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Istituti Comprensivi: non-ti-scordar-di-me di Giancarlo Cerini [1] Un’esperienza di “successo” Questo
intervento si pone l’obiettivo di ricostruire, in sintesi, la
storia e la cornice di sviluppo dell’istituto comprensivo e di
vederne le connessioni con le proposte di innovazione
che in questi anni sono state immaginate per la scuola italiana, per
capire come possa contribuire a delineare un orizzonte futuro più
rassicurante delle incertezze odierne. I dati sull’espansione
degli Istituti Comprensivi sono molto eloquenti. Se
usiamo il “gergo” della politica, dovremmo prendere atto che c’è
una maggioranza relativa di scuole di base organizzate “in
verticale”. Gli ultimi dati, quelli più recenti, ci parlano di
3283 Istituti Comprensivi (e sono circa il 40%), di 2700 Circoli
Didattici, cioè di scuole elementari e
materne organizzate in orizzontale (circa il 32%), e di 2300 Scuole
Medie orizzontali, cioè il 28%. Il
40% di scuole rappresenta un dato geo-politico
molto interessante, perchè ormai interi
territori hanno scelto la generalizzazione dell’istituto
comprensivo, come appunto la provincia di
Pisa. Si può citare anche la Provincia di Trento, con la sua
tradizionale vocazione federalista, che ha esteso totalmente
l'organizzazione “in verticale” delle scuole di base del
territorio. Ancora, è molto curioso e intrigante il dato per
cui la Lombardia e la Sicilia sono le due Regioni italiane
dove si è maggiormente diffusa la presenza degli Istituti
Comprensivi. Dietro questi dati quantitativi, che indicano
certamente un “successo” del nuovo modello di
organizzazione della scuola, ci sono motivazioni diverse, che
vanno ricostruite anche per prefigurare gli scenari futuri. Infatti,
ci si potrebbe chiedere: “questo
modello è una meteora destinata a spegnersi nel giro di poco tempo,
oppure è una stella di prima grandezza del nostro firmamento
scolastico ?” Scuole verticali e processi di riforma La
storia dei comprensivi nasce quasi per caso nel 1994, nell'ambito di
un provvedimento di Legge molto a-specifico e generale sulla tutela
delle zone di montagna (legge n. 97 del 31-1-1994); ha
però acquistato via via un valore
aggiunto. Cambiato lo “sfondo” (delle riforme) nel corso di
questi anni, è cambiata anche la “figura” (dell'Istituto
Comprensivo). Ma,
qual è (e qual è stato) il rapporto tra istituto comprensivo e
riforma della scuola ? Certamente c’è
un parallelismo evidente tra questa istituzione
e l’innovazione del ciclo di base, ma è mancata una convergenza
sicura tra i due eventi. Si è creata quasi un'incomprensione tra questo
oggetto pedagogico e organizzativo (la scuola “verticale”)
ed il disegno dell'innovazione degli ordinamenti, sia durante
l'epopea berlingueriana, sia nell'era
glaciale della Moratti... (la doppia ironia si riferisce all’enfasi
ingenua contenuta nel modello di ciclo “primario” proposto dal
Ministro Berlinguer e alla freddezza manifestata dal Ministro
Moratti nei confronti della legge 30/2000). Ad
entrambi gli schieramenti l’Istituto
Comprensivo è spesso sembrato un oggetto indecifrabile. Molti si
sono chiesti, nel corso di questi anni: ma il “comprensivo” è
coerente o no con il riordino dei cicli, per esempio con i contenuti
nella Legge 30 ? Ancora oggi, nelle aule
parlamentari, ci si chiede certamente: ma è coerente o no con la
proposta di legge delega presentata dall’attuale Governo? Questo
duplice interrogativo è però illuminante del rapporto non univoco
tra la dimensione micro, cioè
la realtà che cambia
sotto i nostri occhi, che possiamo modificare e governare... e il
livello macro, i grandi disegni, le grandi riforme che
sembrano sfuggire dalla nostra capacità di controllo. In
fondo, decidere una verticalizzazione non è un dictat
che arriva dall’alto, ma è una scelta che è vissuta e costruita
in una comunità: il comune, l'ente locale, la scuola, la provincia,
il piano regionale: ci sono tutti gli spazi e gli strumenti
giuridici in loco per decidere se verticalizzare o
meno. C’è dunque una realtà che può essere trasformata,
una scuola che può essere cambiata e governata, costruita in base
ad un criterio pedagogico, se riusciamo a condividerlo. Invece,
rispetto ai grandi modelli e ai grandi progetti, ci sembra di non
essere mai sufficientemente “padroni” (o, almeno, coinvolti).
Questa riflessione ci dice della difficoltà a costruire “grandi”
riforme in un rapporto diretto, coinvolgente, con chi sta
all'interno della scuola. E' una difficoltà che si è manifestata,
invariabilmente, nei diversi scenari politici.
Nella vicenda dei “comprensivi” ha pesato il dato
genetico, cioè il fatto che i
Comprensivi fossero nati per le emergenze territoriali, per le aree
di disagio marginale, nelle province più difficili dell'Italia
minore, degli Appennini e delle isole. E’
sembrato che questo punto di origine
fosse quasi un impedimento non più riscattabile, tale da rendere
l'Istituto Comprensivo un punto di appoggio troppo fragile per
costruire la nuova identità per l’intera scuola di base italiana.
Anche questa percezione conferma
l'identità ambivalente, incompiuta, del comprensivo. Il comprensivo, tra “vizi e virtù” Il
dibattito oscilla, ancora oggi, tra una lettura pessimista ed una
ottimista. L'approccio negativo tende ad affermare che
l'Istituto Comprensivo in questi anni è stato un semplice escamotage
organizzativo, senza un'anima pedagogica; cioè,
un puro matrimonio di interessi, dove l'incontro tra le diverse
culture e le diverse professionalità non si è mai “consumato”,
tale che oggi vive l'infelice situazione dei "separati in
casa". La tesi dei pessimisti è che nulla sia cambiato
rispetto a prima, e che quindi le “fatiche” della verticalità
non siano compensate dalle “gioie” della comprensività.
C'è però una lettura più positiva
e ottimistica della realtà, che vede nel “comprensivo” la culla
del curricolo verticale, del progetto in continuità, cioè il
contesto organizzativo meglio in grado di vincere le sfide educative
di oggi e di domani, nel garantire le migliori opportunità di
formazione a tutti i ragazzi in età evolutiva. A conferma di questa
seconda ipotesi vengono portati a referto
casi vissuti, esperienze osservate, motivazioni ritrovate,
professionalità in crescita, rapporti generosi con il territorio. L'Istituto
Comprensivo, infatti, può essere per gli adulti che operano in esso
un laboratorio di ricerca, cioè uno spazio dove farsi domande
importanti e cercare risposte pertinenti. Non c’è solo la
leggendaria scuola-città “Pestalozzi” di Firenze, da citare
come modello di scuola- laboratorio di ricerca (tra l’altro,
funzionante da oltre mezzo secolo), ma tanti istituti forse più
anonimi, ma altrettanto ricchi di
esperienze significative e di motivazioni. E’
vero, non possediamo dati probanti che ci confermino
che un ragazzo che esce dalla terza media di un Istituto Comprensivo
disponga di un livello di competenza più alto e ricco, se
paragonato a chi abbia invece frequentato tre strutture separate
(scuole dell’infanzia, elementari e medie, a diversa gestione,
frammentate nel territorio). Non abbiamo questi dati perchè
non disponiamo di un collaudato sistema
di valutazione e forse non condividiamo nemmeno gli oggetti o i
criteri da mettere al centro della valutazione. Inoltre, siamo al
settimo anno di esperienza della scuola
verticale, quindi nemmeno gli istituti della prima generazione sono
in grado di esibire un curricolo collaudato e complessivo, dai 3 ai
14 anni. Questo
dato ci ricorda che le riforme devono vivere almeno una generazione
per essere capite nei loro effetti. Non si può pensare che sia
sufficiente un respiro di due o tre anni per modificare o
trasformare a fondo la scuola.
Un merito si può riconoscere agli Istituti Comprensivi,
quello di aver creato situazioni di forte coinvolgimento e di forti
passioni attorno al “fare scuola” ed all’idea di “formazione
di base”. Basti citare, ad esempio, una delle ultime vicende, che
ha messo in moto oltre 500 istituti comprensivi sulla rete WEB, con
un documento “dal basso” in cui gli Istituti Comprensivi hanno
chiesto, di fronte alle dimenticanze di oggi,
di essere ascoltati sul futuro della scuola, di essere valorizzati
come realtà (non ideologica), di una scuola che è già cambiata e
che sta provando a confrontarsi con problemi complessi come la
continuità e la discontinuità, il curricolo verticale, la
professionalità. ecc
[2]
. Ci
sono oltre 150.000 insegnanti che lavorano negli Istituti
Comprensivi ed a loro va riconosciuto il diritto di parola nel
decidere, nel definire, nel partecipare ai disegni futuri della
nostra scuola. C’è
dunque un forte dinamismo nella vicenda degli Istituti Comprensivi,
che però non può far dimenticare alcuni punti interrogativi
connessi al nuovo modello organizzativo. E’ utile, allora,
ripartire da questa storia, giunta ormai al settimo anno. C’è
alle viste la possibile crisi del settimo anno, si potrebbe
obiettare, però è una crisi di crescita, perchè
l'altimetria dello sviluppo è del tutto esponenziale. Oggi siamo al
40% ma, appunto, come ci siamo arrivati? Le tre “generazioni” degli istituti comprensivi In
questo breve lasso di tempo si sono
succedute e si sono sovrapposte almeno tre generazioni di Istituti
Comprensivi. La prima generazione, iniziale, è stata quella
dell'emergenza, delle scuole di montagna, dei piccoli centri. In
genere sottovalutiamo questo dato, però la scelta della
verticalizzazione ha consentito la permanenza di
istituzioni scolastiche autonome, cioè di un insieme
integrato di scuole con un centro decisionale, di autogoverno. Non
ci riferiamo, in questo contesto, al
problema delle “piccole scuole” come punti di erogazione del
servizio educativo. L'Istituto
Comprensivo rappresenta un centro che pensa, che decide, dove ci
sono organi collegiali, la presidenza, il collegio, cioè
un punto di “snodo” di competenze, di elaborazione, di ricerca.
E’ una presenza istituzionale in una Italia
che spesso consideriamo “minore”, come ad esempio quella
dell'Appennino, però è un'Italia che vuole continuare a vivere e a
funzionare bene. Anzi, ci si potrebbe chiedere dove si colloca oggi
la qualità della vita. Forse è meglio vivere in una piccola
cittadina, con la sua storia, la sua identità, che non in certe
grigie, anonime, periferie delle grandi aree urbane. Alcuni
indicatori sulla “qualità della scuola” esprimono il meglio di
sé proprio in questa Italia
apparentemente minore. La
seconda generazione degli istituti è rappresentata da quelli che
sono nati sull’onda di un progetto pedagogico, della ricerca sul
curricolo verticale, della continuità. Dove il
dirigente scolastico è stato un convinto sostenitore della proposta.
Dove si sperimentava già un percorso imperniato sui laboratori,
sulla pratica di incontro tra le
professionalità, sui prestiti professionali, ecc. Si tratta di
istituti spesso collegati in reti di scambio. Si può citare il
gruppo di 22 istituti comprensivi che negli anni scorsi hanno
partecipato al progetto sperimentale coordinato dal Prof.
Piero Boscolo (L’istituto
comprensivo: laboratorio per l’innovazione)
[3]
. Oppure, la rete degli Istituti
Comprensivi delle zone di montagna o di quelli che operano all’interno
dei parchi naturali: quando il territorio è un'emergenza ambientale
o è un bene tutelato dal punto di vista naturalistico, può
diventare una risorsa su cui innestare anche progetti didattici.
Ancora, ci sono gruppi che lavorano sulle dimensioni curricolari, in
Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte e
Campania, aggregati attorno ad un progetto inizialmente sostenuto
dall'Amministrazione Scolastica Centrale
[4]
. Infine, sulla base delle risorse per i piani nazionali
di formazione, esistono in ogni regione scuole-polo, istituti centri
di documentazione, siti internet dedicati
[5]
. Sono
punti di forza del nostro sistema scolastico, spesso sottovalutati,
non riconosciuti, non valorizzati, quasi per un malinteso spirito autonomistico
dell'Amministrazione Centrale. Certamente il centro non deve più
governare minutamente i singoli aspetti della macchina scolastica,
ma deve capire come evolve il sistema,
dove sono i punti di eccellenza, come si possono valorizzare le “buone”
esperienze, come si può “monitorare” ciò che sta cambiando
nella scuola italiana. Questa è la funzione del centro, anche in
epoca di federalismo e di autonomia, in
mancanza del quale non saremmo più in grado di garantire la
conoscenza e la regolazione del nostro sistema pubblico nazionale di
istruzione. La terza generazione è quella degli istituti nati a valanga a seguito delle operazioni di dimensionamento delle unità scolastiche, in funzione del conferimento dell’autonomia (Dpr 233/1998). Oggi i “verticali” sono complessivamente 3200, ma con la prima e la seconda generazione si era arrivati solo a quota 1000, i rimanenti sono nati sotto il segno del dimensionamento. Nel
dimensionamento i protagonisti sono stati gli enti locali: il
Comune, la Provincia, la Regione, mentre gli “interni”, gli
addetti ai valori si sono chiamati fuori: "noi
non sapevamo nulla, abbiamo imparato dai giornali che eravamo
verticalizzati", oppure esprimono perplessità e
insoddisfazioni sul ruolo del dirigente (che spesso è un incaricato
o proviene da un diverso livello scolastico), sulle difficoltà
organizzative, sulla mancata conoscenza delle specificità dei tre
settori che compongono l’istituto. Uno dei punti di forza del “comprensivo” è infatti rappresentato dalla figura del dirigente scolastico, è la persona fisica e giuridica che impersona l’unitarietà (di progettazione e di sviluppo) dell’istituto. Il dimensionamento alla “prova” dell’autonomia In
generale, sono stati gli Enti locali i maggiori supporter della
diffusione degli istituti di terza generazione, spesso mobilitati da
intenzioni non sempre “nobili”, di carattere “campanilistico”,
dettati anche dal desiderio salvaguardare comunque
Direzioni Didattiche e Scuole Medie, raggiungendo con ogni mezzo
(lecito) l’agognata e necessaria soglia di 300 alunni (nelle zone
di montagna) o di 500 (negli altri casi) per far vivere un istituto. A
prima vista, sembrerebbe che il dimensionamento sia
avvenuto soprattutto per ragioni di natura contabile,
amministrativa e giuridica, quasi all’insaputa della scuola. Anzi,
parlando di Comprensivi, si afferma spesso che sarebbero stati
istituiti unicamente per far fronte ad un problema di risparmio
della spesa pubblica. E’ pur vero che in pochi anni si è
passati da 13.500 scuole, cioè
istituzioni scolastiche autonome, a poco più di 10.700 istituti.
Anzi, all'inizio degli anni '80 esistevano oltre 17.000 scuole “autonome”
in Italia. Questo dato va ricordato a tutti gli interlocutori
sociali (come gli esponenti di Confindustria)
che attribuiscono alla scuola una sindrome di autoreferenzialità,
che impedirebbe ai docenti di rimettersi in discussione e di
impegnarsi attivamente nei processi di riforma, come sarebbe
dimostrato dalle ripetute pronunce negative del Consiglio Nazionale
della Pubblica Istruzione nei confronti dei diversi progetti di
riforma o di sperimentazione presentate in questi anni. Il
processo di dimensionamento, con i suoi prezzi, con la razionalizzazione
delle sedi (basti pensare alla riorganizzazione anche “mentale”
di Collegi dei docenti “ristrutturati”, per passare da 17.000 a
10.700 istituti) ha però consentito di costituire oggi una rete
solida di circa 10.000 istituti. In Italia abbiamo oggi 8000 Comuni
e 10.000 scuole autonome; c'è quasi un parallelismo tra le due
entità. Anche
le scuole autonome hanno un loro fondamento istituzionale nella
Costituzione, con un riconoscimento di “autonomia funzionale”
all’interno del Titolo V del nuovo testo costituzionale (Legge n.
3 del 18-10-2001). Anche la “querelle” del numero medio degli
alunni per classe è un ulteriore
indicatore di sana amministrazione: se all'inizio del processo di
riforma, nel 1990, avevamo un numero medio di 15,5 bambini per
classe, oggi siamo saliti a 18,5, con uno standard di livello
europeo, non più ulteriormente comprimibile. Questo e altri dati
vanno ricordati a chi ha considerato la riforma della scuola
elementare come uno spreco di risorse. Analogamente
ci potremmo riferire alla rete delle scuole medie, che presentavano
una media di 260 alunni ad istituto, con 25-30 insegnanti per
istituto. Ma con Collegi di così poche unità non sarebbe
stato possibile realizzare l’autonomia: occorrono risorse
culturali, intellettuali, istituzionali per far fronte alle
responsabilità di progetto, al piano dell'azione formativa, all’interlocuzione
col territorio. Venti docenti non fanno “massa
critica”; sarebbero travolti facilmente dai gruppi di
pressione, dalle lobby, dai condizionamenti esterni. L’autonomia
deve invece “marcare” un
rafforzamento della capacità della scuola di
dotarsi di un proprio progetto educativo e di dialogare a testa alta
con gli enti locali, con il territorio, con i genitori, con il
mercato.
Il dimensionamento, che tanto ci ha fatto “soffrire”, ci
lascia una rete scolastica più significativa
e solida, caratterizzata dal 40 % di “comprensivi”. E’ una
geografia più adatta e pronta per l’autonomia. La scuola dell’autonomia
assume nuove responsabilità nei confronti della comunità e nel
rapporto con gli utenti; è un agente di sviluppo in un territorio,
anche e soprattutto nelle aree marginali. L’istituto comprensivo
si rivolge ai genitori, agli utenti, agli enti locali, assumendosi
la precisa responsabilità, senza alibi, di garantire la formazione
di un bambino dai 3 ai 14 anni, accompagnandolo nel passaggio da
un'istituzione educativa all'altra. Questa responsabilità dà il
senso dell'affidabilità dell’istituzione ed implica un’elevata
professionalità “interna”, tra gli operatori scolastici. Oggi
disponiamo di una rete di 10.700 scuole
autonome, con uno standard medio di circa 700 allievi e di circa
70-80 docenti. Sembra una dimensione equa, governabile. Quando
andiamo oltre, cioè quando superiamo i
1200-1300 allievi per scuola, ci dicono le ricerche internazionali,
tutto diventa più difficile; la dimensione impedisce di
costruire quell'ambiente di interazione ravvicinata dove il
dirigente si rapporta con lo staff, i colleghi; è visibile, si
assume responsabilità dirette. Il mancato reclutamento di una nuova
“leva” di dirigenti scolastici (come è
noto il concorso “ordinario” per dirigenti è al momento
sospeso) evoca una possibile riduzione dei posti di dirigente
scolastico e l’ulteriore ridimensionamento delle unità
scolastiche, che in questo modo diventerebbero delle gigantesche
unità territoriali con logiche puramente amministrative e
gestionali, dove un “super-manager” finirebbe con il perdere i
contatti con la dimensione “fine” e “qualitativa” tipica di
ogni istituzione scolastica. Il
dimensionamento, non solo nella scuola di base, ma anche nella compresenza
di più indirizzi nelle scuole superiori, determinerà il senso
della riforma. Un corretto dimensionamento è una delle condizioni
dell'autonomia, ed è uno spazio di decisione affidato all’autogoverno
delle comunità. E’ necessario che gli enti locali procedano in
questo campo con una forte capacità di ascolto
e di dialogo con la scuola, non considerando la domanda che proviene
dalla scuola sempre e comunque autoreferenziale
e difensiva. Gli indicatori di qualità
La storia degli istituti comprensivi è la storia di un
successo (non) annunciato. Ma quali sono gli indicatori di questa
inaspettata affidabilità ? Ci sono indicatori di carattere
professionale, cioè riferiti alla
professionalità di chi opera nell'istituto verticale; indicatori
che si legano all'innovazione dei processi organizzativi e alle
potenzialità dell'autonomia; un terzo grappolo di indicatori, che
esprime la qualità degli esiti formativi dei ragazzi. Questo è per
noi un punto debole, che ci trova disarmati di fronte alle indagini
internazionali che preannunciano
risultati “disastrosi” per i nostri ragazzi, senza che noi siamo
in grado di reagire o di presentare altri dati. L'Istituto
Comprensivo non è la nuova scuola di base, ipotizzata dalla legge
n. 30 del febbraio 2000. E' piuttosto un modello federativo tra
scuola dell'infanzia, elementari e media,
tre istituzioni che mantengono la loro identità, ma che danno vita
ad un ambiente professionale, un contesto organizzativo, dove si
determinano condizioni favorevoli per una professionalità di tipo
“riflessivo”. Al suo interno operano un Collegio dei Docenti
unitario (seppure con diverse formule organizzative), gruppi di
progettazione didattica, anche in verticale. C’è un unico
dirigente scolastico; ci sono organi collegiali
in comune. Sono tutti stimoli che invitano a ripensare in
profondità non solo le dinamiche organizzative, il POF
inteso come cornice o sommatoria di progetti, ma soprattutto il
curricolo, il senso da attribuire all’incontro con i saperi, alla
conoscenza, all'apprendimento nella prospettiva della formazione di
base dai 3 ai 14 anni. L’ipotesi è che l’istituto comprensivo
consenta di organizzare un ambiente di apprendimento
più adeguato alle caratteristiche via via
mutevoli degli allievi. Le
prime verifiche compiute nell’ambito del monitoraggio
sull'autonomia attestano un incremento della capacità della scuola
comprensiva di controllare meglio la propria progettazione formativa
e di tener conto in misura maggiore del contesto
territoriale, non solo nelle situazioni di emergenza. Nell’Istituto
Comprensivo c’è la possibilità di seguire e accompagnare la
crescita e lo sviluppo dei ragazzi con uno “sguardo lungo”, dai
3 ai 14 anni, che invita a far pesare di più le loro
caratteristiche nella progettazione. Non è solo questione di “continuità”,
ma soprattutto di “coerenza”, cioè
di continuità/discontinuità professionalmente regolata, attraverso
pratiche di valutazione formativa e di autovalutazione.
Spesso il tema della continuità è stato vissuto come disconoscimento delle identità. Anche le difficoltà emerse attorno all'idea di scuola di base (propugnata dalla Legge 30/2000) sono state dovute in buona parte alla percezione di una perdita di identità per la scuola media o per la scuola elementare.... o all’incerta costruzione di una nuova identità (non ben compresa o non condivisa). Invece, l’Istituto Comprensivo può essere visto come un ambiente che non deprime le identità, ma che le accoglie, le valorizza, rendendole coerenti. Prendiamo, ad esempio, la vocazione tipica della scuola elementare all'accompagnamento, alla relazione, all’incontro con i saperi, per fondare su basi sicure le prime competenze. Per questo serve un ambiente didattico disteso, plastico, molto vicino alla scuola dell'infanzia, senza fughe in avanti, senza precoci rigidità disciplinari. In un Istituto Comprensivo questo problema può essere “letto” con più attenzione e, se per caso, la scuola elementare nei primi anni del corso avesse anticipato il rapporto con le discipline, con una eccessiva frammentazione di presenze, nella logica diacronica dell’istituto, potremo distribuire e distendere con più gradualità l’incontro con le discipline, gli insegnanti, i quaderni e i libri. In
una prima elementare possono ben operare due figure tipiche di
docente: chi cura il quaderno a righe e chi quello a quadretti,
cioè i due grandi ambiti della
conoscenza, quello logico-linguistico-espressivo
e quello logico-critico-esplorativo
(come ci ricordano le migliori esperienze del tempo pieno e della
scuola dell'infanzia). Progressivamente potrebbero poi apparire
nuove figure, nuovi insegnamenti, nuove articolazioni organizzative
(es.: i laboratori), secondo un modello anche rassicurante nei
confronti dei genitori. In
un istituto verticale possiamo calibrare questo percorso, favorendo
una progressiva organizzazione disciplinare delle conoscenze, magari
anche con delle economie nella durata del ciclo scolastico di
base (7 o 8 anni ?), senza però fermarci a questo solo problema. La ricerca sul curricolo verticale L’errore
della legge 30/2000 è stato quello di lanciare un’ipotesi
sulla durata del ciclo di base (7 anni) senza essere capace di
argomentarla in modo convincente. Bisognava partire da una
riflessione sull'interpretazione delle discipline, sulla conoscenza,
sull’apprendimento, sulla conseguente organizzazione dell’ambiente
di apprendimento. Se
riteniamo che le discipline non siano solo repertori di conoscenze
statiche o di contenuti già raffinati, ma siano soprattutto
ambienti in cui sviluppare attività, modi di pensare, linguaggi,
allora dovremmo dislocare lungo tutto il percorso educativo, dalla
scuola dell'infanzia alla scuola media, questa progressiva
specificazione di compiti formativi.
Le discipline si incontrano anche
a 3 anni, in una buona scuola dell’infanzia, però la distanza tra
il bambino, il soggetto, il suo universo, la sua dimensione
senso-percettiva, le sue azioni concrete, e l'organizzazione adulta
dei saperi, via via cambia, con un
progressivo avvicinamento grazie alla mediazione degli insegnanti,
che consiste tutta nel far incontrare un bambino (un ragazzo, un
adolescente) con i saperi organizzati, senza perderne il valore
formativo. In
questa ottica le discipline diventano
contesti operativi e simbolici (campi di esperienza) ricchi di
lievito formativo. La progettazione diacronica, per esempio dai 3
anni ai 14 anni, o addirittura ai 18 anni si lega alle
caratteristiche cognitive dei ragazzi, ai loro cambiamenti, al
significato che le discipline potrebbero assumere appunto come “disciplinamento”
dell'intelligenza. Invece, tra gli insegnanti
della scuola dell’infanzia ed elementare, prevale quasi il timore
per le discipline, viste esclusivamente come vincolo e non come
risorsa della mente. In
un Istituto Comprensivo ci sono le condizioni per costruire una
diversa qualità degli apprendimenti, che significa
maggiore "coesione interna delle conoscenze",
organizzazione di quadri concettuali, connessione trasversale tra le
discipline. In “verticale” si può meglio osservare la
progressiva specializzazione delle
abilità procedurali dei metodi, del saper fare, dei linguaggi,
delle stesse abilità strumentali
[6]
. Si
può stimolare la crescita di una motivazione più selettiva e
orientata dei ragazzi, un’attitudine alla produzione e non solo alla
assimilazione. In un curricolo verticale è indispensabile
chiarire il rapporto tra conoscenze già possedute e nuove
conoscenze. E' importante costruire ambienti di apprendimento
motivanti, con un forte legame con la storia cognitiva di ogni
alunno. Sono tutti valori a portata di mano in un istituto
verticale, proprio perché ambiente ad alto tasso di comunicazione,
che implica un intenso dialogo interprofessionale. L'istituto amplia
le occasioni di scambio e di progettazione in comune: il
laboratorio, le classi aperte, i prestiti professionali, i gruppi
misti, i rapporti con il territorio. Si determina una forte
mobilità intellettuale, che aiuta a superare modelli didattici
rigidi e vecchie gerarchie culturali, ad esempio tra insegnanti dei
diversi livelli scolastici. Nell’istituto
verticale mettiamo al centro del progetto le discipline, nel loro
valore formativo, capace di sviluppare intelligenza e conoscenza. Le
“discipline” in quanto pongono dei
confini, offrono una intelaiatura alla conoscenza, danno forza all’apprendimento Ripensando alla riforma dei cicli: le occasioni mancate Alla
luce di questa breve cronistoria della scuola verticale, recente ma
già referenziata, quale potrà essere il futuro di questa
istituzione ? Come mai, se è tutto così
convincente, non ha “vinto” l’idea di scuola di base? Perchè
non si è mosso il “popolo dei” fax nell'estate 2001, quando fu
deciso di sospendere la Legge 30/2000? In fin dei conti, come va
interpretata la relazione “inversa” tra “successo” del
comprensivo e “insuccesso” della scuola di base
? L'Istituto
Comprensivo è un oggetto pedagogicamente assai interessante. Lo
stesso prof. Bertagna
[7]
lo ha ammesso nei suoi documenti, a conclusione del
lavoro dei 6 Saggi messi all'opera dal Ministro Moratti. In modo
esplicito gli esperti del Gruppo Ristretto di Lavoro hanno proposto
la "generalizzazione dell'istituto comprensivo", l’idea
di un "curricolo unitario", forme incisive di
integrazione tra scuola elementare e media, attraverso un
biennio di raccordo tra V° elementare e I° media
[8]
. Contemporaneamente il comprensivo è un oggetto
rischioso, perché rilancia dei messaggi in favore della formazione
di base, anche sulla scia di alcuni
modelli europei di scuola, ben conosciuti da N.Bottani,
autorevole membro del citato Gruppo di lavoro
[9]
. Viene
piuttosto da chiedersi come mai il Consiglio dei Ministri, nel
licenziare il testo definitivo del disegno di legge nel gennaio
2002, abbia azzerato quest'ipotesi che pure inizialmente era stata
sostenuta dagli esperti e dallo stesso Ministro. Nei conciliaboli di
maggioranza è stato annullato ogni minimo richiamo al raccordo tra
scuola elementare e scuola media, cioè
la ragion d’essere degli istituti comprensivi. Su questo tema
ritornano i 400 istituti comprensivi
[10]
che nella loro lettera aperta al Parlamento chiedono
conto di questa dimenticanza clamorosa e le motivazioni di una
simile “virata” concettuale. Non
si vuole qui fare una difesa d’ufficio dei precedenti modelli di
riforma. Nel 1996 e 1997 il rapporto tra istituti comprensivi e
riordino dei cicli non era visibile e
chiaro. Se mettiamo a confronto il ciclo
primario, sessennale, previsto nella prima versione del riordino, il
punto di snodo con il ciclo secondario era posto a 12 anni. In
quella fascia di età si ipotizzava un
cambiamento radicale nel modo di affrontare la conoscenza e
l'esperienza scolastica. Certo, era un'ipotesi molto affascinante,
ma poco capita, forse perché debolmente spiegata, anche se era il
modello più diffuso negli Stati Uniti, nel Giappone, in Gran
Bretagna, cioè nei grandi paesi
sviluppati. E’
stato difficile consolidare le motivazioni pedagogiche di questa
ipotesi, ma ancora di più prefigurare la ricollocazione
degli insegnanti tra i diversi cicli, per i quali si immaginava una
mobilità “dirompente” con un esubero di circa 50.000 docenti.
Certamente le riforme non si fanno partendo da questo punto di
osservazione, ma sono elementi determinanti per garantire il
successo di una riforma, mentre le relazioni tecniche, allegate di
diversi disegni di legge (da Berlinguer a Moratti)
sono state invariabilmente ispirate a logiche di risparmio. La soluzione del 6+6 (sei anni di ciclo primario seguito da sei anni di ciclo secondario) spostava il baricentro dell'innovazione verso il secondo ciclo. Il punto di forza del progetto era quello di offrire più tempo al ciclo secondario, distendendolo sui 6 anni, proprio per evitare che continuasse a respingere un terzo dei ragazzi. La sfida era avvicinare tutti gli italiani alla Scuola Superiore, come 40 anni prima si era posta la sfida di portare tutti gli italiani alla Scuola Media. Il
modello spostava il focus
dell'innovazione sull’espansione dell'obbligo, facendolo gravitare
decisamente sul secondo ciclo. Il nuovo
obbligo fino a 15 anni andava a caratterizzare un primo triennio
della Scuola Secondaria, orientante e fondativo di un livello alto
di cultura
[11]
. L’unico esperto che colse questo aspetto,
cioè a dire che dopo 40 anni si andava a fondare una nuova Scuola
Media per la cittadinanza del 2000, fu Aldo Visalberghi,
in un editoriale di “Repubblica”. Chi
operava nella scuola di base ha capito
poco questa idea. Inoltre, non ci si fidava del possibile
cambiamento della nuova scuola secondaria. Il ciclo primario di 6
anni stava molto stretto alla scuola elementare e media; lo stesso
“comprensivo” si sentiva compresso da un percorso di base che si
sarebbe concluso a 12 anni, lasciando
aperta la questione della scuola frequentata dai tredicenni e
quattordicenni. Ma non ci fu il tempo di
mettere alla prova la scuola superiore nel ruolo di estendere le
opportunità culturali per tutti i cittadini. Morì
presto la Scuola dell'orientamento, dai 12 ai 15 anni; dopo il primo
Documento Berlinguer (gennaio 1997), nel disegno di legge successivo
(giugno 1997) era già scomparsa e si parlava invece di un sessennio
“lungo” all’interno delle Superiori,
con indirizzi già ben definiti a partire dai 12 anni (ciò che ci
valse le “bacchettate” degli esperti dell’OCSE). Ma
nonostante questa ipotesi fu comunque
difficile convincere i colleghi delle Superiori. Vinsero Lucio Russo
e Giulio Ferroni, che nei loro “pamphlet”
[12]
sostennero che i nuovi cicli avrebbero impoverito la
base culturale della scuola superiore italiana. Nasce la scuola di base Se
sommiamo il “malpancismo" della
Scuola di Base ed il “benaltrismo”
della Scuola Superiore, ci rendiamo conto delle difficoltà del
dibattito parlamentare, da cui scaturì un inevitabile “cerchiobottismo”,
che tollerava l’istituto comprensivo. Esso era
troppo lungo con i suoi 8 anni (a fronte di un ciclo primario di 6
anni); sembrava dilapidare risorse di tempo preziose, senza
ingaggiare la sfida verso la formazione secondaria superiore. Si
disse di un modello (la scuola di base) troppo scandinavo; buono per
la Danimarca, ma non per l’Italia, non in grado di scuotere la
Scuola Media dal suo “torpore”. Ecco perchè in quegli anni non ci fu una scelta decisiva a favore dell'Istituto Comprensivo. Se si torna al 1998, alle norme sul dimensionamento (Dpr 233/1998) non si registra una preferenza o una priorità alla riorganizzazione “in verticale". Si lasciarono le singole comunità locali libere di decidere tra soluzioni orizzontali e verticali [13] . L'evoluzione
del dibattito parlamentare verso la Scuola di Base settennale era
certamente un atto di realismo. Il settennio era senz’altro più
vicino all'istituto Comprensivo. Mentre
il ciclo primario cambiava l'identità della formazione di base,
riconducendola alla matrice della scuola primaria inglese (la Primary
School) con una durata più breve,
la scuola di base settennale consentiva una rilettura dell'Istituto
Comprensivo, mettendo a confronto le due culture, “primaria” e
“secondaria”, facendo incontrare “continuità” e “discontinuità”
in un periodo sufficientemente lungo di 7 anni (ma anche di 8,
trattabili…). Il
Parlamento propose dunque qualcosa di non radicalmente diverso dall’esistente,
come sarebbe stato il ciclo primario e il ciclo secondario (1997),
ma la Scuola di Base, una struttura più “amica” della Scuola
Elementare e della Scuola Media (2000). C’era
da aspettarsi il “popolo dei fax” a difesa della
legge 30, sospesa nell’estate del 2001. Invece
non è scattata l’associazione tra scuola di base settennale e
istituto comprensivo, come ambiente in grado di integrare le “virtù”
della Scuola Elementare e della Scuola Media, senza però
confonderle. Serviva più tempo, anche per il piano di
attuazione. Le innovazioni richiedono tempo, la scuola vuole
stare “dentro” i processi, ha bisogno di capirli; servono almeno
3-4 anni per implementare le riforme (meglio se attraverso una
sperimentazione progressivamente generalizzata). L'onda anomala,
piuttosto che spaventare o vellicare la competizione dei genitori,
poteva essere affidata agli Istituti Comprensivi offrendo alcuni
anni di tempo per ricostruire il curricolo di base settennale. Operando
su classi intere e non su singoli allievi. Si doveva raccogliere di più dall’esperienza degli istituti comprensivi, anche per quanto riguarda l’articolazione interna del settennio; si doveva lanciare, anche a livello simbolico, un forte piano di sviluppo professionale legato alla Scuola di Base, da interpretare non come impoverimento di identità e di professionalità, ma come arricchimento nell’ottica di una funzione unica docente di alto profilo. Le prospettive future del comprensivo Per concludere, qual è oggi la possibile ricollocazione dell'Istituto Comprensivo nei nuovi scenari? Intanto
occorre ricordare la realtà estesa di questo modello organizzativo,
che comprende oltre il 40% delle nostre scuole. E’ una riforma che
è già avvenuta nel 40% delle situazioni, a prescindere dalle leggi
di ordinamento, quasi a ricordarci dei
processi innovativi sono messi in movimento dal basso piuttosto che
dall’alto. L’istituto
verticale configura un approccio più realistico alla scuola di
base, perchè tiene conto delle
identità (di scuola elementare e media) a cui siamo affezionati. Il
curricolo si articola progressivamente anche attraverso momenti di
incontro tra le diverse scuole. La scansione per bienni può
essere una scelta interessante, già sperimentata con soddisfazione
a Scuola e Città Pestalozzi di Firenze, può diventare una delle
ipotesi su cui far lavorare gli Istituti Comprensivi, recuperando
anche i materiali prodotti dalle commissioni di esperti
sul curricolo di base (De Mauro)
[14]
. Le Commissioni che hanno operato nel biennio 2002 e
2001 hanno prodotto numerosi materiali che oggi possono essere
ripresi in una ottica di continuità e di
nuove esplorazioni, proprio a partire dalle scuole e dal rapporto
con gli esperti delle associazioni disciplinari.
Si
tratta di uno spazio di ricerca molto importante, in cui la scuola
di tutti i giorni, la scuola reale che sta già cambiando, può
ritrovare le ragioni del proprio futuro, anche con un occhio di
riguardo alle nuove ipotesi elaborate dalla Commissione Bertagna. Ad
esempio, se si opta per una Scuola di
Base lunga, di 8 anni, non possiamo essere troppo scandinavi, cioè
abbiamo bisogno di prefigurare alcune scansioni interne, degli
elementi di differenziazione che ad un certo punto del percorso
potrebbero essere più marcati di quelli odierni. Per esempio,
l'ultimo biennio del ciclo di base potrebbe presentare già una sua
specifica articolazione. La
casa è comune, però si può agire sulla personalizzazione
dell'offerta formativa; si può cominciare ad intravedere un legame
tra questo biennio ed il percorso successivo, come si
immaginava nella primissima ipotesi del progetto di riordino
6+6, dove a 13-14 anni si costruiva un “ponte” di legame con
quello che avveniva dopo. Ma
oggi non è più tempo di ingegnerie.
L'approccio alle riforme non si può giocare sugli schemi
istituzionali, sul 6+6, sul 7+5, sull'8+4, ecc. Dobbiamo piuttosto
favorire il dinamismo culturale che c'è dietro ogni ordinamento,
anche quello vigente, rappresentato dalla realtà degli istituti
verticali. Per far “rivivere” il concetto di formazione di base,
occorre una moratoria nelle soluzioni ordinamentale. Lasciamo che
siano le scuole a sperimentare idee e modelli di formazione di base,
Occorre
uno spazio garantito (con risorse) in cui, con molta libertà, ci si
possa fare delle domande: cosa è la
formazione di base, di quanto tempo ha bisogno, quali sono i
migliori modelli curricolari e organizzativi di questo percorso ? Questo
è il compito degli Istituti Comprensivi: fare ri-appassionare
la gente al concetto di formazione di base, che sembra accantonata
nel Disegno di Legge n. 1306 del 3-4-2002.
L’istituto comprensivo mette concretamente alla prova l’idea di
formazione di base. E' lì la sua attualità, il suo essere scuola
“europea” e quindi titolata a costruire gli indirizzi della
scuola del futuro. Questo è il lascito, con le sue luci e le sue
ombre, che l'esperienza dei Comprensivi ci offre dopo questi primi 7
anni vissuti “pericolosamente”, ma onestamente e con “passione”.
Riferimenti bibliografici
-
C. Pontecorvo, Un
curricolo per la continuità educativa dai quattro agli otto anni,
La Nuova Italia, Firenze, 1995.
-
M. e P.Calidoni, Continuità educativa, La Scuola, Brescia, 1995.
-
F. Cambi (a cura di), L’arcipelago dei saperi. Progettazione curricolare
e percorsi didattici nella scuola dell’autonomia,
Le Monnier-IRRSAE Toscana, Firenze,
2000.
-
Ministero P.I., Gli istituti comprensivi, Studi e documenti degli Annali della P.I.,
n. 83, Le Monnier, Firenze, 1997.
-
P. Boscolo,
L’apprendimento oggi:
modelli, metafore, significati, in “Scuola e città”, n.
2, 1999.
-
G. Cerini-M. Spinosi, La
scuola in verticale, Tecnodid,
Napoli, 2000
-
R.Facchini
(a cura di), Istituti
comprensivi in Emilia-Romagna. Lavori
in corso…, Uff.Scol.Reg. ER,
Bologna, 2002. Riferimenti normativi
-
Legge 31/1/1994,
n. 97 (Disposizioni per le zone di montagna).
-
D.lvo
16/4/1994, n. 297 (Testo unico delle leggi sulla scuola).
-
OM
9/11/1994, n. 315 (Disposizioni per la razionalizzazione della rete
scolastica).
-
OM 4/8/1995, n. 267
(Organizzazione degli istituti comprensivi).
-
CM 10/8/1995, n. 282 (Formazione
dei dirigenti scolastici).
-
Legge 23/12/1996, n. 662 (Legge
finanziaria: generalizzazione degli
istituti comprensivi).
-
CM 28/7/1997, n. 454 (Linee di
azione e di orientamento per il funzionamento).
-
D.P.R.
18/6/1998, n. 233 (Criteri per il dimensionamento degli istituti
scolastici).
-
CM 7/8/1998, n. 352 (Documento di
orientamento per il funzionamento).
-
CM 30/9/1999, n. 227 (Progetto
di ricerca-azione).
-
CM
19/12/2000, n. 282 (Formazione in servizio e costituzione di reti di
documentazione).
[1]
Relazione
tenuta a Pisa nell’ambito del Convegno “Gli istituti
comprensivi: bilancio e prospettive” (“0-5-2002). In qualità di vicepresidente nazionale del CIDI (Centro di
Iniziativa Democratica degli Insegnanti) devo ricordare il
convegno nazionale del Cidi “Il
diritto di tutti alla cultura”, tenutosi a Pisa nei giorni
21-22-23 marzo 2002, proprio grazie alla generosa collaborazione
della Amministrazione provinciale di Pisa, di cui conosciamo ed
apprezziamo l’impegno culturale, pedagogico ed istituzionale in
favore dello sviluppo del sistema formativo, locale e nazionale.
[2]
Nel
corso del 2002 si è attivato un “movimento” dal basso che ha
aggregato alcune centinaia di istituti
comprensivi (ed i loro dirigenti) attorno ad un documento di
lavoro, intitolato “Noi, degli istituti comprensivi
raccomandiamo che…” che contiene osservazioni in merito alle
prospettive di riforma. Materiali, documenti, interventi sono poi
confluiti in siti di discussione:
-
www.edscuola.it/mlcomprensivi.html
-
www.didaweb.net (forum: “Comprensivi
che passione).
[3]
Ci riferiamo in primo luogo al progetto “L’istituto
comprensivo sperimentale: laboratorio per l’innovazione” che
ha coinvolto 23 istituti pilota. Gli esiti sono disponibili in un
dossier a stampa (MPI, Roma, 1999) e in un Cd-Roma
(cfr. CM 21/7/2000, n. 186).
[4]
Il progetto, istituito
con Decreto Dir.Gen. I°
grado del 9/11/1999, ha visto operare quattro poli di
ricerca sui curricoli disciplinari, in raccordo con reti di
istituti comprensivi operanti in Toscana (lingua italiana), Emilia-Romagna
(storia), Campania (scienze), Piemonte (matematica).
[5]
A
seguito della CM 19-12-2000, n. 282
sono stati avviate esperienze di documentazione in rete, anche
mediante la costituzione di appositi siti regionali curati da
scuole-polo. Tra i più attivi segnaliamo:
-
www.comprensivitoscana.it
curato dall’Istituto comprensivo di San Donnino Campi Bisenzio-FI
(che contiene aree di informazione,
documentazione, discussione ed una selezione dei progetti
regionali della Toscana).
-
www.scuoleverticali.it
curato dall’istituto comprensivo di Monterenzio-BO,
con aree informative e di documentazione relative
all’Emilia-Romagna.
[6]
P.Boscolo, L’apprendimento oggi:
modelli, metafore, significati, in “Scuola e città”, n.
2, 1999.
[7]
I materiali elaborati dal Gruppo Ristretto di Lavoro in previsione
degli Stati Generali della scuola
(dicembre 2001) sono stati pubblicati sugli Annali dell’Istruzione,
nn. 1-2 e 3-4 del 2001, editi da
Le Monnier. Una sintesi del
documento finale è contenuta nel fascicolo curato da G.Cerini-M.Spinosi,
Riforma della scuola. La nuova proposta,
Tecnodid, Notes 3, Napoli, 2002.
[8]
Dalla relazione di
sintesi della Commissione Bertagna:
Fonte: Annali dell’Istruzione, nn.
3-4, Le Monnier, Firenze, 2002.
[9]
N.Bottani, Insegnanti al timone,
Il Mulino, Bologna, 2002.
[10]
Il documento sottoscritto da oltre 400
istituti comprensivi è stato rilanciato da molte riviste
scolastiche. Citiamo “Tuttoscuola”,
“Insegnare”, “La vita scolastica”. Il testo
è reperibile in rete sul sito www.edscuola.it,
nella rubrica curata da G.Cerini
“Riforme on line”, con il titolo di “Verticale,
che passione !”.
[11]
Una ricostruzione del dibattito sulla riforma della scuola
proposta da L.Berlinguer, e dei
rapporti con l’attuale proposta Moratti è compiuta da P.Ferratini,
La riforma Berlinguer-Moratti,
in “Il Mulino”, n. 2, marzo-aprile 2002.
[12]
L.Russo, Segmenti e bastoncini, Feltrinelli,
Milano, 1998.
G.Ferroni, La scuola sospesa,
Einaudi, Torino, 1998.
[13]
Il quadro normativo che ha regolato lo sviluppo degli istituti comprensivi
è riportato in appendice, unitamente ai riferimenti
bibliografici..
[14]
I curricoli per la scuola di base sono presentati e commentati a
più voci nel volume curato da G.Cerini-F.Frabboni,
Il curricolo di base, Tecnodid,
Napoli, 2001. |
La pagina
- Educazione&Scuola©