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COMMA DOPO COMMA: IL COMMENTO DEL DISEGNO DI LEGGE DI RIORDINO DEI CICLI (14 marzo 2002) a cura di Giancarlo Cerini * (in neretto le variazioni apportate al testo iniziale dell’ 1-2-2002 nella versione definitiva approvata dal Consiglio dei Ministri il 14-3-2002)
Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale
Art. 1 (Delega in materia di norme
generali sull’istruzione e di livelli essenziali delle
prestazioni in materia di istruzione e di formazione
professionale) Lo strumento della legge delega viene in genere utilizzato quando è necessario adottare provvedimenti normativi di una certa complessità (codici, articolati analitici, ecc.) che non si ritiene opportuno affidare alle normali procedure legislative. Esistono precedenti illustri in materia di istruzione, come la legge delega n. 477 del 30 luglio 1973, dalla quale sono scaturiti i “decreti delegati” del 1974 che hanno ampiamente modificato l’organizzazione della scuola italiana, o più recentemente la legge 15-3-1997, n. 59 (c.d. Bassanini) da cui hanno preso il via numerosi provvedimenti emanati successivamente dall’esecutivo, a partire dal fondamentale D.P.R. 8-3-1999, n.275 (Regolamento dell’autonomia). La scelta della “delega” non ha trovato le forze politiche tutte concordi, sia all’interno della maggioranza, sia –ovviamente – dell’opposizione. Alcuni commentatori temono una minore possibilità di discussione e confronto, nelle aule parlamentari e nel paese, su una materia così importante e delicata. La scelta del titolo del provvedimento rispecchia l’evoluzione del quadro normativo costituzionale a seguito della legge 18-10-2001, n. 3. Le “norme generali” in materia di istruzione sono sicuramente di competenza esclusiva dello Stato (mentre la legislazione di dettaglio è ormai affidata ad un regime di legislazione concorrente delle Regioni); così pure “i livelli essenziali” delle prestazioni che hanno rilevanza per i diritti di cittadinanza (è il caso dell’istruzione e della formazione) vanno fissati a livello nazionale. Insomma, siamo di fronte alla prime prove del nuovo “federalismo scolastico”. 1.1.
- Al fine di favorire la crescita e la valorizzazione della
persona umana, nel rispetto dei ritmi dell'età evolutiva, delle
differenze e dell'identità di ciascuno e delle scelte educative
della famiglia, nel quadro della cooperazione tra scuola e
genitori, in coerenza con il principio di autonomia delle
istituzioni scolastiche e secondo i principi sanciti dalla
Costituzione, il Governo è delegato ad emanare entro 24 mesi
dalla data di entrata in vigore della presente legge, nel rispetto
delle competenze costituzionali delle regioni e di Comuni e
Province, in relazione alle competenze conferite ai diversi
soggetti istituzionali, e dell’autonomia delle istituzioni
scolastiche, uno o più decreti legislativi per la definizione
delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali
delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione
professionale. La piattaforma “valoriale” della legge di delega ricomprende in larga parte quanto era previsto dall’art. 1 della legge 10-2-2000, n. 30, ove già era contenuto un forte richiamo “bipartisan” alla responsabilità educativa delle famiglie (principio per altro già inserito anche nell’art. 21 della legge 59/97 –delega per l’autonomia) ed una maggiore visibilità dell’autonomia delle singole istituzioni scolastiche, il cui rispetto diventa uno dei “cardini” a cui dovrà ispirarsi il legislatore delegato. Questo aspetto è una diretta conseguenza della legge costituzionale 18-10-2001, n. 3 che ha “costituzionalizzato” l’autonomia scolastica, facendola oggetto di una tutela che precedentemente (cioè nella Costituzione del 1948) era riservata alle sole Università e istituti di “alta” cultura. Dovuto appare anche il richiamo alle nuove potestà legislative delle Regioni in materia di istruzione (e non solo di quella “professionale”). Va anche ricordato che la legge 3/2001 cit. offre una interpretazione assai “radicale” del concetto di legislazione concorrente delle Regioni, prevedendo che la stessa si sostanzi nel diritto di iniziativa legislativa delle Regioni, fatto salvo il rispetto dei principi generali fissati nelle leggi dello Stato, che dovranno anche definire i livelli essenziali delle prestazioni. Nell’ultima versione è stato accolto un esplicito richiamo alle competenze di Province e Comuni in materia di istruzione (in parte già previste nel D.Lvo 112/1998).
1.2
- Fatto salvo quanto specificamente previsto dall’articolo 4,
i decreti legislativi di cui al comma 1 sono emanati su proposta
del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di
concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, con il
Ministro per la funzione pubblica e con il ministro del lavoro
e delle politiche sociali, sentita la Conferenza unificata di
cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 e previo parere
delle competenti Commissioni della Camera dei Deputati e del
Senato della Repubblica da rendere entro trenta giorni dalla data
di trasmissione dei relativi schemi; decorso tale termine, i
decreti legislativi possono essere comunque emanati. I decreti
legislativi in materia di istruzione e formazione professionale
sono emanati previa intesa con la Conferenza unificata di cui al
decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Le procedure per l’emanazione dei decreti legislativi che daranno corpo alla legge delega sono quelli ordinariamenti previsti dal nostro ordinamento. Va segnalato il parere “obbligatorio” delle Commissioni parlamentari, che assicura un’ulteriore sede di discussione (anche se fortemente “scadenzata” e di convalida delle scelte dell’esecutivo, come pure l’intervento della Conferenza unificata, che, in un qualche modo, rappresenta la sintesi (provvisoria) dei nuovi poteri “federali” attribuiti alle Regioni ed al sistema degli Enti locali. E’ stato inoltre precisato che in materia di istruzione e formazione professionale è necessario acquisire l’intesa (e non il semplice parere) della Conferenza Unificata. La legge Costituzionale 3/2001, infatti, prevede una esplicita competenza legislativa delle Regioni in dette materie. L’intervento del legislatore nazionale, concertato con le Regioni, si limiterà a definire i livelli essenziali delle relative prestazioni.
1.3
- Per la realizzazione delle finalità della presente legge, il
Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca
predispone, entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge
medesima, un piano programmatico di interventi finanziari, da
sottoporre all’approvazione del Consiglio dei Ministri, sentita
la Conferenza unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto
1997, n.281, a sostegno: La predisposizione di un piano finanziario (evidentemente di carattere pluriennale) rappresenta una novità dell’impianto della legge. Sostituisce l’idea di piano di attuazione (che era lo snodo operativo della legge 30/2000) e prescrive la ricognizione di risorse finanziarie da finalizzare alla realizzazione degli aspetti più innovativi della riforma. Ovviamente, il reperimento effettivo delle risorse finanziarie richiede ulteriori decisioni amministrative o legislative (variazioni o assestamenti per il bilancio in corso, nuove “poste” finanziarie da collocare nelle future leggi di bilancio). L’impegno descritto nell’articolo sembra di natura politica piuttosto che tecnico-contabile.
a)
della riforma degli ordinamenti e degli interventi connessi con
la loro attuazione e con lo sviluppo dell’autonomia;
b)
dell’istituzione del Servizio nazionale di valutazione del
sistema scolastico;
c)
dello sviluppo delle tecnologie multimediali e della
alfabetizzazione nelle tecnologie informatiche;
d)
della valorizzazione professionale del personale docente;
e)
delle iniziative di formazione iniziale e continua del
personale;
f)
del rimborso delle spese di autoaggiornamento sostenute dai
docenti;
g)
della valorizzazione professionale del personale
amministrativo, tecnico ed ausiliario (A.T.A.);
h)
degli interventi di orientamento contro la dispersione
scolastica e per assicurare la realizzazione del diritto - dovere
di istruzione e formazione;
i)
degli interventi per lo sviluppo della istruzione e formazione
tecnica superiore e per l’educazione degli adulti;
l)
degli interventi di adeguamento delle strutture di edilizia
scolastica. Il decalogo individuato nell’articolato si avvicina molto a quell’ideale “libro dei sogni” che ogni riformatore vorrebbe veder realizzato: si va da impegnative affermazioni sul sostegno all’intero quadro ordinamentale “in movimento” allo sviluppo dell’autonomia, dall’annosa questione dell’edilizia scolastica al rafforzamento delle dotazioni tecnologiche (informatiche e multimediali) e relativa alfabetizzazione degli operatori scolastici (che, come è noto, presentano standard decisamente inferiori a quelli europei). Si giustifica, in questo contesto, l’ampio richiamo (ben 5 punti su 10) ad iniziative per lo sviluppo professionale e la formazione di tutte le categorie del personale della scuola, in primis i docenti chiamati ad attuare le innovazioni scolastiche. Fa’ inoltre capolino il principio del sostegno “individuale” ai docenti impegnati in percorsi di autoformazione (formali e informali), che risponde ad una richiesta più volte sollecitata dai docenti e recepita anche dall’art. 16, comma 3 della Legge n. 448 del 28-12-2001 (Finanziaria 2002), in attesa di attuazione. Ci si poteva forse aspettare un recupero del concetto di “periodo sabbatico” (anch’esso a lungo ambito dai docenti), timidamente previsto in precedenti accordi sindacali di quadro: una buona formazione richiede non solo risorse economiche aggiuntive, ma soprattutto risorsa-tempo. Completano il quadro programmatico interventi in materia di valutazione, di dispersione, di obbligo scolastico e formativo, di educazione degli adulti e di formazione tecnica superiore. A ben vedere, sono le stesse aree di intervento già previste all'interno della legge 18-12-1997, n. 440 che in questi anni ha finanziato lo sviluppo dell’autonomia. Si riuscirà ad allestire un secondo “salvadanaio” per finanziare in maniera consistente lo sviluppo delle riforme ? La risposta, come insegna la recente iniziativa legislativa del presidente americano W.G.. Bush (non a caso denominata “no child left behind”: nessun ragazzo resti indietro), appare dirimente circa la possibilità di realizzare un incisivo rilancio di investimenti vero la pubblica istruzione. 1.4 Ulteriori disposizioni correttive e integrative
dei decreti legislativi di cui al presente articolo e agli
articoli 4 e 5 possono essere adottate, con il rispetto dei
medesimi criteri e principi direttivi e con le stesse procedure,
entro 18 mesi dalla data della loro entrata in vigore. Si tratta di una norma tecnica che prolunga la durata della delega di un ulteriore anno e mezzo, per apportare eventuali correttivi al primo pacchetto di decreti delegati. “Politicamente corretta” appare la delimitazione della delega entro l’arco temporale della legislatura (24 mesi + 18 mesi) inauguratasi il 13 maggio 2001. Ma le vere riforme, l’esperienza recente lo dimostra, sono quelle capaci di oltrepassare il crinale della legislatura, di accomunare “vincitori e vinti” del nuovo sistema elettorale “maggioritario”, che offre minori appigli alle logiche consociative tipiche della prima Repubblica. Basti pensare che per l’attuazione della legge di delega del 1973 (che dette vita ai c.d. “decreti delegati” fu costituita una commissione di elaborazione rappresentativa di tutte le forze politiche e di tutte le organizzazioni sindacali e professionali. Art.
2 (Sistema educativo di istruzione e di formazione) Ritorna, nel titolo dell’articolo, un binomio già collaudato in numerose disposizioni legislative: il termine “istruzione” richiama i processi di apprendimento e formazione culturale “disinteressata”; il termine “formazione” si riferisce in maniera più esplicita all’acquisizione di competenze e abilità utilizzabili in ambito professionale. Entrambi concorrono a definire un sistema “educativo” integrato: educazione, in questo contesto, si avvicina all’onnicomprensivo “education” che si può tradurre dall’inglese, indifferentemente, nei nostri istruzione o formazione. La possibilità di integrare i due termini, che sono l’emblema di due percorsi formativi oggi nettamente separati, anzi gerarchicamente separati, rappresenta una “sfida” della riforma: il Governo, prendendo spunto dagli esiti del documento Bertagna, ritiene che le proprie scelte portino ad una effettiva pari dignità e integrazione dei percorsi; l’opposizione ritiene, invece, che quelle medesime scelte sanzionino in modo irrimediabile la separazione dei due canali.
2.1
- I decreti di cui all’articolo 1 definiscono il sistema
educativo di istruzione e di formazione, con l’osservanza dei
seguenti principi e criteri direttivi:
a)
è promosso l’apprendimento in tutto l’arco della vita e
sono assicurate a tutti pari opportunità di raggiungere elevati
livelli culturali e di sviluppare le capacità e le competenze,
attraverso conoscenze e abilità, generali e specifiche, coerenti
con le attitudini e le scelte personali, adeguate all’inserimento
nella vita sociale e nel mondo del lavoro anche con riguardo alle
dimensioni locali, nazionale ed europea; Vengono delineati i principi ispiratori a cui dovranno attenersi i decreti delegati. Ad una prima lettura tali criteri oscillano da previsioni di carattere generale a prescrizioni assai minute (come nel caso dell’articolazione interna dei cicli scolastici). Il principio-guida, di apertura, si ispira direttamente all’articolo iniziale della legge 30/2000, con qualche significativa variazione. Intanto scompare il richiamo costituzionale alla Repubblica come soggetto che si impegna ad assicurare pari opportunità di formazione ai cittadini. Resta comunque l’obiettivo di un elevamento dei livelli culturali della popolazione come grande obiettivo strategico della riforma, in sintonia con il quadro europeo che qui appare meglio delineato. L’inserimento “sociale”, infatti, non può essere più riferito alle sole dimensioni localistiche. Diversa appare anche la struttura delle finalità: dalla precedente trilogia delle “3 c” (competenze, conoscenze, capacità) inaugurata nelle certificazioni degli esami di stato, variamente interpretata nel mondo della scuola e della ricerca, sembrano emergere due piani di analisi: uno sovraordinato (ed è quello relativo a competenze/capacità), l’altro più strumentale e servente (ed è quello riferito a conoscenze ed abilità). Al di là delle terminologie, ciò che conta sono gli indirizzi culturali che si intendono infondere nei nuovi piani di studio della scuola italiana: ma questa è inevitabilmente materia di una nuova delega (politico-culturale prima ancora che giuridica).
b)
sono favorite la formazione spirituale e morale, lo sviluppo
della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale,
alla comunità nazionale ed alla civiltà europea; La formulazione dell’enunciato non è delle più felici, in quanto intreccia dimensioni di carattere storico-culturale ed antropologico con affermazioni e un linguaggio “a-temporale”. L’ambiguità ridonda perfettamente nel termine “civiltà europea”: appunto, si appartiene ad essa come ad una sorta di dato a-priori, o la si analizza con gli strumenti critici dell’istruzione e della cultura ?
c)
è assicurato a tutti il diritto all'istruzione e alla
formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento
di una qualifica entro il diciottesimo anno di età; l'attuazione
di tale diritto si realizza nel sistema di istruzione e di
formazione, secondo livelli essenziali di prestazione definiti su
base nazionale a norma dell'articolo 117, secondo comma lettera m)
della Costituzione e mediante i regolamenti di cui all'articolo
17, comma 2 della legge 23 agosto 1988, n. 400 e successive
modificazioni, e garantendo l'integrazione delle persone in
situazione di handicap a norma della legge 5 febbraio, n. 104 e
successive modificazioni. La fruizione dell'offerta di istruzione
e formazione costituisce un dovere legislativamente sanzionato;nei
termini anzidetti di diritto all’istruzione e formazione e di
correlativo dovere viene ridefinito ed ampliato l’obbligo
scolastico di cui all’art. 34 della Costituzione, nonché l’obbligo
formativo introdotto dall’art. 68 della legge 17 maggio 1999, n.
144. L’attuazione graduale del diritto-dovere predetto è
rimessa ai decreti legislativi di cui all’articolo 1,
correlativamente agli interventi finanziari previsti a tal fine
dal piano programmatico di cui all’articolo 1, comma 3, adottato
previa intesa con la Conferenza unificata, e coerentemente con i
finanziamenti disposti a norma dell’articolo 7, comma 6; Il comma non è di immediata interpretazione, ma costituisce uno dei cardini del nuovo disegno ordinamentale. Viene recuperato il concetto di obbligo scolastico (che non era presente nella versione iniziale del disegno di legge), con una norma di carattere programmatico che ne preannuncia la riformulazione e l’ampliamento. E’ significativa la citazione dell’art. 34 della Costituzione del 1948 (che ipotizzava però una durata dell’obbligo scolastico di soli 8 anni), ma è sintomatico il silenzio sulla legge 9/1999 che aveva esteso l’obbligo scolastico a 10 anni di durata (e a 9, in via transitoria). Al centro del dispositivo rimane il concetto di diritto all’istruzione/formazione (e quindi “esigibile” con diverse modalità) per almeno 12 anni. I percorsi formativi sono offerti (ma sanzionati nel loro obbligo) e vanno quindi da 6 ad almeno 18 anni (fino a 17 anni per chi perviene ad qualifica professionale, che equivale all’assolvimento dell’obbligo formativo). Tale meccanismo si avvicina al concetto di obbligo formativo così come era previsto dalla legge 144/99 (che viene richiamata nel nuovo testo), ma darà luogo ad una tipologia di percorsi scolastici/formativi assai differenziati: avremo fruitori di soli 11 anni di formazione (chi frequenta per una qualifica professionale triennale), altri di 12 anni (chi utilizza il canale quadriennale dell’istruzione professionale), o ancora di 13 anni (chi si inserirà nel percorso liceale quinquennale con uscita a 19 anni). Insomma, un vero e proprio sistema a “canne d’organo” dove non è facile scorgere il ruolo “equalizzatore” della soglia dei 12 anni. Qualche commentatore eccepisce, inoltre, sul troppo debole riferimento al principio costituzionale di obbligo scolastico. Altri lamentano la tradizionale marginalità della scuola dell’infanzia: la sua frequenza non si caratterizza né come istruzione, né come formazione (è al di fuori degli 11, 12, 13 anni del percorso formativo “aureo”: ma allora, si chiedono le insegnanti del settore, il primo giorno di scuola non comincia più “a tre anni” ?).
d)
il sistema educativo
di istruzione e di formazione si articola nella scuola dell’infanzia,
in un primo ciclo che comprende la scuola primaria e la scuola
secondaria di primo grado, e in un secondo ciclo che comprende il
sistema dei licei ed il sistema dell’istruzione e della
formazione professionale; Prende corpo il nuovo quadro ordinamentale che, a grandi linee mantiene gli attuali assetti: da segnalare l’aggregazione della scuola elementare e media in un primo ciclo (che riprende la terminologia europea del livello primario, piuttosto che rilanciare il concetto di formazione di base) e la maggiore articolazione del ciclo secondario che comprende apparentemente tre distinte filiere: i licei, l’istruzione professionale, la formazione professionale. Ma sui rapporti tra questi diversi settori dovremo ritornare alla luce delle indicazioni contenute negli articoli successivi che, comunque, lasciano aperti ampi margini di interpretazione (ad esempio, circa il destino dell’istruzione tecnica).
e)
la scuola dell'infanzia, di durata triennale, concorre all’educazione
e allo sviluppo affettivo, psicomotorio, cognitivo e sociale delle
bambine e dei bambini promuovendone le potenzialità di relazione,
autonomia, creatività, apprendimento, per assicurare un’effettiva
eguaglianza delle opportunità educative; nel rispetto
dell'orientamento educativo dei genitori, essa contribuisce alla
formazione integrale delle bambine e dei bambini e,
nella sua autonomia e unitarietà didattica e pedagogica,
realizza la continuità educativa con il complesso dei servizi
all'infanzia e con la scuola primaria. E’ assicurata la
generalizzazione dell'offerta formativa e la possibilità di
frequenza della scuola dell’infanzia; alla scuola dell’infanzia
possono iscriversi le
bambine e i bambini che compiono i 3 anni di età entro il 30
aprile dell’anno scolastico di riferimento, anche in rapporto
all’introduzione di nuove professionalità e modalità
organizzative; Sotto
il profilo pedagogico il comma riprende molto da vicino l’analogo
articolo dedicato alla scuola dell’infanzia contenuto nella legge
30/2000. Si riconferma l’immagine di scuola dell’infanzia come
“ambiente di apprendimento, di relazione e di vita” così come
emerge dagli Orientamenti educativi del 1991, in grado di
sollecitare le “potenzialità” di sviluppo di bambini e bambine
nelle dimensioni affettive, sociali, cognitive (cui si aggiunge ora
“psicomotorie”). Anche il richiamo alla creatività ed all’autonomia
(cui si aggiunge “relazione”) rammenta l’esigenza di mantenere
assai aperto e plastico l’approccio metodologico e didattico al
curricolo, in sintonia con le migliori esperienze italiane. Così
pure, il riferimento all’uguaglianza delle opportunità non può
tradire le caratteristiche di accoglienza e di qualità dell’intero
contesto educativo (spazi, tempi, materiali, relazioni). E’
invece sul piano istituzionale che si notano alcune differenze.
Scompare il riferimento alla Repubblica come soggetto che deve
garantire il diritto alla frequenza (si parla, più impersonalmente,
di possibilità di frequenza). La vera novità sta nella diversa
età di accesso alla scuola dell’infanzia: mentre oggi è
riservata ai bambini che compiono i tre anni di età nel corso dell’anno
solare riferito al 1° settembre (con l’unica eccezione dei
bambini che compiono i tre anni di età al 31 gennaio dell’anno
successivo) viene ipotizzata l’iscrizione anche per i bambini che
compiono i 3 anni entro il 30 aprile successivo. In pratica, al
primo settembre potremmo trovare nella sezione dei “piccoli”
bimbi di 2 anni e 4 mesi: nulla di scandaloso. In molti paesi
europei l’età di accesso ai servizi educativi prescolastici è
fortemente anticipata; esistono sperimentazioni di sezioni
anticipate in molti comuni italiani; la domanda “sociale” dei
genitori è pressante, anche a fronte degli alti costi di frequenza
degli asili nido che in Italia accoglie i bambini dai 3 mesi di età
ai 3 anni compiuti (una materna può costare 150.000 lire, un “nido”
oltrepassare le 600.000). La proposta potrà risultare molto gradita
all’opinione pubblica, ma vien da chiedersi:
- sono stati
valutati i costi necessari per allestire situazioni educative
pienamente rispondenti ai bisogni dei bambini di questa età ? Le
sezioni di nido per i bambini di due anni prevedono un rapporto
numerico 1:6 o 1:7 o 1:8, assai inferiore a quello stabilito per le
sezioni della scuola materna (2 insegnanti per un gruppo di bambini
che può giungere fino a 28 alunni, per 8 ore e oltre di apertura);
nel nido sono presenti figure (assistenti, personale di servizio,
ecc.) in misura molto superiore a quanto previsto nella “materna”,
per non parlare degli spazi, delle attrezzature, dei materiali,
delle competenze dei docenti; - si è riflettuto sul cambiamento di modello pedagogico ed educativo che viene proposto alla scuola dell’infanzia, che vedrebbe privarsi di una quota significativa di bimbi “grandi” (quelli di 5 anni che anticipano il passaggio alla elementare) e far fronte a questa nuova delicata fascia di età; il tutto in un contesto che rendendo molto flessibile, opzionale, diversificata la possibilità di fruire della scuola dell’infanzia da parte dei genitori, orienta l’immagine del servizio verso un’idea di “nursery” piuttosto che di “prima scuola”. Ma il punto di forza della scuola dell’infanzia italiana non è proprio la sua triennalità, la sua distanza dal precocismo, il suo caratterizzarsi come ambiente ricco di linguaggi e di forme di rappresentazione e comunicazione ? Abbiamo ripreso, in questo commento, molti dei punti segnalati dalle relazioni della Commissione Bertagna, che risultano –dunque- largamente disattesi.
f)
il primo
ciclo di istruzione è costituito dalla scuola primaria, della
durata di 5 anni, e dalla scuola secondaria di primo grado della
durata di 3 anni. Ferma restando la specificità di ciascuna di
esse, la scuola primaria è articolata in un primo anno, teso al
raggiungimento delle strumentalità di base, e in due periodi
didattici biennali; la scuola secondaria di primo grado si
articola in un biennio e in un terzo anno che completa
prioritariamente il percorso disciplinare ed assicura
l'orientamento ed il raccordo con il secondo ciclo; nel primo
ciclo è assicurato altresì il raccordo con la scuola dell’infanzia
e con il secondo ciclo; è previsto che alla scuola primaria si
iscrivano le bambine e i bambini che compiono i 6 anni di età
entro il 31 agosto; possono iscriversi anche le bambine e i
bambini che li compiono entro il 30 aprile dell’anno scolastico
di riferimento; la scuola primaria
promuove, nel rispetto delle diversità individuali, lo
sviluppo della personalità, ed ha il fine di far acquisire e
sviluppare le conoscenze e le abilità di base fino alle prime
sistemazioni logico critiche, di fare apprendere i mezzi
espressivi, ivi inclusa l’alfabetizzazione in almeno una lingua
dell’Unione Europea oltre alla lingua italiana, e l’alfabetizzazione
nelle tecnologie informatiche, di valorizzare le capacità
relazionali e di orientamento nello spazio e nel tempo, di educare
ai principi fondamentali della convivenza civile; la scuola
secondaria di primo grado, attraverso le discipline di studio, è
finalizzata alla crescita delle capacità autonome di studio ed al
rafforzamento delle attitudini alla interazione sociale, organizza
ed accresce le conoscenze e le abilità, anche in relazione alla
tradizione culturale e alla evoluzione sociale, culturale e
scientifica della realtà contemporanea, è caratterizzata dalla
diversificazione didattica e metodologica in relazione allo
sviluppo della personalità dell’allievo, cura la dimensione
sistematica delle discipline, sviluppa progressivamente le
competenze e le capacità di scelta corrispondenti alle proprie
attitudini e vocazioni, strumenti adeguati alla prosecuzione delle
attività di istruzione e di formazione, introduce lo studio di
una seconda lingua dell’Unione
Europea e cura l’approfondimento nelle tecnologie informatiche;
il primo ciclo di istruzione si conclude con un esame di Stato,
dal quale deve emergere anche una indicazione orientativa non
vincolante per la successiva scelta di istruzione e di formazione,
ed il cui superamento costituisce titolo di accesso al sistema dei
licei e al sistema dell’istruzione e della formazione
professionale; L’indicazione
del disegno di legge è molto esplicita: nonostante la comune
cornice del ciclo primario (che è suggellata dalla presenza di un
solo esame conclusivo di ciclo, quello di terza media) le due
strutture scolastiche di riferimento, elementari e medie, sono
nettamente distinte, sia nei riferimenti programmatici, sia nella
articolazione organizzativa. La scelta del disegno di legge appare
molto sofferta, oggetto di “distinguo” all’interno della
stessa maggioranza, in aperta rottura con le ipotesi del Gruppo di
lavoro Bertagna (che, ricordiamolo, ipotizzava un ciclo di base
articolato in bienni, di cui quello tra quinta elementare e prima
media, in funzione di biennio di raccordo). Si nota qui una forte
presa di distanza dalla proposta di scuola di base contenuta nella
legge 30/2000, non solo per la diversa durata del percorso (si
ritorna agli otto anni rispetto ai sette), ma soprattutto per la
diversa impostazione curricolare dei due percorsi. La scuola
elementare appare più orientata all’acquisizione delle prime
strumentalità, al consolidamento di conoscenze e abilità di base.
Un’esigenza molto avvertita, di fronte ai perduranti e non
soddisfacenti livelli di alfabetizzazione della popolazione
scolastica italiana; l’impatto sull’attuale cultura
professionale della scuola elementare è molto forte e sembra
mettere in discussione la piattaforma “bruneriana” dei programmi
didattici del 1985 (tuttora vigenti) ripresi, in qualche modo nell’elaborazione
sui curricoli di base della Commissione De Mauro, secondo cui le
discipline (magari aggregate in “ambiti”) sono già presenti
nell’esperienza conoscitiva dei bambini della scuola elementare. La
specificità dei due segmenti scolastici non può essere giocata
sulla assenza/presenza delle discipline nei rispettivi curricoli,
semmai nella graduale e progressiva differenziazione dell’organizzazione
degli apprendimenti; per regolare questo ritmo di
continuità/discontinuità è opportuno mantenere una rigida
distinzione tra gli insegnanti della scuola primaria e quelli della
scuola secondaria di I° grado ? oppure conviene favorire forme di
confronto, scambio, interazione anche mediante bienni di raccordo o
altri moduli ? Lo schema di legge entra nel dettaglio di una ipotesi
di articolazione interna della scuola elementare (1+2+2) e della
scuola media (2+1) che sembra eccessivamente minuziosa e
prescrittiva, privando le scuole di spazi di flessibilità di cui,
ad esempio, hanno dato prova gli istituti comprensivi, cioè le
istituzioni che aggregano in una unica struttura professionale le
scuole materne, elementari e medie del medesimo territorio. Non si
dimentichi che in Italia le scuole “verticalizzate” sono oltre
3200 e rappresentano il 43 % dell'intera scuola di base. C’è
dunque una scuola di base “reale” che chiede di essere
ascoltata, rassicurata e valorizzata per la ricerca sui curricoli
verticali che ha realizzato in questi anni.
g)
il
secondo ciclo, finalizzato alla crescita educativa, culturale e
professionale dei giovani attraverso il sapere, il fare e l'agire,
e la riflessione critica su di essi, è finalizzato a sviluppare l’autonoma
capacità di giudizio e l’esercizio della responsabilità
personale e sociale; in tale ambito, viene curato lo sviluppo
delle conoscenze relative all’uso delle tecnologie informatiche
e delle reti; il secondo ciclo è costituito dal sistema dei licei
e dal sistema dell’istruzione e della formazione professionale;
dal compimento del quindicesimo
anno di età i diplomi e le qualifiche si possono conseguire in
alternanza scuola-lavoro o attraverso l’apprendistato; il
sistema dei licei comprende i licei artistico, classico,
economico, linguistico, musicale, scientifico, tecnologico, delle
scienze umane; i licei artistico, economico e tecnologico si
articolano in indirizzi per corrispondere ai diversi fabbisogni
formativi; i licei hanno durata quinquennale; l’attività
didattica si sviluppa in due periodi biennali e in un quinto anno
che prioritariamente completa il percorso disciplinare e prevede
altresì l’approfondimento delle conoscenze e delle abilità
caratterizzanti il profilo educativo, culturale e professionale
del corso di studi; i
licei si concludono con un esame di Stato, il cui superamento
rappresenta titolo necessario per l’accesso all’università e
all’alta formazione artistica, musicale e coreutica, e dà
accesso all’istruzione e formazione tecnica superiore; La
diversa configurazione dell’istruzione secondaria rappresenta il
punto di snodo del nuovo modello di ordinamento; infatti, recependo
in parte il design del Gruppo di Lavoro Bertagna, vengono
individuate due distinte filiere (quella liceale e quella
professionale) verso cui indirizzare le scelte degli allievi in
uscita dalla scuola media. Il riequilibrio tra le due filiere
rappresenta una necessità riconosciuta da tutti: in Italia
(rispetto all’Europa) il canale professionale è fortemente
sottostimato e distribuito in una pluralità di rivoli, spesso di
debole consistenza. L'’potesi di consolidare una "seconda
gamba" tecnico-professionale quadriennale in parallelo con la
prima “gamba liceale”, rimescolando le carte tra istruzione
tecnica, istruzione professionale e formazione professionale (la
c.d. formazione secondaria) era l’intuizione del gruppo
Bertagna, clamorosamente accantonata per le difficoltà di impatto
“ambientale”. In particolare è stata considerata troppo “rude”
(da qualcuno perfino “reazionaria”) l’anticipazione delle
scelte scolastiche a 14 anni (si ricorda in proposito le iniziali
riserve espresse anche da autorevoli rappresentanti di Confindustria),
come pure la non meglio motivata riduzione della scuola superiore ad
un quadriennio (come se gli stessi contenuti dovessero essere
affrontati con minor tempo a disposizione). L’attuale
formulazione della proposta appare più “continuista”, in quanto
l’indicazione di una pluralità di indirizzi nella filiera liceale
fa trapelare il transito di tutta l’istruzione tecnica nei licei
ad indirizzo economico e tecnologico. Resta un punto interrogativo
sul futuro dell’attuale istruzione professionale di stato (dall’incerto
profilo anche all’interno della legge 30/2000). Nella legge
costituzionale n. 3/2001 è stata ripristinata la dicitura
originaria del testo costituzionale del 1948, che affida alle
Regioni l’intero comparto dell’istruzione professionale (e non
solo il succedaneo della odierna formazione professionale
regionale). I problemi che questa ipotesi lascia intravedere sono
talmente corposi (trasferimento di strutture, modifiche di stato
giuridico per il personale, maggiore finalizzazione e flessibilità
dei percorsi, ecc.) da far dubitare circa un’agevole fattibilità
della proposta. Il primo effetto è rappresentato dalla durata più
ridotta del canale professionale rispetto a quello tecnico-liceale
(4 soli anni rispetto ai 5), pur compensata dalla possibilità di
sostenere l’esame di Stato (anche previo eventuale anno
integrativo) e così di accedere alla formazione superiore
(universitaria e non). L’assetto curricolare dei licei (sul ritmo
2+2+1) propone un generale compattamento delle discipline (un
curricolo caratterizzante ogni indirizzo, però ancora tutto da
definire, al di là delle prime anticipazione della Commissione
Bertagna), con l’ultimo anno “rafforzativo” dello specifico
impianto culturale dell’indirizzo (la c.d. terminalità). h) ferma
restando la competenza regionale in materia di formazione e
istruzione professionale, i percorsi del sistema dell’istruzione
e della formazione professionale
realizzano profili educativi, culturali e professionali, ai
quali conseguono titoli e qualifiche
professionali di differente livello, valevoli su tutto il
territorio nazionale se rispondenti ai livelli essenziali di
prestazione di cui alla lettera c); le modalità di accertamento
di tale rispondenza, anche ai fini della spendibilità dei
predetti titoli e delle qualifiche nell’Unione Europea, sono
definite con il regolamento di cui all’articolo 6; comma 1,
lett. c), i titoli e le qualifiche costituiscono condizione per l’accesso
all’istruzione e formazione tecnica superiore, fatto salvo
quanto previsto dall'articolo 69 della legge 17 maggio 1999,
n.144; i titoli e le qualifiche conseguite al termine dei percorsi
del sistema dell’istruzione e della formazione professionale di
durata almeno quadriennale consentono di sostenere l’esame di
Stato, utile anche ai fini degli accessi all’università e all’alta
formazione artistica, musicale e coreutica, previa frequenza di
apposito corso annuale, realizzato d’intesa con le università,
e ferma restando la possibilità di sostenere, come privatista, l’esame
di Stato anche senza tale frequenza; Il
secondo canale della formazione professionale quadriennale viene
aperto verso l’alto, sia mediante la possibilità di accedere
direttamente all’istruzione e formazione tecnico-superiore, sia
verso l’Università previo superamento dell’esame di Stato.
Anche la validità e spendibilità dei titoli sul piano nazionale ed
europeo (che richiede comunque ulteriori passaggi regolamentari),
tende ad irrobustire culturalmente la “filiera” professionale,
che era uno degli obiettivi di fondo della proposta del Ministro
Moratti.
i)
è assicurata e assistita la possibilità
di cambiare indirizzo all’interno del sistema dei licei, nonché
di passare dal sistema dei licei al sistema dell’istruzione e
della formazione professionale, e viceversa, mediante apposite
iniziative didattiche, finalizzate all'acquisizione di una
preparazione adeguata alla nuova scelta; la frequenza positiva di
qualsiasi segmento del secondo ciclo comporta l'acquisizione di
crediti certificati che possono essere fatti valere, anche ai fini
della ripresa degli studi eventualmente interrotti, nei passaggi
tra i diversi percorsi di cui alle lettere g) e h); nel secondo
ciclo, esercitazioni pratiche, esperienze formative e stage
realizzati in Italia o all'estero anche con periodi di inserimento
nelle realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei
servizi, sono riconosciuti con specifiche certificazioni di
competenza, rilasciate dalle istituzioni scolastiche e formative;
i licei e le istituzioni formative del sistema dell’istruzione e
della formazione professionale, d’intesa rispettivamente con le
università, con le istituzioni
dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica e
con il sistema dell’istruzione e formazione tecnica superiore,
stabiliscono, con riferimento all’ultimo anno del percorso di
studi, specifiche modalità per l’approfondimento delle
conoscenze e delle abilità richieste per l’accesso ai corsi di
studio universitari, dell’alta formazione, ed ai percorsi dell’istruzione
e formazione tecnica superiore; La
“canalizzazione” dei percorsi formativi risulta temperata dalla
possibilità di passerelle tra una filiera e l’altra. Sappiamo che
l’esperienza connessa all’estensione dell’obbligo scolastico
al 15° anno di età (Legge 9/99) è, in merito, particolarmente
deludente e non sarà facile garantire un’effettiva osmosi tra i
diversi percorsi. In questa direzione possono andare tutti i
meccanismi per il riconoscimento di percorsi formativi anche
parziali (sotto forma di crediti certificabili), così come la
valorizzazione e certificazione delle esperienze pratiche di
tirocinio, stage, esercitazione. Mutuato dal documento Bertagna è
poi l’abbozzo di anno di snodo tra istruzione/formazione
secondaria e università/formazione superiore. Questo “ponte”
può contribuire ad abbattere quel drammatico disorientamento dei
giovani di fronte all’istruzione superiore universitaria, che ci
porta a 4 laureati ogni 10 iscritti. Tuttavia, in due distinti
passaggi dell’articolato, emerge una visibile contraddizione: l’ultimo
anno dei licei (o degli istituti professionali) va dedicato al
consolidamento della specificità dell’indirizzo frequentato,
oppure è già proiettato verso il post-secondario (universitario e
non) e quindi con funzioni di orientamento e di riallineamento delle
competenze di ingresso richieste dalle scelte successive ?
l)
i piani di studio, nel rispetto
dell'autonomia delle istituzioni scolastiche, contengono un nucleo
fondamentale, omogeneo su base nazionale, che rispecchia la
cultura, le tradizioni e l’identità nazionale, e prevedono una
quota, riservata alle Regioni, relativa agli aspetti di interesse
specifico delle stesse, anche collegata con le realtà locali.
Il tema del curricolo “locale”, o meglio della quota del
curricolo da riservare ad un approfondimento della realtà locale o
di conoscenza del territorio fa parte dell’evoluzione del
principio dell’autonomia scolastica che conferisce una sempre più
estesa discrezionalità alle singole scuole di definire una quota
significativa del proprio curricolo. In alcuni primi provvedimenti
sperimentali (es.: D.I. n. 234 del 26-6-2000) tale quota viene
indicata nel 15 % dell’orario scolastico obbligatorio, mentre
nelle bozze dei curricoli De Mauro ci si spingeva fino al 20 % del
monte-ore. Tale tempo può essere destinato a variare i rapporti tra
i tempi delle discipline obbligatorie, oppure ad introdurre nuove
attività e discipline, o a variare le metodologie didattiche. La
commissione Bertagna aveva introdotto il termine “intensificazione”
del curricolo, quasi a limitare la flessibilità ad un diverso modo
di affrontare le discipline fondamentali; inoltre proponeva una
secca diminuzione dei tempi del curricolo, fissando una soglia di
sole 25 ore settimanali, lasciando la quota rimanente di circa 10
ore settimanali di attività laboratoriali (per discipline di
carattere espressivo, operativo) ad una aperta negoziazione con gli
utenti della scuola ed il territorio, con obbligo della scuola di
erogare il curricolo aggiuntivo, ma con la libertà degli utenti di
avvalersene. Questa ultima ipotesi non è contemplata direttamente
nel disegno di legge, ma viene delegata al Ministro nell’ambito
dei provvedimenti di riscrittura dei piani di studio e di
definizione degli orari delle discipline. Nel testo della legge compare, invece, una clamorosa novità (per altro preannunciata dal Ministro nelle sue prime dichiarazioni al Parlamento nel luglio 2001): una quota del tempo-scuola, ancora da precisare, viene riservata alla potestà di ogni Regione, per introdurre approfondimenti culturali legati ai diversi contesti regionali. La proposta ha fatto molto discutere, soprattutto per l’estemporaneità di qualche azzardata interpretazione “localistica” e per la genericità della sua formulazione (quale percentuale ? chi decide ? su quali opzioni ?), ma soprattutto perché sembra azzerare totalmente la quota precedentemente riservata all’autonoma decisione delle scuole. Sarebbe paradossale che lo sviluppo dell’autonomia dovesse essere limitato dall’insorgere di nuovi centralismi, questa volta di carattere regionale. La delega, almeno in questo caso, dovrebbe essere più esplicita. Art. 3 (Valutazione degli apprendimenti
e della qualità del sistema educativo di istruzione e di
formazione) Aver
destinato uno specifico articolo ai temi della valutazione e della
qualità dell’istruzione testimonia il forte impatto emotivo e
sociale che la questione della valutazione ha assunto negli ultimi
tempi. La società civile e gli utenti della scuola sono diventati
più “esigenti” nei confronti della scuola, chiedono “prove”
circa la sua produttività culturale (questa esigenza era già stata
posta dalla Legge 29/97 sull’autonomia) e la sua affidabilità (e
in questo caso si può ricordare il movimento per la “Carta dei
Servizi”). Gli operatori interni sono, invece, assai più
diffidenti nei confronti di forme di valutazione considerate
intrusive della sfera di autonomia professionale.
1.
Con
i decreti di cui all’articolo 1 sono dettate le norme generali
sulla valutazione del sistema educativo di istruzione e di
formazione e degli apprendimenti
degli allievi, con l’osservanza dei seguenti principi e
criteri direttivi:
a)
la
valutazione, periodica e annuale, degli apprendimenti e del
comportamento degli allievi del sistema educativo di istruzione e
di formazione, e la certificazione delle competenze da essi
acquisite, sono affidate ai docenti delle istituzioni di
istruzione e formazione frequentate; agli stessi docenti è
affidata la valutazione dei periodi didattici ai fini del
passaggio al periodo successivo; La
regolamentazione del sistema di valutazione demanda ai docenti “interni”
la verifica e certificazione dei livelli di apprendimento intermedi
(in itinere, a fine anno, a fine periodo). Lo stesso principio era
già contenuto all’interno del Regolamento per l’autonomia (Dpr
275/99) che aveva liberalizzato gli strumenti e le modalità della
valutazione formativa. Ritorna, anche nel testo, l’apprezzamento
del “comportamento” come uno degli elementi da considerare nella
valutazione complessiva degli allievi (il principio sembra aver
riscosso un notevole consenso nei diversi sondaggi d’opinione
intrapresi dal Ministero per saggiare il gradimento nei confronti
del progetto).
b)
ai
fini del progressivo miglioramento della qualità del sistema di
istruzione e di
formazione, l’Istituto Nazionale per la Valutazione del
Sistema di Istruzione effettua verifiche periodiche e sistematiche
sulle conoscenze e abilità degli allievi e sulla qualità
complessiva dell’offerta formativa delle istituzioni scolastiche
e formative; in funzione dei predetti compiti vengono
rideterminate le funzioni e la struttura del predetto istituto; Un
decreto legislativo andrà a rideterminare le funzioni dell’Istituto
Nazionale di Valutazione, appena riformato con il D.Lvo n. 258 del
20-7-2000, anche per attrezzarlo al compito di promuovere vaste
azioni di rilevazione delle conoscenze degli allievi (si presume
attraverso prove tendenzialmente strutturate e standardizzate),
oltre che analisi della qualità dell’insegnamento e dell’organizzazione
scolastica. Anche questo aspetto della vita della nostra scuola
aspetta da tanti anni di trovare una adeguata considerazione, che
sappia però evitare un duplice rischio: la pretesa salvifica dei
grandi apparati docimologici o la desistenza di una cultura
scolastica che spesso rifiuta l’idea stessa di valutazione. c) l’esame
di Stato conclusivo dei cicli di istruzione considera e valuta le
competenze acquisite dagli allievi nel corso del ciclo e si svolge
su prove organizzate dalle commissioni d’esame e su prove
predisposte e gestite dall’Istituto Nazionale per la Valutazione
del Sistema di Istruzione, sulla base degli obiettivi specifici di
apprendimento del corso ed in relazione alle discipline di
insegnamento dell’ultimo anno.
Vengono qui anticipate alcune delle modifiche ipotizzate per
l’esame di Stato (per altro già oggetto di intervento in sede di
Legge finanziaria 2002 per quanto riguarda la composizione delle
commissioni d’esame). Si prospetta la somministrazione
generalizzate di prove strutturate e standardizzate (sulla scia
della attuale 3^ prova), in modo da raccogliere riscontri
comparabili sui livelli di apprendimento degli allievi. Art.
4 (Alternanza scuola lavoro) I percorsi in alternanza rappresentano una novità per il nostro sistema formativo, che aveva limitato questa opportunità a poche ed estemporanee iniziative. I risultati, del resto, sono ampiamente deludenti se comparati con quelli dei nostri partner europei: la percentuale di allievi partecipanti a stage in imprese sfiora appena l’1% dei potenziali interessati. C’è poi da ricordare l’obsolescenza del canale dell’apprendistato, rilanciato dalla legge 196/97, ma di debolissima tradizione nel nostro paese (in specie, la parte “formativa” di questo tipo di contratto a causa mista). 1. Fermo restando quanto previsto
dall'articolo 18 della legge 24 giugno 1997, n. 196, al fine di
assicurare agli studenti che hanno compiuto il quindicesimo anno
di età la possibilità di
realizzare i corsi del secondo ciclo in alternanza scuola-lavoro, come
modalità di realizzazione del percorso formativo progettata,
attuata e valutata dall’istituzione scolastica e formativa in
collaborazione con le imprese, che assicuri ai giovani, oltre alla
conoscenza di base, l’acquisizione di competenze spendibili nel
mercato del lavoro, si provvede con apposito decreto legislativo,
da emanare di concerto con il Ministro del lavoro e delle
politiche sociali e con il Ministro delle attività produttive,
d’intesa con la Conferenza unificata di cui al decreto
legislativo 28 agosto 1997, n. 281, entro il termine di 24
mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge e con le
modalità di cui all'articolo 1, comma 2, sentite le associazioni
comparativamente rappresentative dei datori di lavoro, nel
rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: Il
modello di formazione in alternanza viene ricondotto ad una precisa
responsabilità (e quindi progettualità e professionalità) dell’istituzione
formativa e scolastica. Il dispositivo non esclude che l’alternanza
possa riguardare anche i normali corsi di istruzione secondaria,
anche se il contesto di riferimento è quello delle “competenze”
spendibili nel mercato del lavoro e quindi più immediatamente
afferente alla dimensione professionalizzante dei percorsi
formativi. L’articolo, comunque, implica un incisivo sforzo di
apertura nei confronti del mondo delle imprese. Invece, fa discutere
il rapporto (non chiaro) tra questo nuovo canale e la formula dell’apprendistato.
Mentre quest’ultimo è un vero e proprio contratto, che prevede
una retribuzione e quindi una tutela sindacale, il percorso in
alternanza è un percorso formativo (quindi non è chiaro lo “status”
contrattuale del lavoratore-studente). Nel primo caso il limite è
dato dalla esiguità della parte formativa (di circa 240 ore) e
dalle tante possibilità per i datori di lavoro di sottrarsi agli
obblighi di legge; nel secondo dal rischio di trasformare l’alternanza
un “terzo” canale assai dequalificato rivolto alla fascia più
debole della popolazione giovanile, senza nessun impegno formativo
cogente per le imprese.
a)
svolgere l’intera formazione dai 15 ai 18 anni, attraverso l’alternanza
di periodi di studio e di lavoro, sotto la responsabilità dell’istituzione
scolastica o formativa, sulla base di convenzioni con imprese o
con le rispettive associazioni di rappresentanza, o con enti
pubblici e privati ivi inclusi quelli del terzo settore,
disponibili ad accogliere gli studenti per periodi di tirocinio
che non costituiscono rapporto individuale di lavoro; Si precisa che il percorso in alternanza non è un rapporto di lavoro, ma un tirocinio nel mondo del lavoro che può svolgersi in imprese pubbliche e private; la responsabilità resta dell’istituzione scolastica o formativa.
b)
fornire indicazioni generali per il reperimento e l’assegnazione
delle risorse finanziarie necessarie alla realizzazione dei
percorsi di alternanza, ivi compresi gli incentivi per le imprese
e l’assistenza tutoriale; Non è, al momento, precisato quali siano le fonti finanziarie utilizzabili per sostenere le imprese nelle azioni formative connesse agli stage, che per essere qualificate devono comprendere adeguate forme di tutoraggio ed una vera e propria predisposizione dell’impresa a facilitare l’apprendimento (una consapevolezza che non è scontata in tutti gli ambienti di lavoro).
c)
indicare le modalità di certificazione dell’esito positivo
del tirocinio e di valutazione dei crediti formativi acquisiti
dallo studente.
Anche la certificazione delle esperienze di tirocinio viene
demandata ad un successivo decreto legislativo. Va qui ricordata l’arretratezza
del nostro sistema formativo in materia di certificazione, di
portfolio, di bilancio di competenze, ecc. Art.
5 (Formazione
degli insegnanti) Così come nel documento Bertagna, anche il disegno di legge riserva uno specifico spazio di attenzione al problema della formazione iniziale dei docenti. D’altra parte, la questione era rimasta irrisolta anche all’interno della legge 30/2000 che pure aveva individuato un diverso profilo del docente di base, mentre le successive elaborazioni avevano trovato gli esperti oscillare tra gli opposti fautori di una preparazione lunga e rigorosamente disciplinare (su cui innestare le competenze didattiche) e di una preparazione esplicitamente finalizzata all’insegnamento, più breve e affidata alle scienze dell’educazione. Si è oggi pervenuto ad un diverso punto di equilibrio che sembra riscuotere un generale consenso; restano tuttavia molti nodi da sciogliere nell’ambito dei decreti applicativi.
1.
Con i decreti di cui all’articolo 1 sono dettate norme sulla
formazione iniziale dei docenti della scuola dell’infanzia, del
primo ciclo e del secondo ciclo, nel rispetto dei seguenti
principi e criteri direttivi:
a)
la formazione iniziale è di pari dignità e durata per tutti i
docenti e si svolge nelle università presso i corsi di laurea
specialistica, il cui accesso è programmato ai sensi dell’articolo
1, comma 1, della legge 2 agosto 1999, n. 264. La programmazione
degli accessi ai corsi stessi è determinata ai sensi dell’articolo
3 della medesima legge, sulla base dei posti effettivamente
disponibili in ogni regione nei ruoli organici delle istituzioni
scolastiche; Il modello per la formazione dei docenti è largamente unitario, se non altro per la pari durata dei curricoli universitari, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria. La definizione di dettaglio è comunque rimandata ad un ulteriore provvedimento legislativo delegato. Resta confermata il collegamento tra la programmazione delle iscrizioni universitarie e posti di insegnamento effettivamente disponibili, che rende più credibile (ed appetibile) il rapporto tra formazione iniziale, reclutamento e accesso alla professione.
b)
con uno o più decreti, adottati ai sensi dell’articolo 17,
comma 95 della legge 15 maggio 1997, n. 127, anche in deroga alle
disposizioni di cui agli articoli 10 comma 2, e 6 comma 4 del
decreto ministeriale 3 novembre 1999 n. 509, sono individuate le
classi dei corsi di laurea specialistica, anche interfacoltà o
interuniversitari, finalizzati anche alla formazione degli insegnanti di
cui alla lettera a). I decreti stessi disciplinano le attività
didattiche attinenti l’integrazione scolastica degli alunni in
condizione di handicap; la formazione iniziale dei docenti può
prevedere stage all’estero; Forzando gli equilibri raggiunti nell’ambito della riforma dei curricoli universitari, viene proposta una specifica organizzazione delle lauree specialistiche, nel tentativo di trovare un giusto mix tra saperi disciplinari e saperi professionali che non è garantito né dal solo percorso “disciplinare”, né dal prevalente intervento delle discipline pedagogiche. Di qui l’ipotesi di dar vita a nuove strutture interfacoltà. Tutta aperta resta la definizione dei percorsi specifici per l’acquisizione della specializzazione come insegnante di sostegno, oggi in una situazione di totale incertezza normativa ed operativa.
c)
l’accesso ai corsi di laurea specialistica per la formazione
degli insegnanti è subordinato al possesso dei requisiti minimi
curricolari, individuati per ciascuna classe di abilitazione nel
decreto di cui alla lettera b) e all’adeguatezza della personale
preparazione dei candidati, verificata dagli Atenei; Una volta individuato un canale ad hoc per la preparazione specialistica dei docenti occorre delimitare rigorosamente gli accessi, verificando le competenze di ingresso degli allievi. La scuola sembra però esclusa da questo accertamento che è propedeutico all’ingresso nel mondo del lavoro (attraverso una corsia preferenziale).
d)
l’esame finale per il conseguimento della laurea
specialistica di cui alla lettera a) ha valore abilitante per uno
o più insegnamenti individuati con decreto del Ministro dell’istruzione,
dell’università e della ricerca; L’acquisizione dell’abilitazione rappresenta il riconoscimento del valore professionalizzante del percorso quinquennale proposto dalla riforma, ma è assai lontano dall’assicurare un accesso agevolato e diretto dei laureati alla professione docente, che era uno dei cavalli di battaglia “europei” del documento Bertagna. Inoltre, alcuni ambienti universitari eccepiscono che il nuovo canale specialistico ad hoc per l’insegnamento potrebbe privare i laureati “disciplinari” della possibilità di accedere all’insegnamento.
e)
coloro che hanno conseguito la laurea specialistica di cui alla
lettera a), ai fini dell’accesso nei ruoli organici del
personale docente delle istituzioni scolastiche, svolgono, previa
stipula di appositi contratti di formazione lavoro, specifiche
attività di tirocinio. A tal fine e per la gestione dei corsi di
cui alla lettera a), le università definiscono nei regolamenti
didattici di ateneo l’istituzione e l’organizzazione di un’apposita
struttura di ateneo per la formazione degli insegnanti, cui sono
affidati, sulla base di convenzioni, anche i rapporti con le
istituzioni scolastiche; Si recupera, in parte, l’idea di una fase di “induzione” alla professione docente, mediante un periodo di tirocinio guidato (con un contratto retribuito). Emerge, di conseguenza, l’esigenza di un rapporto più intenso tra l’Università e la scuola, che sarà curato da una struttura d’ateneo (una sorta di Dipartimento trasversale alle Facoltà). Tutto da esplorare resta però l’apporto delle scuole e degli insegnanti in servizio ai processi di formazione dei neo-docenti, a partire dalle esperienze deludenti delle Scuole di Specializzazione per i docenti della scuola secondaria.
f)
le strutture di cui alla lettera e) curano anche la formazione
in servizio degli insegnanti interessati ad assumere funzioni di
supporto, di tutorato e di coordinamento dell’attività
educativa, didattica e gestionale delle istituzioni scolastiche e
formative. Il comma individua nell’Università la struttura deputata alla formazione in servizio degli insegnanti, limitandola però alla preparazione di nuove figure professionali, come arricchimento ed articolazione della funzione docente. Queste ipotesi erano state definite con un certo dettaglio nel documento “Bertagna”. In proposito era stato osservato che affidare lo sviluppo professionale dei docenti esclusivamente a percorsi formativi di natura accademica, valutati e certificati in una sede esterna alla scuola, avrebbe sancito un giudizio negativo sulla capacità della scuola di esprimere e produrre cultura, conoscenza, sapere professionale. Art. 6 (Regioni a statuto speciale e Province autonome
di Trento e Bolzano)
Vengono richiamate le tradizionali norme di salvaguardia delle potestà autonome delle Regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Valle d’Aosta) e delle Province autonome di Trento e Bolzano. Tali prerogative dovranno essere “ricollocate” all’interno del nuovo assetto “federale” della nostra Repubblica (Legge cost. 3/2001) che amplia per tutte le regioni le competenze legislative in materia di istruzione. Art. 7 (Disposizioni finali e
attuative) Il
dispositivo di chiusura della legge di delega si configura come un
kit assai composito di provvedimenti, che vanno dalla copertura
finanziaria al rinvio a norme regolamentari, dalla previsione di
innovazioni in campo valutativo alla abrogazione “secca” della
precedente legge 30/2000. In particolare alcune norme transitorie
prevederebbero la decorrenza dei primi effetti della riforma a
partire dall'anno scolastico 2002/03: questa tabella di marcia assai
ravvicinata lascia aperti molti interrogativi circa la effettiva
possibilità “tecnica” di rispettarla, visti i tempi
parlamentari necessari per l’approvazione della legge di delega ed
i successivi adempimenti di carattere organizzativo.
1.
Mediante
uno o più regolamenti da adottare a norma dell’articolo 117
sesto comma della Costituzione e dell’articolo 17 comma 2 della
legge 23 agosto 1988 n. 400, […] sentite le Commissioni
parlamentari competenti, nel rispetto dell’autonomia delle
istituzioni scolastiche, si provvede:
a)
alla
individuazione del nucleo essenziale dei piani di studio
scolastici per la quota nazionale relativamente agli obiettivi
specifici di apprendimento, alle discipline e alle attività
costituenti la quota nazionale dei piani di studio, agli orari, ai
limiti di flessibilità interni nell’organizzazione delle
discipline,
b)
alla
determinazione delle modalità di valutazione dei crediti
scolastici;
c)
alla
definizione degli standard minimi formativi, richiesti per la
spendibilità nazionale dei titoli professionali conseguiti all’esito
dei percorsi formativi, nonché
per i passaggi dai percorsi formativi ai percorsi
scolastici.
I regolamenti
(che sono strumento diverso dai decreti legislativi richiamati in
altra parte della legge) dovranno rimodellare l’impianto
curricolare della scuola italiana (piani di studio, orari,
flessibilità, quota nazionale). Va ricordato che una analoga delega
al Ministro pro-tempore era già contenuta nel Regolamento
per l’autonomia scolastica (Dpr 275/99), all’art. 8, ma ad essa
non si era dato corso in attesa dell’attuazione della riforma dei
cicli. Ora questa delega viene riassorbita dal nuovo dispositivo che
introduce qualche significativa variazione rispetto alla norma
precedente, richiamando il concetto di “piani di studio”
(anziché di “indirizzi curricolari”) e cassando il concetto di
“competenze” (in favore del termine “obiettivi specifici di
apprendimento”). 2.
Le norme regolamentari di cui al comma 1, lettera c), sono
definite previa intesa con la Conferenza permanente Stato-Regioni
di cui al decreto legislativo n. 281 del 1997.
Un nuovo interlocutore di affaccia nei processi di
elaborazione dei curricoli nazionali: si tratta della Conferenza
unificata Stato-Regioni-Autonomie locali, che viene chiamata in
causa per il forte impatto del nuovo ordinamento su tutta la filiera
“professionale” (di cui si vuole garantire il valore “nazionale”)
e per concordare le modalità di riconoscimento reciproco delle
esperienze formative maturate dagli allievi (in verità, si parla
solo del passaggio dai percorsi formativi a quelli scolastici: che
si dia per scontato il percorso in senso inverso ?). 3.Il
Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca
presenta ogni tre anni al Parlamento una relazione sul sistema
educativo di istruzione e di formazione professionale. La
previsione è molto generica, non trattandosi di una specifica
relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della riforma, ma
sull’intero andamento del sistema di istruzione e di formazione. L’intento
è meritorio, l’impresa più complessa ma fattibile, come dimostra
la vicenda condotta positivamente a metà degli anni ’90, del
monitoraggio sullo stato di realizzazione della riforma della scuola
elementare. Un’efficace azione di monitoraggio è in gradi di
orientare in tempo reale i processi di innovazione sulla base della
”lezione dell’esperienza”. 4.Dall'anno
scolastico 2002/2003 possono iscriversi, compatibilmente con la disponibilità dei posti e delle risorse
finanziarie dei Comuni, secondo gli obblighi conferiti dall’ordinamento
e nel rispetto dei limiti posti alla finanza comunale dal patto di
stabilità,
al primo anno della scuola dell’infanzia i bambini che compiono
i 3 anni di età entro il 28 febbraio 2003. Analogamente possono
iscriversi al primo anno della scuola primaria i bambini e le
bambine che compiono i sei anni di età entro il 28 febbraio 2003.
Le ulteriori anticipazioni, fino alla data del 30 aprile di cui
all’articolo 2, comma 1, lettere e) ed f), sono previste dai
decreti legislativi di cui all’articolo 1, sulla base delle
risultanze emerse dall’applicazione della presente legge. La norma accelera notevolmente l’iter di avvio della riforma, prevedendo già del prossimo anno scolastico 2002/2003 la possibilità di anticipare l’iscrizione alla classe prima elementare (e, prima, alla scuola dell’infanzia) ai bimbi di 6 anni di età (3 per la scuola dell’infanzia) da compiersi entro il 28 febbraio 2002. L’anticipo dell’iscrizione alla scuola dell’infanzia viene tuttavia subordinata al verificarsi di alcune condizioni (la disponibilità dei posti e le risorse degli Enti locali “in pareggio”). Con tali limitazioni non siamo più in presenza di un diritto soggettivo pieno, ma di un “interesse” legittimo subordinato alle esigenze di spesa pubblica. Tali vincoli non sembrano esserci per l’anticipo di frequenza alla scuola elementare. Va però considerato che le iscrizioni alle classi prime elementari sono già state effettuate nel passato mese di gennaio, sulla base della normativa generale di carattere nazionale. La loro riapertura rischia di creare non poco disorientamento tra i genitori, vista la nuova responsabilità che viene ad essi attribuita circa l’anticipo della frequenza. Restano poi da determinare gli effetti di questa mini-onda “anomala”, dovuta all’esigenza di aggiungere –durante l’estate- una nuova fascia di utenti nelle prime classi elementari (pari circa a 2/12 dell’intera leva di età dei cinqueenni). Analogamente per la scuola dell’infanzia (ove però già sono accolti i bimbi nati nel mese di gennaio). 5. Agli
oneri derivanti dall’applicazione dell’articolo 2, comma 1,
lettera f) e dal comma 3 del presente articolo, valutati in 12.731
migliaia di euro per l’anno 2002, 45.829 migliaia di euro per l’anno
2003 e in 66.198 migliaia di euro a
decorrere dall’anno 2004, si provvede mediante riduzione
dello stanziamento iscritto ai fini del bilancio triennale
2002-2004, nell'ambito dell'unità previsione di base di parte
corrente “Fondo speciale” dello stato di previsione del
Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2002, allo
scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al
Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca. La copertura finanziaria si riferisce unicamente alla possibilità di anticipare l’età di ingresso nella scuola elementare e scuola dell’infanzia. In assenza di un allegato tecnico sulle misure finanziarie non è possibile esprimere una valutazione circa l’attendibilità degli impegni di spesa previsti per far fronte a queste nuove misure, che comportano un aumento delle classi, degli insegnanti, degli oneri di funzionamento. In particolare, assai delicata appare la condizione della scuola dell’infanzia che, per accogliere bambini di due anni e quattro mesi, dovrebbe adottare rigorosi indicatori di qualità (rapporti numerici adulti-bambini, nuove figure professionali, adattamento delle strutture, nuovi servizi di supporto) cui si fa un vago riferimento all’interno della legge, senza però definirne i parametri, né i relativi oneri.
Ci si riferisce al piano di sviluppo della scuola previsto nel “decalogo” contenuto nell’art. 2 (nuove tecnologie, formazione degli insegnanti, valorizzazione della professione docente, educazione degli adulti, contrasto della dispersione, ecc.). Il reperimento delle risorse è rimandato agli strumenti previsti dalle norme sulla contabilità generale dello Stato: previsione e ricognizione pluriennale da effettuare nell’ambito del DPEF (documento di programmazione economica finanziaria); stanziamenti nei relativi capitoli di Bilancio da inserire nelle leggi finanziarie annuali. Nelle sue dichiarazioni alla conferenza nazionale della scuola (dicembre 2001) il ministro Moratti ha ipotizzato un investimento aggiuntivo pluriennale di 19.000 miliardi di lire.
La norma riconferma che, anche per l’insieme dei decreti applicativi, valgono i vincoli finanziari e le compatibilità di natura finanziaria previste in sede di bilancio. Va ricordato che anche la legge 30/2000 prevedeva un vincolo di bilancio (costo zero della riforma) da superare solo con diversi impegni legislativi. Il rapporto riforme della scuola-spesa pubblica si presenta come una spina nel fianco per ogni compagine governativa, come dimostrano anche le misure restrittive previste nel corpo delle diverse leggi finanziarie degli ultimi anni.
Viene istituito una sorta di “direttorio” misto tra dicasteri dell’istruzione e quello delle finanze per tenere sotto controllo le spese effettivamente sostenute per dar corso alla riforma. Si nota il tentativo di porre un freno al lievitare di oneri aggiuntivi e non previsti che spesso accompagna l’attuazione dei provvedimenti legislativi. Questo punto è risultato uno dei più discussi, sia all’interno della compagine governativa, tra i titolari dei diversi Ministeri, sia nella polemica maggioranza-opposizione (si ricordi il balletto estivo delle cifre circa il presunto “buco nero” nei conti pubblici).
Il comma, apparentemente tecnico, rafforza il potere di intervento del ministro dell’economia, nella fase di attuazione della legge.
5.
La legge 10
febbraio 2000, n. 30 è abrogata. Nella sua laconicità il comma riassume molti degli obiettivi che il Governo intende raggiungere con il provvedimento in discussione di fronte al Parlamento. L’abrogazione della legge di riforma approvata nella precedente legislatura, con molti contrasti in sede parlamentare, senza che si pervenisse ad alcun accordo “bipartisan”, è diventata la condizione preliminare che la nuova maggioranza ha posto per dare inizio ad un nuovo processo di riforma. Ma, appunto, quali sono i diritti ed i doveri di vincitori e vinti (di oggi e di ieri) di fronte alle grandi questioni che toccano i diritti di tutti i cittadini, come nel caso dell’istruzione ? Quale “authority” super partes garantirà che al centro del discorso restino i reali diritti educativi dei nostri ragazzi e che la scuola non si trasformi in un’arena per contrapposizioni politiche pregiudiziali ?
(*) Il presente intervento riprende ed aggiorna il contenuto del saggio “Commento analitico della legge delega” apparso nel fascicolo Riforma della scuola: la nuova proposta (a cura di G.Cerini-M.Spinosi), Notizie della Scuola, Inserto n. 13, 1-15 marzo 2002, Tecnodid, Napoli. |
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