OBBLIGO SI, OBBLIGO NO:
dopo i quindicenni, toccherà anche ai cinquenni?
di Giancarlo Cerini
Cambiamento e partecipazione
E decisivo per il futuro della scuola che i processi di riforma vedano lattiva e concorde partecipazione di docenti, ricercatori, esperti. Non si tratta di stimolare un generico "movimentismo" dal basso, ma di costruire una vera e propria cultura della riforma, a partire dalla rielaborazione concettuale delle "buone pratiche" e dalla riflessione sulle esperienze professionali più innovative.
In fondo lautonomia della scuola prima ancora di essere un dispositivo giuridico è un atteggiamento mentale, unattitudine a farsi domande, a rimettere in discussione abitudini e routines, a immaginare ipotesi e soluzioni per migliorare linsegnamento e quindi, sperabilmente, lapprendimento. Ogni scuola, con lautonomia, è invitata a rafforzare la propria "visibilità istituzionale" (non a perderla) e a dotarsi di una più forte "identità progettuale e culturale". In questo scenario la scuola dellinfanzia deve rivendire un ruolo più incisivo nella formazione di base.
Il timore è che i temi ed i problemi della scuola dei piccoli non siano al centro dellattenzione prioritaria dei nostri decisori politici. Fa più "audience" parlare di riforma della secondaria, delluniversità, di snodi verso la formazione professionale, tuttavia il successo formativo si determina a partire da buone condizioni di avvio del percorso educativo e quindi fin dalla scuola dellinfanzia.
Lo scenario dellautonomia
Oggi, come alla fine degli anni sessanta e allinizio degli anni settanta, esiste una grande aspettativa nella società per la costruzione di una scuola efficiente, democratica, comunitaria. Si è aperta infatti, dopo 25 anni dai Decreti Delegati del 1974, una nuova stagione di riforme.
Lautonomia scolastica sembra offrire la possibilità di riscoprire il senso di una scuola comunitaria, di un dialogo tra le autonomie culturali (le scuole) e quelle sociali e istituzionali (le comunità sociali). Scuola e comunità, insieme, possono riscoprire le ragioni di un patto educativo condiviso, affinché la formazione dei ragazzi dentro la scuola e negli altri luoghi delleducazione sia la più efficace possibile.
Non è un caso che discutendo di autonomia emerga subito il problema di un modo diverso di interpretare i rapporti tra i cittadini e lo Stato. Tutti vorremmo un rapporto meno "sonnolento", meno grigio, meno burocratico, con i cittadini non più destinatari passivi delle decisioni delle istituzioni, ma attivi protagonisti, in grado di assumersi, tutti assieme, nuove responsabilità. Questo richiamo alla responsabilità educativa della comunità intera rappresenta già unaffermazione concreta del principio di sussidiarietà che sta alla base dellautonomia (" non aspettarti dalle istituzioni lontane quello che puoi realizzare con la tua iniziativa personale e comunitaria ").
In questo contesto si inserisce anche il protagonismo professionale dei docenti, la loro rivendicazione di un diritto di parola di fronte a chi li rimprovera di non sapersi o volersi rinnovare.
Va riconosciuto che la scuola è legata ai suoi ritmi, al suo diritto di non inseguire affannosamente lattualità, a lavorare sui tempi lunghi. Questo "distanziamento" dal mondo potrebbe non essere sempre negativo. E però necessario che grandi riforme come quella dellautonomia, come il riordino complessivo dei cicli, o i nuovi curricoli di studi, non siano semplicemente preannunciate da leggi o da regolamenti, percepite come decisioni calate dallalto. La vera riforma sarà quella che, concretamente, gli 800.000 insegnanti italiani riusciranno a costruire, giorno per giorno nelle nostre classi.
Le prospettive dellanticipo
Dopo aver delineato queste premesse di scenario, possiamo inoltrarci allinterno del problema specifico della scuola di base ed in particolare del nuovo obbligo scolastico e del suo eventuale anticipo a 5 anni, ma soprattutto della possibile interpretazione da attribuire a questo processo.
E necessario ritornare al 1996, lanno in cui (dopo la vittoria elettorale dellUlivo e linsediamento del Ministro Berlinguer) ha preso avvio il dibattito sul riordino complessivo dei cicli. In particolare, il 1996/97 è stato un anno "vissuto pericolosamente" dalla scuola dei piccoli, avendo visto lavvio di un dibattito che poggiava sullidea che fosse necessario anticipare la scuola elementare a cinque anni, per poter rinnovare lintera architettura del sistema scolastico italiano. Una scelta tipicamente elitaria come è sempre stata quella di anticipare la frequenza della scuola elementare avrebbe così potuto essere estesa, in chiave democratica, a tutti i ceti sociali, come opportunità di un precoce sviluppo culturale e formativo.
Molti hanno però considerato strumentale la proposta di costruire lassetto della nuova scuola italiana proprio su una operazione di anticipo delle uscite scolastiche a "cascata" (da 19 a 18 anni, da 14 a 12 anni, da 6 a 5 anni), anche perché dietro la tendenza all "anticipo" si scorge con facilità il rischio di un modello competitivo, che accelera le tappe dello sviluppo e chiede ai nostri ragazzi di arrivare prima a conseguire un risultato (ma quale?).
Dovremmo, ad esempio, meglio riflettere sullipotesi di completare il percorso scolastico a 18 anni, anziché a 19. Questo fatto può essere letto in termini positivi, come riconoscimento dellautonomia di un giovane di 18 anni ormai maggiorenne, non più trattenuto sui banchi di scuola, ma capace di fare le sue scelte - con piena consapevolezza - nel mondo dello studio, del lavoro, o verso altre alternative (che a dire il vero - spesso in Italia non esistono). Ma è possibile anche una lettura del tutto diversa: quella di accelerare i tempi, per diventare competitivi ad ogni costo, inserendosi presto nel mondo del lavoro, nella produzione.
Molte delle scelte di politica scolastica di questi anni presentano il rischio di una opposta interpretazione. Per questo dobbiamo approfondirle, arricchirle di riflessioni culturali; questo è già un buon risultato, per un anno vissuto pericolosamente.
Sulla questione dellobbligo il punto di partenza era lidea di una collocazione del bambino di 5 anni nellambito della scuola elementare.
Cosa sarebbe rimasto della scuola dellinfanzia ridotta ad un biennio? Qualcuno aveva azzardato, in questa rincorsa allanticipo, lipotesi di far slittare verso i due anni lavvio della scuola dellinfanzia. Nulla di scandaloso: in Francia si prevede anche una sezione di accoglienza per bambini di 2 anni. Sappiamo che ci sono alcuni Comuni che hanno ampliato la possibilità di iscrizione prima del compimento dei 3 anni. Si conoscono anche le propensioni delle scuole materne private, che spesso cercano di scavalcare le regole, pur di essere competitive sul "mercato" dei servizi educativi.
Si manifesta una domanda crescente di nuovi servizi educativi, anche nelle regioni come la Toscana e lEmilia Romagna, dove cè già una grossa presenza di asili nido. Questo fenomeno è meno conosciuto in altre regioni, dove invece si registra un anticipo strisciante allinterno della scuola dellinfanzia. Nulla di scandaloso, nemmeno dal punto di vista pedagogico o culturale, però è certamente fuorviante pensare di inserire un bambino di 2 anni nella scuola dellinfanzia, in un gruppo di 28 coetanei, con le strutture attuali.
Leventuale scelta di anticipare lingresso di un bambino di 2 anni nella scuola dellinfanzia richiederebbe un ripensamento totale delle strutture di accoglienza, della cultura dei servizi, della formazione dei docenti, dei modelli pedagogici, impensabile in questo momento.
In nome della legge: e spuntò lobbligo
Sul tema della riforma (e dellestensione dellobbligo) la scuola dellinfanzia ha partecipato intensamente al dibattito e non solo nelle tradizionali roccaforti. Migliaia di insegnanti hanno affrontato il problema della riforma con una vivacità che non è stata riscontrata nella scuola media o in altri settori scolastici, pur essi chiamati a ripensarsi in una prospettiva di grande cambiamento.
Alla fine di questo dibattito registriamo un più forte riconoscimento della scuola dellinfanzia, con la conferma della sua integrità triennale, ed un "via libera" alla proposta dellultimo anno obbligatorio. Lobbligo è stato associato allidea di una promozione culturale ed istituzionale della scuola materna, una sorta di ammissione al piano "nobile" del sistema formativo, passando dallingresso principale: dunque, non più "asilo", ma vera e propria "prima" scuola.
Si tratta di una forte legittimazione sociale e pedagogica della scuola dellinfanzia, perché il messaggio implicito è molto chiaro: frequentare una scuola materna a cinque anni non è tempo perso, è una scelta importante, decisiva, tantè vero che viene resa obbligatoria. E un segnale rivolto anche ai genitori e allopinione pubblica, anche se è stato presto distorto dai grandi mezzi di informazione. "Bambini sui banchi di scuola a cinque anni" hanno titolato alcuni giornali, quasi veicolando limmagine dellobbligo scolastico come una costrizione, come apprendimento coatto sui banchi di scuola. Altri giornali hanno spiegato che "i bambini impareranno a leggere e a scrivere a cinque anni". Il messaggio è dunque diventato ambiguo: la scuola materna è stata considerata una esperienza formativa importante, ma la sua identità, i suoi compiti, gli obiettivi, sono stati spesso travisati ed omologati a quelli della scuola elementare.
Unocchiata allEuropa
Ma è proprio necessaria una nuova legittimazione, "in nome della legge", del ruolo sociale della scuola dellinfanzia ? Oggi, in Italia, gli ultimi dati ci dicono che i bambini dai tre ai cinque anni frequentano la scuola dellinfanzia in una misura ormai vicina al 93% della popolazione di età interessata (99 % per i 5 anni). Il primo giorno di scuola, in Italia, comincia proprio a tre anni. Questo dato rende il dibattito che si è animato sui mass-media sull "andare a scuola a cinque anni" in qualche modo parziale, perché in realtà già oggi si va a scuola a tre anni. Il 93% di bambini che frequenta la scuola dellinfanzia costituisce uno standard superiore alla media europea (v. tab. 1).
Tab. 1 I tassi di frequenza in Europa
(in % per fasce di età)
Italia | Francia | Germania | Inghilterra | Danimarca | Olanda | |
3 anni | 89 | 99 | 47 | 45 | 60 | Nd |
4 anni | 96 | 100 | 71 | 94 | 79 | 97 |
5 anni | 99 | 100 | 77 | 100 | 81 | 99 |
Fonte: Commissione Europea-Eurydice, Le cifre chiave dellistruzione nellUnione Europea 97, Bruxelles, 1997.
Nella stessa Inghilterra, ove lobbligo inizia a 5 anni nella "infant school" (una scuola cuscinetto tra la materna e lelementare per i bambini di 5-6 anni) si sono poi ritrovati sguarniti di servizi nella fascia di età dei 3 anni. Lesperienza inglese ci mette in guardia dal possibile rischio di una scuola dellinfanzia a due velocità: una scuola per i 5 anni, già inserita nel panorama dellobbligo; una scuola per i 3-4 anni, con un ritmo molto diverso, più "naturalistico" e "ludico". Con una battuta un po ironica dovremo forse chiederci: "I bambini di 5 anni potranno continuare a giocare con quelli di 3 e di 4 anni nella nuova scuola dellinfanzia ?". Solo per alcuni il curricolo è obbligatorio ? Solo a loro sarà richiesto il potenziamento delle abilità e delle competenze ? Ci sarà una scheda di valutazione? Ci saranno dei traguardi, degli standard da raggiungere, ecc.? Le necessarie risposte coinvolgono il piano pedagogico e culturale, prima ancora che quello politico e legislativo.
In Inghilterra, per esempio, laver anticipato a 5 anni il percorso formativo scolastico non ha di per sé risolto il problema della prevenzione delle disuguaglianze, anzi un fenomeno che si osserva nell Infant School (ove si avvia la formalizzazione delle richieste di apprendimento che vengono poste ai bambini) è lemergere già a 5 anni delle differenze tra chi riesce a reggere un certo ritmo nellacquisizione delle abilità di lettura e scrittura e chi, invece, comincia a marcare le prime difficoltà di percorso.
La raccomandazione è dunque di mantenere un approccio pedagogico molto aperto, molto generoso, non chiuso nella richiesta di competenze di tipo strumentale. Questo è linsegnamento che ci deriva dai Paesi che hanno tentato di accelerare i tempi, per formalizzare precocemente lincontro con gli apprendimenti.
Un problema di qualità del contesto educativo
In alcune ricerche italiane è emerso che, al termine della 5^ elementare, i bambini che avevano iniziato il percorso delle elementari a 5 anni, anziché a 6, registrano a 9 anni una lieve flessione negli apprendimenti di matematica e di lingua.
La precocità dellintervento non è di per sé garanzia di prevenzione del disagio scolastico; importante è piuttosto la qualità dellesperienza che un bambino può vivere in un ambiente educativo correttamente organizzato per far fronte ai suoi bisogni.
In unindagine di fonte ufficiale, curata dal Ministero della Pubblica Istruzione (1993), è stato notato che in 1^ elementare il modello organizzativo, veicolato dalla riforma dei moduli (Legge 148/90), spesso ha irrigidito la scansione e la qualità pedagogica dei tempi. Il tempo del gioco sembra diminuire, come pure quello per il lavoro di gruppo. Non sempre le classi sono ambienti caratterizzati da situazioni di tipo operativo, sociale, e da metodologie attive. Spesso prevale uninterpretazione rigida, frammentaria, frantumata del progetto culturale sotteso alla riforma del 1990.
Ecco perché è importante, quando si parla di scuola dellinfanzia e di obbligo a 5 anni, curare con molta attenzione il modello pedagogico, le condizioni di un "buon" ambiente di apprendimento. Queste condizioni le troviamo certamente delineate negli Orientamenti del 1991 e dovremmo attenerci di più nellinterpretazione del modello pedagogico a quel documento, forse ancora poco conosciuto ed applicato nella nostra scuola.
Si afferma negli Orientamenti che la scuola dellinfanzia è un ambiente di apprendimenti, di relazioni, di vita: in queste tre parole si coglie immediatamente lindispensabile equilibrio tra le diverse forme di sviluppo della personalità di un bambino. Non può esserci accelerazione solo sugli apprendimenti cognitivi, né tanto meno sugli apprendimenti di abilità strumentali. Se lapprendimento nasce attraverso la relazione, il "faccia a faccia" tra ladulto e il bambino, tutto questo implica una cura particolare nellorganizzazione del contesto educativo.
Dovremo anche superare una certa rigidità nellorganizzazione della vita della scuola. Lo stesso concetto di "sezione" non può rimanere lunico parametro di riferimento per la costruzione degli organici del personale docente. Un organico funzionale (come è ormai previsto dalla Legge 59/97 per tutti i livelli scolastici) dovrà essere commisurato al tempo scuola, al numero dei bambini, alle condizioni organizzative, al disagio socio-educativo. La legge 59/97 prevede anche il passaggio per gli insegnanti- da una titolarità di sezione o di plesso, ad una di circolo, per favorire una distribuzione più equa delle risorse umane, professionali, allinterno della scuola stessa.
Un buon contesto educativo è condizionato dalla qualità degli ambienti, dagli spazi, dalle attrezzature, dai materiali che i bambini possono trovare allinterno della scuola. Tutto questo deve far pensare che le grandi riforme non possono essere frutto di un colpo di bacchetta magica, quasi che bastasse ridisegnare gli ordinamenti ed i cicli (dai 3 ai 5 anni, dai 6 ai 12, dai 12 ai 15 e così via). Non è solo definendo una cornice diversa che si possono risolvere i problemi di qualità della proposta e dellofferta formativa.
Bisogna dare unanima a queste cornici, e quindi un PROGETTO CULTURALE ED EDUCATIVO: bisogna chiarire e decidere cosa fare per i bambini ed i ragazzi nei diversi livelli scolastici ed investire decisamente sulle risorse, sulla qualità dellambiente, sulla formazione degli insegnanti. E scandaloso, ad esempio, che solo dallanno accademico 1998/99, dopo otto anni dallapprovazione della legge 341/90, siano stati avviati i corsi universitari per la formazione degli insegnanti di scuola materna ed elementare.
Come interpretare la nuova identità della scuola dellinfanzia?
Di fronte ai grandi cambiamenti che attendono la scuola italiana, non possiamo chiuderci a riccio, sulla difensiva, quasi a preservare uno stato di natura del bambino dai 3 ai 6 anni. Non è più sufficiente che ogni scuola dichiari i propri meriti: " noi della materna facciamo un buon lavoro noi delle elementari abbiamo fatto da poco una riforma molto impegnativa la scuola media ha avuto la sua riforma la secondaria ha le sue sperimentazioni ".
E ormai superato il tempo delle nicchie, ove ognuno guarda solo al piccolo segmento di casa sua. La sfida è quella di un percorso formativo coerente. Se ci sono delle difficoltà scolastiche a 15 anni, non possiamo addebitarle solo a quello che succede nella scuola dei quindicenni, dobbiamo andare a cercarle molto prima, nella storia e nella preistoria cognitiva di ogni allievo.
I cosiddetti Saggi, messi al lavoro dal Ministro Berlinguer nella primavera del 1997, per definire lintelaiatura di questo progetto culturale, addebitano alla scuola il fatto che bambini e ragazzi non imparino più ad argomentare oralmente e per iscritto, anzi che ormai le competenze linguistiche siano irrimediabilmente compromesse.
Diamo per scontato che ci sia del vero in questa analisi: da alcune ricerche internazionali emergono punti di crisi nella produzione scritta, nella comprensione dei testi, specie di quelli argomentativi, ecc. Che fare di fronte a queste constatazioni? Aumentare i corsi di recupero alle superiori, rendere più selettiva la scuola, differenziare i percorsi, oppure coinvolgere tutto il sistema rispetto a questo obiettivo, dalla materna alle superiori ? Se pensiamo che argomentare per iscritto significhi anche argomentare con le parole, descrivere, narrare, allora un buon programma di lavoro sullargomentazione deve essere senzaltro affrontato fin dai primi anni della scuola dellinfanzia.
Ci dovremo sentire parte integrante di un curricolo unitario che va, a pieno titolo, dai 3 ai 18 anni, attraverso un itinerario coerente, senza sovrapposizioni e ridondanze, che sappia cogliere con molta precisione ciò che si può fare nelle varie fasce detà e, proprio per questo, vada ad alleggerire leccessiva quantità di contenuti, per concentrarsi sulle abilità e competenze essenziali.
Su questo punto la scuola dellinfanzia dovrebbe riscoprire la propria specificità. Già alla fine degli anni 60 Bruno Ciari , grande pedagogista italiano, in un documento intitolato "Per la ricostruzione della scuola di base" (1969), individuava proprio questo percorso basilare dai 3 ai 16 anni. Un tema di estrema attualità, perché oggi stiamo ripensando ad un nuovo percorso formativo unitario, che ci chiarisca quale possa essere il ruolo della scuola di base. Il dibattito non può dunque gravitare solo sul futuro del bambino di 5 anni; va considerato, piuttosto, il contributo complessivo che la scuola dellinfanzia può offrire al disegno di rinnovamento del curricolo dai 3 ai 18 anni, a prescindere dalla durata dellobbligo legale.
La questione dei 5 anni
Esploriamo ora la questione del bambino di 5 anni. Dopo lanno scolastico (1996/97) "vissuto pericolosamente" ci sono stati successivi aggiustamenti di tiro, miglioramenti notevoli nella proposta di legge sul riordino dei cicli (giugno 1997). Mentre nel documento introduttivo del gennaio 1997, in maniera un po azzardata si parlava di scuola dellinfanzia come di una scuola "preparatoria", nellart. 5 del Disegno di legge in discussione al Parlamento (1999), sembra più chiara lidentificazione di un corretto modello pedagogico, quando si afferma che la scuola dellinfanzia concorre ("promuove" sarebbe risultato più incisivo) allo sviluppo affettivo, cognitivo e sociale dei bambini.
"AFFETTIVO, COGNITIVO, SOCIALE": sono tre aggettivi che implicano unattenzione molto ampia alla personalità del bambino, non certamente alla sola dimensione cognitiva, in piena sintonia con gli Orientamenti del 1991, ove si richiama anche il concetto di POTENZIALITÀ", cioè il dinamismo di un investimento educativo sul futuro di ogni bambino.
Mentre il disegno di legge si riferisce alle "potenzialità di autonomia, conoscenza e creatività", negli Orientamenti si cita la triade "autonomia, competenza, identità". Troviamo dunque aggiunto il termine CREATIVITA che, legato al termine potenzialità, va a sottolineare il bisogno di mantenere molto plastico ed aperto il processo di interazione tra adulto e bambino a questa età. Non dobbiamo soffermarci su abilità precocemente convergenti. Gli stessi obiettivi della prevenzione e della compensazione vanno "armeggiati" con notevole cautela.
Questa è dunque lidentità della nuova della scuola dellinfanzia che si è venuta delineando dopo gli Orientamenti del 91, pur in assenza di una nuova legge di ordinamento.
Il futuro della scuola dellinfanzia è ora racchiuso dentro la più ampia proposta di riforma della scuola: dobbiamo esserne consapevoli; coglierne il senso e le conseguenze sul piano delle scelte politiche. Nel nuovo scenario dellautonomia nessun Parlamento scriverà più una legge di dettaglio, che prescriva quante ore è aperta una scuola, quanti minuti di compresenza si potranno fare.
Avremo leggi-quadro snelle, di finalità, che proporranno un modello organizzativo assai flessibile. Saranno poi fissati, anche a scadenza pluriennale, alcuni (pochi) indicatori di funzionamento, molto precisi e cogenti: per es. il numero medio di alunni per sezione (che nella scuola materna è più alto di quello degli altri livelli scolastici, mentre un documento europeo sulla qualità della scuola definisce ottimale una presenza media di 20 alunni per sezione nella scuola dellinfanzia). Spetterà poi allamministrazione rispettare tali standard, verificarli, riadattarli. Cambia dunque lo stesso concetto di "politica scolastica". Meno leggi "fumose" e comportamenti operativi più "puntuali".
In questa ottica, larticolo della legge sui cicli che si riferisce alla scuola materna, sembra eccessivo, soprattutto per linsistenza sullultimo anno di frequenza obbligatoria, ove " salvaguardando la continuità educativa dellintera scuola dellinfanzia" si potenzia il conseguimento degli obiettivi cognitivi e relazionali.
Il termine di preparazione è stato quindi sostituito dal termine potenziamento, quasi a rendere più visibili e "pesanti" i traguardi di apprendimento. Sembra invece assicurato lequilibrio tra obiettivi cognitivi e relazionali, perché la proposta comunque rispetta un delicato equilibrio nella formazione del bambino dai 3 ai 6 anni, senza sbilanciarsi esclusivamente sulle abilità di tipo strumentale.
Non solo obbligo
In merito alla scelta dellobbligo per il bambino di 5 anni cè poi da chiedersi: se il 93% dei bambini va già alla scuola materna, chi è quel 7% che noi adesso vorremmo obbligare in nome della legge- ad andarvi ? Le statistiche ci riferiscono che si trovano soprattutto nelle grandi città del Sud (ad es.: Napoli) dove spesso le domande non possono essere accolte per mancanza di posti, di sedi, di strutture.
Lobbligo va allora pensato soprattutto per le istituzioni, per garantire lapertura della scuola in quelle situazioni dove cè una richiesta che non viene soddisfatta. Sono le istituzioni obbligate a realizzare la scuola dellinfanzia laddove non cè ancora e a garantire buoni livelli di qualità per quelle esistenti. Questi sono i principi che vanno scritti sulla legge: " ai bambini dai 3 ai 6 anni va offerta una scuola dellinfanzia al massimo livello di qualità possibile...". In questo modo arriveremmo al 100% di frequenza anche senza ricorrere ad una prescrizione di obbligo.
In fondo lobbligo scolastico è un vecchio arnese di fine 800. Anche lelevamento dellobbligo a 15 anni (in uscita dal ciclo di base) ci fa rimanere desolatamente ultimi in Europa. Dobbiamo perciò puntare al traguardo dei 18 anni, non tanto come obbligo di stare seduti dietro ad un banco di scuola, ma come diritto alla formazione fino a 18 anni anche in forme assai differenziate (a tempo pieno, a tempo parziale, in alternanza con lapprendistato, ecc.).
Il percorso dai 3 ai 18 anni configura il diritto ad una formazione per tutti lungo un itinerario di opportunità diverse che le istituzioni devono garantire. In questa prospettiva "lunga" si smonterebbero molte delle preoccupazioni circa una scuola materna a due velocità (obbligatoria e non), con i fraintendimenti sul piano educativo che abbiamo riferito in precedenza.
La scuola dellinfanzia garantirebbe così un suo percorso unitario, senza quellaccelerazione dei ritmi che ha portato nel citato documento del gennaio 1997- a ipotizzare interventi di sostegno per i bambini non in grado di "decollare" verso gli alfabeti ! Lobbligo nella scuola dellinfanzia non può attrarre i bambini di 5 anni nellalveo della alfabetizzazione scritta, cioè di un precoce approccio agli alfabeti tipici della scuola elementare.
Il momento della verità sarà però quando Direttori didattici, Amministratori locali, genitori proporranno di sperimentare un biennio ponte 5° anno/1^elementare". In effetti, il ritmo biennale 3-4 anni, 5-6 anni, 7-8 anni ecc., che è una delle novità del percorso proposto nel disegno di legge sui cicli, può consentire se ben interpretato- tempi più distesi per far fronte ai diversi compiti di apprendimento tipici per ogni biennio. Ad esempio tra i 5 e i 6 anni lapprendimento della lettura e della scrittura potrebbe non concentrarsi tutto sui primi mesi della classe prima.
Ma come saranno fisicamente organizzate (ambiente, spazi, tempi) queste due classi-ponte ? Cosa troveremo in una 1^ elementare? Ci sarà lintegrazione degli insegnanti (i cosiddetti prestiti professionali, che sono già previsti dalla normativa vigente per gli istituti verticali) ? Quali saranno le modalità di valutazione ?
Sarebbe un indicatore di qualità per un progetto "ponte" trasformare una 1^ classe elementare "sfruttando" quelle caratteristiche di accoglienza, di vivacità, di situazioni di apprendimento in gruppo, di ricchezza di sollecitazioni e di stimolazioni tipica di una "buona" scuola materna.
In conclusione si può affermare che il dibattito di questi mesi ha dato ragione al carattere fondativo della scuola dellinfanzia nellambito del sistema formativo di base; si è affermato il riconoscimento di una scuola che conta, decisiva nella formazione dei bambini. Inoltre, nella proposta di riforma si dice che TUTTA la scuola dellinfanzia conta e che, quindi, bisogna promuovere le condizioni migliori per tutte le scuole del nostro Paese, quelle statali, quelle comunali, quelle private. Questa dichiarazione, infine, implica impegni precisi per la formazione degli insegnanti, gli investimenti finanziari, la qualità delle strutture.
Tutto questo va garantito e realizzato prima ancora di scrivere per legge che è obbligatorio frequentare lultimo anno di questa scuola. Ma allora avremo già oltrepassato il 100 % dei frequentanti