogica tipica delle migliori scuole dell’infanzia italiane, oggetto di studio anche a livello europeo, che va salvaguardata e potenziata nell’ambito del ridisegno dei cicli. Il richiamo agli interventi di carattere compensativo non va pertanto riferito ad un "indurimento" (nel senso della precoce formalizzazione) del curricolo della scuola dell’infanzia, che deve invece rimanere assai "implicito" (cioè basato sulle caratteristiche di accoglienza dell’intero contesto educativo: spazi, tempi, materiali, relazioni, ecc.). Innanzi tutto va assicurata l’istituzione di scuole dell’infanzia pubbliche (e qualificate negli ambienti e nei servizi) in tutte le situazioni ove se ne manifesti l’esigenza (a partire, ma non solo, dalle grandi aree urbane del Sud). Per la fascia della prima infanzia (0-3 anni) andrebbe potenziata la presenza di servizi educativi anche in forme "alternative" a quelle istituzionali (come è l’asilo nido, che coinvolge -al momento solo il 7 % della popolazione fino a 3 anni), ad esempio attraverso centri per l’infanzia, strutture per i genitori, forme di sostegno familiare, ludoteche, ecc.. La recente Legge 285/97 (legge Turco) apre interessanti prospettive di convergenza tra scuola e territorio per una politica integrata a favore dell’infanzia, e quindi per una effettiva prevenzione delle situazioni di disagio.

5.2 Nell’ultimo anno, la scuola dell’infanzia, salvaguardando la propria continuità educativa, potenzia il conseguimento degli obiettivi cognitivi e relazionali e realizza, inoltre, i necessari collegamenti con il ciclo primario.

A fronte dell’ipotesi di rendere obbligatorio l’ultimo anno di frequenza della scuola dell’infanzia (che abbiamo commentato al punto 3.1) si provvede ora a delinearne uno specifico profilo curricolare. Da un lato viene auspicata la unitarietà del percorso educativo triennale, dall’altro si introduce il concetto di "potenziamento" delle competenze da conseguire a 5 anni. Il termine è senza dubbio più accettabile di quello di "preparatorio" utilizzato in precedenza. Equilibrato appare il richiamo sia agli obiettivi cognitivi che a quelli relazionali, che suggerisce una corretta interpretazione di un modello psico-pedagogico a sfondo interazionista-costruttivista. Il collegamento con il ciclo primario potrebbe implicare l’organizzazione di un biennio-ponte tra scuola dell’infanzia e primo anno elementare (magari con una presenza incrociata di docenti dei due livelli). Decisiva è tuttavia la caratterizzazione didattica di un tale biennio (quanto ad ambientazione, tempi distesi, qualità delle relazioni, operatività delle metodologie), che dovrà essere molto più vicina ad una buona scuola dell’infanzia che non ad una prima classe elementare. Resta quindi una riserva di fondo sulla proposta di anticipo dell’obbligo a 5 anni, per una sua possibile cattiva traduzione sul piano pedagogico, anche per la spinta a "guadagnare" comunque a 5 anni l’annualità "persa" successivamente. Ad esempio, perché inserire solo l’ultimo anno della scuola dell’infanzia, e non tutta la scuola, nell’area della scuola di base (v. grafico del documento di gennaio) ?

Art. 6 (Ciclo primario)

 

6.1 Il ciclo primario è suddiviso in tre bienni.

Il modello prescelto rappresenta una vera novità nel panorama italiano, in quanto unifica in un unico ciclo le attuali scuola elementare e media. L’interpretazione è un po’ rude (lo ammettiamo) ma è dovuta alla letterale citazione dalla relazione di accompagnamento del ddl, ove si afferma che il ciclo primario "riunifica in sé l’attuale scuola elementare e media, senza perderne talune caratteristiche". In questi termini l’operazione rischia di perdere molto di quell’appeal (finalmente la vagheggiata scuola di base unitaria !) con cui era stata da molti accolta. Non ci riferiamo per ora al problema del personale docente (con la scelta ipotizzata nel documento di gennaio ’97 e nelle successive ipotesi tecnico-contabili si determina infatti un "esubero" di circa 50.000 docenti elementari), ma alla connotazione "pedagogica" di tale segmento. Intanto l’uso del termine "primario" appare riduttivo e fuorviante (oggi la scuola "primaria" è sinonimo di scuola "elementare" -v. DPR 104 del 5-2-1985, Nuovi programmi didattici). Molti addetti ai lavori, ancora oggi, leggono la proposta come un allungamento della scuola elementare a 6 anni, o come la semplice aggiunta della classe 1^ media -diventata la 6^ classe- alle cinque annualità elementari preesistenti. Infatti solo i passaggi successivi dell’articolato relativi al ritmo interno al sessennio (4+2) consentono di valutare il significato "implicito" della proposta. Si tratta non già di una "primary school" all’inglese (ove il ritmo interno al sessennio è invertito, 2+4, dai 5 ai 10 anni), ma di una vera e propria "scuola di base" che deve consentire una prima forma di consolidamento delle competenze (v. l’ultimo biennio) tipica di una situazione di secondarietà (cioè di organizzazione delle conoscenze per specifiche e definite discipline di studio). Poiché l’immagine della scuola media e la professionalità dei suoi operatori è stata costruita in questi 30 anni proprio sul tema della secondarietà (v. i programmi del 1979) oggi appare fonte di disorientamento per tali operatori la previsione di essere parte di un ciclo "primario" (cioè elementare). Certamente non è questa l’intenzione degli estensori del progetto, ma quanto meno si è fatto un uso troppo disinvolto di una terminologia che ha per altro un suo valore giuridico ed una sua sedimentazione culturale. In definitiva: se si tratta di una scuola solo "primaria" non appare giustificata la sua dilatazione a sei anni (a meno che non si pensi al modello inglese che "sfonda" però verso la scuola dell’infanzia); se si tratta di una "scuola di base" il percorso appare troppo compresso, per le ragioni che vedremo di seguito.

6.2 Il ciclo primario, attraverso il coerente sviluppo del proprio percorso, che si raccorda da un lato alla scuola dell’infanzia e dall’altro al ciclo secondario, concorre alla formazione dell’uomo e del cittadino nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità individuali, sociali e culturali. Esso favorisce la formazione della personalità degli alunni promuovendone l’alfabetizzazione per l’acquisizione dei linguaggi e dei saperi indispensabili, per lo sviluppo delle capacità critiche e di un atteggiamento positivo nei confronti dell’apprendimento, per il riconoscimento e la condivisione dei valori fondanti la convivenza civile e democratica.

Le finalità attribuite al ciclo primario (ma perché ciclo e non scuola ?) riprendono affermazioni già contenute nei documenti programmatici della scuola elementare (1985) e media (1979), di notevole spessore valoriale (anche se forse scontate). Il concetto di alfabetizzazione si collega correttamente ai compiti di prima formazione (primaria) attribuita a questo ciclo, arricchito con il richiamo ai saperi (conoscenze dichiarative), ai linguaggi (conoscenze rappresentative), alle capacità critiche (conoscenze procedurali) ed allo sviluppo di valori partecipativi positivi. Da apprezzare, come già per il profilo relativo alla materna, la costruzione di un rapporto positivo con l’apprendimento, inteso come risorsa a disposizione di ogni allievo.

Alla luce della scelta di un percorso di base di soli sei anni viene però da chiedersi se il tempo a disposizione sia comunque compatibile con un curricolo così impegnativo e ambizioso. Occorre interrogarsi senza pregiudiziali, sia sulla "natura" di questo curricolo, sia sul tempo -alias le condizioni- necessario per svilupparlo.

6.3 Obiettivi dei primi due bienni è lo sviluppo delle conoscenze e delle abilità di base e della dimensione relazionale.

Accentuare la diversificazione tra quadriennio iniziale e biennio finale risponde alla logica ed all’economia interna del modello di "ciclo primario", ma rischia di mettere poi in crisi l’idea di un coerente ed unitario percorso formativo di base. Se si ipotizza di ospitare l’intero ciclo "primario" nel medesimo edificio, come giustificare poi una differenziazione di compiti, di ruoli, di affidamento di classi tra gli insegnanti ? Ma poi, quattro anni sono un tempo sufficiente per sviluppare conoscenze e abilità essenziali (alfabetizzazione primaria)? Occorre quanto meno ripensare in profondità agli attuali obiettivi della scuola elementare (alfabetizzazione culturale) per proporre un curricolo più "sobrio". Un curricolo essenziale (o syllabus) non può però trasformarsi in un curricolo più povero, semmai dovrebbe diventare ancora più ricco sul versante metodologico. Si può lavorare su poche abilità fondamentali e su alcuni contenuti essenziali (le grandi "aree tematiche" di cui al comma successivo), evitando una precoce suddivisione per discipline (veicolata anche dalla Riforma dei moduli) e curando una ambientazione didattica qualificata (ricca di stimoli operativi, sociali, affettivi, costruttivi, esperienziali). Questo approccio richiede tempi distesi, non garantiti nemmeno dalla attuale organizzazione modulare. Se la scuola elementare diventa di soli 4 anni, si trasformerà allora in una scuola tutta a "tempo pieno" come è oggi la scuola dell’infanzia ?

6.4 Obiettivo del terzo biennio è il consolidamento, l’approfondimento e lo sviluppo delle conoscenze acquisite e la crescita di autonome capacità di studio, di elaborazione e di scelta coerenti con l’età degli alunni, mediante il graduale passaggio dalle grandi aree tematiche alle discipline.

All’ultimo biennio del ciclo primario (quanto istituzionalmente autonomo dai due precedenti ?) viene attribuito il compito di consolidare e approfondire le competenze acquisite nei due bienni iniziali. Gli obiettivi sono centrati sullo sviluppo di competenze procedurali (dotarsi di un autonomo metodo di studio) e di progressiva organizzazione delle conoscenze per discipline. A questo proposito sarebbe più opportuno parlare di ambiti disciplinari, per evitare una precoce frammentazione disciplinare, uno dei motivi della "crisi" della attuale scuola media. L’impianto curricolare del terzo biennio dovrebbe piuttosto assomigliare all’attuale assetto "modulare" delle elementari (3-4 ambiti) piuttosto che ripetere ed anticipare la stuttura per discipline e cattedre della scuola media di oggi. Anche in questo caso si ripropone il dilemma circa il tempo indispensabile per sviluppare funzioni di consolidamento e di orientamento alle scelte. In alcuni paesi europei (ad es. Francia) si ritiene opportuno che questo segmento possa disporre di maggior tempo e di una apposita ed autonoma struttura ordinamentale. Sono domande, non puramente conservative, che molti si pongono anche in Italia ed a cui occorre dedicare più attenzione di quanto fino ad oggi è avvenuto.

6.5 Nel corso dell’intero ciclo primario e al termine di ciascun biennio, al fine di promuovere efficaci azioni di compensazione e potenziamento, sono introdotti momenti di valutazione; la valutazione finale assume il valore di esame di Stato.

E’ scomparsa la dicitura "valutazione formativa" che meglio avrebbe fatto comprendere il ruolo "regolativo" che viene attribuito alla valutazione nel ciclo primario, finalizzata al miglioramento dei processi e dei risultati dell’apprendimento. Non è chiaro se una valutazione di carattere sommativo e certificativo (con il connesso problema della promozione/bocciatura) sia rimandata al termine di ogni biennio e non più di ogni annualità. Questa scelta farebbe acquisire un significato più pregnante all’articolazione del ciclo in bienni (da intendersi come tempi "distesi" , capaci di accompagnare diversità di ritmi e di stili di apprendimento, attraverso un approccio modulare alla didattica). Il tema valutativo è senz’altro da riprendere, ricucendo lo sbrigativo "strappo" dell’estate 1996 sulle schede "semplificate" di valutazione, e piuttosto da ricondurre alle nuove prospettive del sistema nazionale per la qualità dell’istruzione.

Art. 7 (Ciclo secondario)

 

7.1 Il ciclo secondario, che ha la durata di sei anni, si articola nelle grandi aree umanistica, scientifica, tecnica, tecnologica, artistica e musicale e ha la funzione di consolidare e riorganizzare le capacità e le competenze acquisite nel ciclo primario, di arricchire la formazione culturale, umana e civile degli studenti, sostenendoli nella progressiva assunzione di responsabilità, e di offrire loro conoscenze e capacità adeguate all’accesso all’istruzione superiore universitaria e non universitaria ovvero all’inserimento lavorativo. Ciascuna area è ripartita in indirizzi.

E’ accettabile il quadro delle funzioni attribuite alla nuova secondaria superiore, mentre un po’ invecchiato appare l’impianto strutturale che riprende la classica ripartizione in aree e indirizzi. Questa scelta impoverisce la valenza formativa generale, "comprehensive", da attribuire alla scuola superiore, almeno alla sua parte iniziale ed obbligatoria, e sembra accentuare la canalizzazione dei percorsi secondari.

Va accolta comunque con favore la scomparsa di un possibile indirizzo "professionale" (avrebbe vanificato l’intero impianto culturale), anche se poi nulla si dice circa il futuro degli attuali istituti professionali (forse da ricondurre tutta nell’alveo istituzionale della formazione professionale regionale ?). L’incertezza è ben rappresentata dalla coesistenza di due aree (tecnica e tecnologica) di difficile decifrazione (tecnologico=utilizzo operativo dei saperi tecnici ?) e dalla ambizione della "terminalità" del percorso scolastico, dal quale accedere direttamente all’inserimento lavorativo (dimenticando il ruolo di una formazione professionale "specialistica" , "breve" e "contestualizzata").

7.2 Il ciclo secondario costituisce un unico e coerente percorso.

La affermazione è assai perentoria e contribuisce a caratterizzare l’intera proposta (il termine "unico" non viene utilizzato neppure a proposito del ciclo primario). La scuola secondaria sessennale si presenta quindi come un percorso fortemente coeso e compatto, con tutti i pregi e i difetti (a seconda dei punti di vista) che la scelta comporta. Avere più tempo a disposizione consente certamente di svolgere una funzione di accoglienza e di progressivo orientamento. Ma l’organizzazione stutturale dovrà renderla effettivamente possibile, ad esempio con la compresenza di più indirizzi ed aree nello stesso istituto scolastico.

7.3 L’anno iniziale, comune per tutte le grandi aree di cui al comma 1, si caratterizza per la prevalenza degli insegnamenti fondamentali e per la varietà di proposte selettive e coordinate di approfondimento di temi specifici, attraverso le quali ciascuno possa cominciare ad elaborare scelte che corrispondano a una piena valorizzazione personale fondata sulla pari dignità delle possibili opzioni culturali e di vita.

Sarebbe stato preferibile presentare un’immagine più unitaria e forte del primo triennio (obbligatorio) della nuova scuola secondaria. Si nota invece l’accantonamento della dizione "scuola dell’orientamento" e la scelta di un modulo 1+2 che rispecchia da vicino la struttura attuale (un biennio di scuola superiore già fortemente orientato preceduto, a mo’ di zoccolo, dalla ex-classe 3^ media). Ma come si potrà garantire una formazione comune con una sola annualità posta per altro all’interno di contenitori (i sessenni) già fortemente caratterizzati ? Quale sarà la quota di discipline fondamentali (quelle comuni) ? Come sviluppare in un arco temporale così breve (un solo anno) un curricolo così impegnativo, a cui si richiede tra l’altro di promuovere approfondimenti specifici e fornire orientamenti selettivi ? Un tale curricolo avrebbe richiesto certamente un tempo assai più congruo.

Resta l’interrogativo se una formazione obbligatoria che punti ad una differenziazione "controllata" dei percorsi possa meglio avvenire all’interno di una struttura scolastica unitaria di base o se (come si fa nella proposta) debba essere "attratta" verso scuole superiori già ben caratterizzate. Torna cioè il dilemma tra i possibili modelli europei: scuola di base lunga (paesi scandinavi), scuola di mezzo forte (modello francese), scuola secondaria canalizzata (modello tedesco) ? Una qualche riflessione approfondita in merito non guasterebbe.

7.4 Il secondo e il terzo anno, che si articolano in autonomi moduli, si caratterizzano per l’approfondimento degli insegnamenti comuni e per la progressiva estensione dell’area degli insegnamenti disciplinari specifici dell’indirizzo prescelto, al fine di consentire l’acquisizione di capacità progettuali personali, il rafforzamento della motivazione allo studio e alla formazione e la verifica delle scelte e delle vocazioni culturali. Essi costituiscono momento conclusivo dell’obbligo scolastico e garantiscono agli studenti conoscenze, abilità, e orientamento adeguato per le successive scelte scolastiche e di vita. Si conclude con un esame, valido ai fini della prosecuzione degli studi nell’indirizzo prescelto.

Il triennio obbligatorio si viene caratterizzando per una progressiva estensione dell’area degli insegnamenti specifici (manca però la doverosa indicazione di alcune quote o parametri di riferimento nel rapporto tra area comune e area di indirizzo). Manca inoltre una valutazione della sostenibilità di un curricolo precocemente "disciplinare" da parte di ragazzi di 13-15 anni. Se il progetto strutturale non delinea le caratteristiche del curricolo didattico la sua interpretazione potrà risultarne falsata, prevalendo -fino a prova contraria- gli attuali metodi di insegnamento. L’impianto per moduli espone ionltre il curricolo ad una estrema fragilità, mentre non è sciolto il rapporto tra i due cicli in ordine alla organizzazione delle conoscenze (ad esempio, che tipo di insegnamento storico si proporrà lungo il sessennio ?). Se il quadro delle competenze da conseguire lungo il corso di studi, imperniato su un ruolo attivo e motivato degli allievi, è del tutto accettabile, non si intravvede però un curricolo adeguato a tale ipotesi.

Infine non sono chiari il valore e la forma da dare all’esame al termine del triennio (In altra parte del testo si parla di "licenza dell’obbligo").

7.5 Nel triennio finale l’offerta formativa è caratterizzata dalla prosecuzione, dall’ampliamento e dall’approfondimento, anche per temi specifici, degli insegnamenti, con particolare riguardo a quelli di indirizzo e all’area progettuale, al fine di assicurare agli studi la necessaria terminalità culturale e professionale. Nel corso dell’ultimo anno gli istituti secondari, anche di intesa con le università, con altre agenzie formative, col mondo della ricerca e delle professioni, attivano percorsi di approfondimento mirati a fornire agli studenti gli elementi conoscitivi necessari per l’elaborazione delle ulteriori scelte.

Il triennio finale assume un più spiccato carattere "specialistico" attraverso l’ampliamento dell’area di indirizzo e di quella progettuale (elettiva ?). Torna però la richiesta di garantire una (necessaria ?) terminalità professionale, che mal si concilia con un impianto culturale di tipo generale. In questa ottica si legge anche la caratterizzazione fortemente orientativa dell’ultimo anno (ove sono previsti moduli di approfondimento) che potrebbe più opportunamente essere spostata fuori della scuola (con un anno di preparazione all’Università o di specializzazione professionale).

7.6 Al termine del ciclo secondario gli studenti sostengono un esame di Stato, che assume la denominazione dell’area e dell’indirizzo.

La previsione di un esame di Stato, recentemente riformato dal Parlamento, va raccordato con le innovazioni in merito alla certificazione delle competenze e dei crediti acquisiti.

Art. 8 (Disposizioni relative al ciclo secondario)

 

8.1 Il ciclo secondario si realizza negli attuali istituti di istruzione secondaria di secondo grado che assumono la denominazione di "istituti secondari".

Il comma riconferma l’innesto del ciclo secondario negli "attuali" istituti superiori. Nulla si dice circa la presenza di più indirizzi ed aree nello stesso complesso scolastico o circa una autonoma specificità del triennio iniziale (due misure che appaiono necessarie per sviluppare appieno la funzione orientante di tale segmento scolastico).

8.2 Nel secondo e nel terzo anno è garantita la possibilità di passare da un modulo all’altro anche di indirizzo diverso mediante l’attivazione di apposite iniziative didattiche deliberate dal consiglio di classe e finalizzate all’acquisizione di una preparazione adeguata al nuovo indirizzo. Analoghe iniziative sono attivate in favore degli studenti che, dopo la licenza dell’obbligo, passino ad aree e indirizzi non coerenti con le scelte iniziali.

E’ prevista la possibilità di modificare la scelta iniziale, cambiando indirizzo fino all’inizio della quarta classe, previo corsi di "riallineamento" culturale. L’ipotesi, doverosa, pare piuttosto un caso eccezionale che non la regola "normale" di una scuola orientativa a più indirizzi. Non è chiaro, infine, il significato attribuito al concetto di modulo (azzardiamo: unità compiuta di apprendimento corrispondente ad un segmento di curricolo disciplinare ?).

8.3 La frequenza dei primi tre anni del ciclo secondario, sulla base di intese tra gli istituti e gli enti locali, può svolgersi, in relazione alla conformazione del territorio, in sedi decentrate facilmente raggiungibili dagli studenti.

L’indicazione di utilizzare gli attuali contenitori delle scuole medie (si tratta di ben 7.949 sedi scolastiche, tra principali e succursali-1996/97) risponde ad una diffusa preoccupazione circa l’impoverimento delle comunità periferiche che si vedrebbero private di insediamenti scolastici secondari, con il fenomeno di un più precoce pendolarismo verso le scuole superiori dei centri urbani più consistenti. Non viene però precisato se i cicli triennali "decentrati" siano succursale monovalente di un istituto a specifico indirizzo (ma in base a quali criteri ?) o cicli polivalenti in grado di far accedere a più indirizzi successivi (ma con quale consistenza "minima" per garantire un ventaglio significativo di opzioni ?). Il punto rivela una certa "nostalgia" per la migliore praticabilità del modello "francese", che potrebbe avvalersi della attuale rete di scuole secondarie di I° grado. La scuola dell’orientamento -ma tale ipotesi sembra scomparsa dal testo del ddl- avrebbe potuto candidarsi a diventare la nuova scuola media del 2000 (ma allora -aggiungiamo noi- perché non "recuperare" anche il 6° anno "prestato" al ciclo primario e darsi così una solida base quadriennale ?).

8.4 Una parte dei moduli del terzo anno, fermo restando lo svolgimento negli istituti secondari delle materie fondamentali comuni, può essere realizzata, sulla base di specifica programmazione degli istituti, mediante attività o iniziative formative da definirsi mediante un accordo quadro tra il ministero della Pubblica istruzione e il ministero del Lavoro e la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano.

Si tratta di una ipotesi fortemente contestata da chi teme che questo punto rappresenti un cedimento circa il ruolo della scuola (e non della formazione professionale) nella formazione culturale obbligatoria di ogni cittadino. Sembrano però esserci sufficienti garanzie di tutela del ruolo centrale della formazione scolastica (anche se non viene quantificata la quota di curricolo "fondamentale" inalienabile, ed il modello sottende comunque una gerarchia di percorsi meno impegnativi destinati via via alle aree deboli dell’utenza).

8.5 Negli ultimi anni, ferme restando le materie fondamentali e le materie di indirizzo, esercitazioni pratiche, esperienze lavorative e stage possono essere realizzati anche con brevi periodi di inserimento nelle realtà culturali, produttive, professionali e dei servizi.

Dall’intero progetto emerge una forte richiesta di legame con il mondo del lavoro e delle professioni, risolto con la formula dei moduli integrati (o formazione in alternanza) che assegnano comunque alla scuola la regìa complessiva di un curricolo più flessibile. Esperienze di interazione scuola-extrascuola possono consentire di uscire dalla dimensione puramente "verbalistica" che sembra caratterizzare l’insegnamento scolastico. La soluzione non è però l’introduzione di un addestramento professionale più o meno precoce, ma la consapevolezza e la pratica di una responsabilità "sociale" (e quindi operativa) per ogni tipo di conoscenza.

Art. 9 (Certificazioni)

 

9.1 Le certificazioni rilasciate in esito al superamento dell’esame di licenza e dell’esame di Stato conclusivo del ciclo secondario recano l’indicazione degli studi seguiti nonché delle competenze, capacità e abilità acquisite.

Si tratta di un principio assai innovativo che richiede studi ed approfondimenti, ma che è in sintonia con le indicazioni provenienti dall’Unione europa e dal mondo delle imprese. Questa ipotesi, potenzialmente, tende a superare il concetto di valore legale del titolo di studio, ed a privilegiare la certificazione di effettive competenze acquisite (anche al di fuori di contesti strettamente curricolari). Mette in crisi anche gli attuali sistemi di valutazione (che si esprimono con codici numerici o aggettivi sintetici) per privilegiare la descrizione di competenze tramite appropriati indicatori.

9.2 Analoga certificazione è rilasciata all’esito favorevole dei corsi di cui agli articoli 12 e 13, commi 1 e 2, nonché, su richiesta, al termine di ogni segmento annuale o modulare del percorso di istruzione.

Il comma riconferma il superamento di un approccio tradizionale alla valutazione scolastica, facendo balenare anche la scomparsa del concetto di promozione/non ammissione alla classe successiva del corso di studi (si certifica anche un solo "segmento modulare").

Art. 10 (Crediti formativi)

 

10.1 La frequenza positiva di qualsiasi segmento del ciclo secondario, annuale o modulare, comporta l’acquisizione di un credito formativo che può essere fatto valere ai fini della ripresa degli studi eventualmente interrotti, del passaggio da un’area o da un indirizzo all’altro di studi, del passaggio alla formazione professionale. Analogamente, la frequenza positiva di segmenti della formazione professionale comporta l’acquisizione di crediti che possono essere fatti valere per l’ingresso nell’istruzione.

L’articolo esplicita le possibilità che si aprono con l’assunzione del principio dei crediti formativi, che tende a favorire la flessibilità dei percorsi (in più direzioni), anche mediante la valorizzazione (sotto forma di capitalizzazione) delle competenze (sia pure parziali) acquisite lungo il percorso scolastico o della formazione professionale o, come si afferma nel comma successivo, anche autonomamente.

10.2 Con regolamento adottato su proposta del ministro della Pubblica istruzione di concerto con il ministro del Lavoro, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, sono disciplinati il valore, in termini di credito, di ciascun segmento dell’istruzione e della formazione e l’istituzione di un libretto formativo personale nel quale sono annotati i percorsi formativi, i crediti, le esperienze culturali e formative acquisite nella scuola e autonomamente, le capacità e le abilità accertate.

Al di là delle procedure tecniche previste per la certificazione, appare innovativa la istituzione di un libretto formativo personale, che rappresenta una sorta di curriculum vitae (formativo) utile per la prosecuzione della propria formazione o per l’inserimento nel mondo del lavoro.

Art. 11 (Diritto alla formazione)

 

11.1 Tutti i giovani che abbiano assolto all’obbligo di istruzione e che non intendano proseguire fino al conseguimento del diploma hanno diritto alla formazione fino al diciottesimo anno di età per il conseguimento di una qualifica riconosciuta.

Già preannunciato in un precedente articolo, il concetto di diritto alla formazione appare tuttavia troppo debole. Si dovrebbe invece definire un obbligo formativo (anche a tempo parziale) fino al 18° anno, come in alcuni paesi europei. In alternativa si potrebbe prevedere come obbligatorio il conseguimento di un titolo di studio o di una qualifica professionale. A tal fine va ulteriormente esplorata la possibilità di destinare a questo obiettivo la seconda annualità dell’estensione dell’obbligo (in alternativa all’ultimo anno della scuola dell’infanzia).

11.2 Tale diritto si realizza attraverso la progressiva espansione dell’offerta di formazione professionale e dell’integrazione tra questa e l’istruzione.

Se il concetto di diritto all’istruzione "fino a 18 anni" diventa il punto trainante dell’intera riforma, allora occorre precisare con molto più dettaglio gli interventi necessari per la sua effettiva realizzazione (risorse, strutture, raccordi, personale, sistema delle certificazioni, crediti, recupero dei drop-out, ecc.).

Art. 12 (Corsi di formazione superiore non universitaria)

 

12.1 Nell’ambito della programmazione dell’offerta formativa da parte delle Regioni, anche gli istituti secondari potranno partecipare singolarmente o tra loro consorziati all’attivazione di un autonomo sistema di formazione superiore non universitaria non in continuità rispetto alla scuola secondaria.

Viene individuata una nuova tipologia di istruzione superiore non universitaria (la cosiddetta istruzione "terziaria") per la quale potranno concorrere anche gli istituti secondari. Il richiamo alla discontinuità con la scuola (per evitare iniziative del tutto autoreferenziali) sottolinea l’esigenza di un diverso livello formativo, direttamente "professionalizzante". Questo punto sembra comunque confermare l’esigenza di non attribuire un carattere terminale agli studi secondari (a differenza di quanto viene affermato in un passaggio dell’articolato). La contrazione del percorso scolastico a 18 anni (rispetto agli attuali 19) richiede comunque un maggiore sforzo di inventiva nel delineare nuove forme di transizione tra formazione e mondo del lavoro.

Nel corpo dell’articolo si richiama, incidentalmente, il ruolo (esclusivo ?) della Regione nella programmazione dell’offerta formativa. Come già in altri provvedimenti legislativi (L. 59/97, L. 449/97) si tratta di indicazioni che nascono senza un sufficiente approfondimento dei possibili vantaggi e svantaggi e, soprattutto, senza una adeguata ponderazione dei risvolti costituzionali del problema (la pubblica istruzione resta una potestà dello Stato oppure viene "regionalizzata" ?).

12.2 Le leggi regionali disciplinano il rilascio e il valore della qualifica conseguibile nel quadro delle normative eropee.

Occorre rammentare l’esigenza di definire alcuni standard nazionali in merito al valore legale delle qualifiche e delle certificazioni. Si tratta di un problema generale che va oltre la tipologia di formazione post-secondaria citata nel comma.

12.3 Con decreto del ministro dell’Università e della ricerca scientifica sono individuati i criteri per la determinazione del valore che le università possono attribuire ai corsi di formazione superiore non universitaria quali crediti formativi per gli studi universitari.

Si conferma l’esigenza di criteri e standard nazionali di riferimento per avviare senza improvvisazione l’operazione "crediti formativi",

Art. 13 (Formazione degli adulti)

 

13.1 Con decreto del Presidente della Repubblica, da adottarsi su proposta del ministro della pubblica istruzione d’intesa con il ministro del lavoro, sono disciplinati gli interventi di formazione degli adulti, anche nel quadro dell’attuazione degli interventi comunitari.

L’ampia, ma generica, delega conferita all’esecutivo testimonia di una non ancora sufficiente elaborazione attorno al tema della formazione permanente, nelle sue molteplici articolazioni e potenzialità.

13.2 Le istituzioni scolastiche, anche sulla base di richieste o di intese con gli enti locali, organizzano, da sole o consorziate tra loro, apposite offerte formative, anche per il conseguimento della licenza dell’obbligo e del diploma, destinate agli adulti.

Si tratta di opportunità già previste dalla normativa (recentemente innovata con OM 455/97, che istituisce centri per la formazione degli adulti, assorbendo gli attuali corsi di scuola elementare e media). Il settore dovrà comunque essere regolamentato con un respiro progettuale più ampio.

13.3 Gli istituti secondari possono istituire corsi di aggiornamento e di approfondimento per gli abilitati alle professioni per l’esercizio delle quali non è richiesto il diploma di laurea. Tali corsi sono organizzati con modalità compatibili con l’attività lavorativa dei partecipanti.

Viene coniugato il principio dell’educazione permanente e ricorrente con la possibilità di gestire corsi post-secondari da parte degli istituti secondari: l’ibrido che ne risulta è la gestione di corsi di aggiornamento (ma perché tanto rumore per nulla ?)

Art. 14 (Servizio nazionale per la qualità dell’istruzione

 

14.1 L’attività formativa svolta dalle istituzioni scolastiche ai sensi della presente legge è soggetta a un costante monitoraggio da parte dell’Amministrazione scolastica a mezzo di un sistema di supporto e di verifica dei processi e degli esiti, in rapporto agli obiettivi e agli standard definiti a livello nazionale, anche mediante il ricorso ad agenzie esterne.

Il sistema nazionale per la qualità dell’istruzione è stato già avviato sulla base di atti amministrativi (v. Direttiva 307/97) dettati dalla stessa Amministrazione Scolastica. Questa impostazione è stata oggetto di numerose critiche, sia per il metodo (cioè la carenza di un preciso riferimento legislativo in merito) che per il merito (avendo affidato la direzione dell’attività di controllo alla stessa Amministrazione e non ad un organismo indipendente). L’articolo introduce quindi una "copertura" legislativa a posteriori, ma non scioglie il problema della titolarità del controllo. L’affidamento ad agenzie "esterne" si presenta infatti come scelta tecnica per la gestione dei dati informativi. Restano dunque da approfondire il senso dell’azione di monitoraggio (controllo di gestione) interna ed esterna all’Amministrazione scolastica, la delimitazione degli oggetti da valutare (processi di insegnamento e non solo esiti di apprendimento), la elaborazione di obiettivi e standard nazionali (da definire attraverso un’azione interattiva e partecipata di centro e periferia).

Il tema della definizione di standard nazionali si presenta in tutta la sua urgenza dopo l’approvazione della legge 59/97 (autonomia scolastica) che fa obbligo ad ogni istituzione scolastica autonoma di dotarsi di strumenti e procedure (e quindi di una struttura interna) per la verifica della propria produttività e la valutazione del raggiungimento di obiettivi e standard (nazionali).

14.2 I risultati dell’attività di monitoraggio sono resi pubblici annualmente.

Affermazione in apparenza scontata, ma che lascia trasparire l’intenzione di introdurre meccanismi di competitività tra le scuole e di libera scelta da parte degli utenti. A questo punto si impongono numerose domande: chi gestirà le attività di monitoraggio ? si baseranno prevalentemente su prove strutturate di profitto o sull’osservazione diretta dei contesti operativi ? come saranno costruiti i criteri e gli standard di valutazione ? saranno "tarati" sulla base dei diversi contesti socio-culturali ? che succederà alle scuole che non raggiungono gli standard ? quale sarà il rapporto tra valutazione interna e valutazione esterna ?

Art. 15 (Piani di formazione e riconversione professionale)

 

15.1 A partire dalla prima applicazione della presente legge, ai fini di cui all’art. 482 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 sono attivati appositi corsi di formazione del personale docente finalizzati anche alla valorizzazione delle funzioni di organizzazione, di tutoraggio e di sostegno.

La formulazione dell’articolo appare assai elusiva circa i profili finanziari (con quali risorse si finanzia la formazione ?), le condizioni operative (in quali tempi e sedi ci si forma ?), le modalità ed i contenuti (chi e su cosa ci si forma ?). Inoltre la dicitura "corsi" appare desueta ed ormai superata a favore di una più globale azione di formazione in servizio (a meno che non si pensi a qualche "corsetto" -già visto !- di riconversione del personale in eccesso).

L’impianto scelto per il riordino determina un esubero di alcune decine di migliaia di posti-cattedra, che potrebbero essere utilizzati per attivare funzioni di supporto alla organizzazione scolastica (staff, figure psicopedagogiche, coordinatori didattici) e di sostegno all’apprendimento degli allievi (tutor, orientatori, ecc.).

La tipologia delle funzioni (già per altro poste in essere nella scuola) è comunque assai più vasta di quella adombrata nell’articolo, ove appare un ambiguo riferimento a funzioni di "sostegno".

15.2 Il personale docente in servizio al momento in cui è data attuazione alle disposizioni della presente legge relative al riordino dei cicli dell’istruzione ha diritto al mantenimento della sede fino alla sua definitiva assegnazione, che si realizzerà tenendo conto in via prioritaria delle richieste, degli interessi, dei titoli e delle professionalità di ciascuno.

La portata tecnica del comma è assai più ampia di quanto lasci presagire il tono del dispositivo. Non si tratta di una semplice nuova assegnazione di sede ("mantenimento della sede fino a..."), ma di una ben più radicale collocazione in nuovi e diversi contesti professionali. I criteri citati sono condivisibili, ma per essere realmente applicabili richiedono che la ricollocazione professionale riguardi effettivamente tutti i docenti operanti nel sistema scolastico. Invece, la situazione di esubero (da smaltire attraverso pre-pensionamenti) riguarderebbe solamente gli insegnanti elementari (nella misura di 48.000 circa), in virtù dell’ipotesi di "dirottare" i due terzi dei docenti della scuola media nel terzo biennio del ciclo primario ed il residuo terzo nel primo anno del ciclo secondario. Se si intendono azzerare i costi della riforma attraverso l’esubero di una quota consistente di docenti, tale soprannumerariato andrebbe comunque "spalmato" su tutti gli attuali cicli (ognuno è chiamato a rimettersi in discussione, o no ?) offrendo a tutti i docenti l’opportunità di "rigiocarsi" anche su un diverso ciclo o sulle nuove funzioni di supporto.

Art. 16 (Attuazione progressiva dei nuovi cicli)

 

16.1 A partire dall’entrata in vigore della presente legge è data immediata attuazione agli articoli 9, 10, 12, 13, 14, 15, comma 1.

Non è chiara la "ratio" di questo comma, visto che gli articoli di immediata attuazione sono assai eterogenei e vanno dalla formazione del personale (che dovrebbe comunque precedere le innovazioni e non seguirle), alle innovazioni in materia di certificazione, di crediti, di formazione post-secondaria, di educazione degli adulti e di servizio di valutazione. Molte di queste materie richiedono ulteriori concertazioni e atti applicativi.

16.2 Entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge il ministro della Pubblica istruzione presenta al Parlamento un piano di progressiva attuazione delle disposizioni della presente legge relativa alla ristrutturazione dei cicli dell’istruzione che, partendo dall’esigenza di dare graduale attuazione al passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento tenga conto in particolare dell’attuale organizzazione scolastica, dello stato di attuazione delle disposizioni sull’autonomia scolastica di cui all’articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59 e dell’esigenza di definire preventivamente gli obiettivi di studio dei singoli anni scolastici; in particolare nel piano sono illustrate le grandi linee dei nuovi programmi di studio, le soluzioni transitorie per gli alunni già iscritti alla scuola dell’obbligo e per gli alunni residenti in località nelle quali non è ancora generalizzata la scuola dell’infanzia, la distribuzione territoriale degli interventi, la formazione del personale docente e dirigente, le iniziative per l’eventuale ricollocazione del personale anche con riguardo all’individuazione dei requisiti necessari per l’insegnamento nelle diverse fasi dei cicli.

Viene conferita un’ampia delega attuativa al ministro della Pubblica istruzione, previa informazione al Parlamento. Rispetto alle azzardate indicazioni circa una accelerata attuazione (in un solo triennio) della riforma, contenuta nel documento preparatorio del gennaio 1997, che sono state sottoposte ad argomentate censure, la strategia indicata nel comma appare certamente più realistica.

Una volta acquisito il consenso sul modello proposto si impongono comunque alcune indispensabili operazioni preliminari all’attuazione di una riforma di tale portata: lo studio di fattibilità territoriale dei nuovi cicli; una analisi seria dei costi da sostenere; la precisa quantificazione delle risorse professionali da impiegare ed eventualmente da (ri)qualificare; la definizione dei nuovi curricoli e programmi di studio; l’individuazione di standard e criteri nazionali, anche in ordine all’applicazione della legge sull’autonomia.

L’attuazione di una "grande" riforma non si può ridurre ad una marginale questione di transizione tra due ordinamenti, con qualche piccolo aggiustamento da controllare.

Da segnalare, infine, la "chicca" sulla riconversione del personale: essa sembra limitarsi alle diverse fasi di uno stesso ciclo. Noi la pensiamo invece ampia e radicale, con una percorribilità totale dell’intero sistema scolastico, dai 3 ai 18 anni.

16.3 L’effettiva attuazione del piano è verifica dal Parlamento al termine di ogni triennio successivo alla sua presentazione sulla base di una apposita relazione.

L’attività di verifica parlamentare è doverosa, trattandosi di una legge che lascia ampi margini discrezionali all’esecutivo nel definire le caratteristiche del nuovo ordinamento, senza una specifica delega "regolamentare" (ad esempio la decisiva configurazione delle aree e degli indirizzi del ciclo secondario).

16.4 All’attuazione della presente legge si provvede ai sensi dell’art. 205 del Testo unico approvato con decreto legislativo 16 febbraio 1994, n. 297, ovvero mediante regolamenti da adottarsi ai sensi dell’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400.

 

 

 

L’attuazione della riforma è rimessa ad una serie di strumenti amministrativi direttamente gestibili dal Ministro della pubblica istruzione. Giuridicamente si tratta di una scelta ineccepibile, come è stata ineccepibile la presentazione del presente disegno di legge. Ma la questione è un’altra: come assicurarsi una consapevole, informata e fattiva collaborazione al processo di riforma degli operatori scolastici, cioè di coloro che non potranno limitarsi ad applicare passivamente leggi e regolamenti pensati "altrove" ?

Art. 17 (Copertura finanziaria)

 

17.1 Alla individuazione e alle coperture degli oneri derivanti dall’attuazione dell’articolo 3, comma 3, si provvede mediante successivo provvedimento legislativo.

Si tratta della attuazione in via transitoria dell’obbligo scolastico nell’attuale scuola secondaria superiore. La debole soluzione prospettata (che rinvia il problema della quantificazione dei costi della riforma) rivela una carente valutazione di fattibilità dell’intero progetto di riforma, con il rischio di trasformarlo in una petizione di principio (ma allora, tanto vale limitarsi ad una legge quadro di puro indirizzo generale).

17.2 Agli oneri derivanti dall’attuazione della presente legge si provvede, negli anni 1997, 1998 e 1999, con le ordinarie risorse di bilancio.

L’attuazione della riforma deve essere autofinanziata dalla scuola stessa. Torna il problema delle riforme a costo "zero" (e soprattutto della mancata previsione di un incremento di risorse per qualificare gli ambienti e la didattica, incentivare la professionalità e la formazione degli operatori). Sul problema delle risorse per la scuola occorre comunque che l’Esecutivo riesca ad esplicitare in modo più chiaro la portata delle diverse "poste" finanziarie che, di volta in volta, vengono preannunciate (Legge 440/97 per l’offerta formativa, Legge 449/97 collegata alla Finanziaria 1998, Accordo Governo-Sindacati del dicembre 1997).

17.3 A decorrere dall’anno 2000 la legge finanziaria provvederà annualmente ad individuare e a dare copertura agli oneri connessi all’attuazione della presente legge, con la gradualità prevista dall’art. 16, comma 2.

Si conferma la tendenza a trasformare la annuale legge finanziaria nella "madre" di tutte le riforme. Si tratta di un contesto sottoposto ad inevitabili vincoli di bilancio e con un percorso di elaborazione "blindato" e rimesso in genere agli uffici tecnici dei Ministeri competenti. Torna dunque il problema dei livelli di coinvolgimento e di partecipazione della scuola all’elaborazione dei processi di riforma che la riguardano.

 

 

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