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VERSO IL FEDERALISMO SCOLASTICO di Giancarlo Cerini
Certamente, oggi, non possiamo "non dirci federalisti": perché ci viene naturale associare il federalismo alle più alte espressioni della democrazia politica, ai principi di autogoverno e di responsabilità diffusa nella gestione della "cosa" pubblica, appunto della "res publica". Il federalismo, in questa ottica, rappresenta la concreta realizzazione di una "cittadinanza" compiuta, cioè possibilità di una consapevole partecipazione di tutti i cittadini ai processi decisionali sul futuro della propria "città" (nel senso ampio di "polis"). Viceversa: lo statalismo centralista, dopo le cattive prove date di sé nel secolo scorso, ci ricorda la presenza di un "grande fratello" illiberale e intrusivo, piuttosto che le ragioni della solidarietà e del welfare. Il problema è, però, un altro: se le concrete forme di federalismo verso le quali ci stiamo avviando nel nostro paese, con la riforma della Costituzione (Legge dello stato n. 3 del 18 ottobre 2001, a seguito del Referendum confermativo) ed in previsione di una più accentuata attribuzione di poteri legislativi alle Regioni (preannunciata nel disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 dicembre 2001) siano rispondenti a questi principi, se cioè rappresentino una espansione di qualità della democrazia, di migliore tutela dei diritti dei cittadini, di effettiva espansione di opportunità e di uguaglianza. E quindi se la riforma della Parte II della Costituzione (gli ordinamenti, le strutture organizzative, ecc.) sia in grado di meglio avvalorarne la Parte I (i "principi fondamentali" che non sono –al momento- oggetto di ripensamento, semmai in attesa di una reale attuazione). Nel settore di nostro interesse (l’istruzione e la formazione) la domanda non è oziosa, perché il diritto all’educazione è uno dei diritti fondamentali di cittadinanza, una delle condizioni per una effettiva partecipazione delle nuove generazioni alla vita sociale, civile e culturale del proprio paese. Il federalismo in campo scolastico è in grado di realizzare al massimo livello possibile questi diritti oppure esistono rischi di involuzione, di separazione, di riduzione di opportunità, perché troppo condizionate dai diversi profili regionali dei sistemi scolastici ? Ancora: le leggi "federaliste" che si stanno ora scrivendo, non sono forse ammantate di una certa ingenuità, cioè dalla convinzione che basti introdurre una qualche forma di federalismo nelle nostre istituzioni pubbliche in omaggio al principio di sussidiarietà (e quindi di decentramento, di autonomia, di responsabilità locale) per migliorarne la qualità e la resa ? Gli esempi che ci provengono da alcuni sistemi scolastici ad alto tasso di federalismo (pensiamo a quello statunitense) ci dovrebbero consigliare una maggiore prudenza. Proprio i sistemi più decentrati, negli ultimi anni hanno reintrodotto forme di governo "unitario" e "nazionale", per risalire la china di una qualità perduta. Le ricerche internazionali sulla qualità dell’istruzione mettono in evidenza come, al di là delle architetture di sistema, sia decisivo il tipo di investimento pubblico (emotivo, psicologico, culturale, finanziario) che un paese intende dedicare al proprio sistema formativo. La percentuale del Prodotto nazionale lordo investito sull’istruzione diventa una variabile che fa la differenza, al pari però dell’attenzione ai problemi dell’educazione "pubblica", del considerarla un fattore di inclusione (o di esclusione), di integrazione sociale e culturale (o di separazione), di promozione di opportunità (o di selezione precoce dei "talenti"). Questa opzione sui valori viene ancor prima del modello istituzionale prescelto, anzi può illuminare il "senso" delle scelte da compiere sul piano istituzionale.
Il paese delle tre Costituzioni Dopo una stasi durata alcuni anni (contrappuntata dall’esperienza improduttiva della Commissione Bicamerale) il processo di riforma costituzionale è stato vigorosamente accelerato nel corso del 2001, con l’approvazione in extremis di legislatura di un progetto di riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione (poi confermato dal Referundum e quindi diventato Legge Costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001). Più recentemente, nel Consiglio dei Ministri del 13 dicembre 2001, è stato dato il via libera ad un Disegno di Legge di ulteriore modifica della Costituzione appena riformata (meglio conosciuto come "devolution", in omaggio al "battage" in proposito intrapreso dal Ministro proponente Bossi). Entrambi i provvedimenti (il primo con una sua cogenza giuridica immediata, il secondo ancora una semplice proposta da sottoporre ad un complesso iter parlamentare) implicano notevoli cambiamenti in materia di "istruzione", fino a delineare un assetto istituzionale di stampo federale (cioè con competenze legislative in certi campi dell’istruzione attribuite in via esclusiva alle Regioni). Il cambiamento è così repentino che diventa perfino difficile cogliere le possibili implicazioni delle diverse versioni di Costituzione sulla vita della scuola. In effetti, siamo in presenza di tre Costituzioni (quella del 1948, quella modificata nel 2001, quella in via di ulteriore riforma), con evidenti sovrapposizioni e con difficoltà per gli stessi esperti di diritto costituzionale a dirimere eventuali conflitti e divergenze di interpretazioni. Ad esempio, la legge della Regione Lombardia sul "diritto allo studio" (alias "buono scuola") lede o meno l’attuale (o la futura ?) Carta costituzionale ? I due governi nazionali che si sono avvicendati nel corso del 2001 hanno agito in maniera diametralmente opposta, visto che mentre il primo aveva impugnato la legge di fronte alla Corte Costituzionale, il secondo ha abbandonato il precedente ricorso. Analogamente potremmo dire circa le prospettive di riforma dell’ordinamento della scuola: eventuali nuovi cicli scolastici (che implicano anche il contestuale ripensamento della "filiera" professionale) non possono essere pensati a prescindere dall’apporto del sistema delle Regioni e degli Enti locali (e non è un caso che, su questo punto, l’elaborazione della Commissione Bertagna –dicembre 2001- abbia suscitato una vivace reprimenda –di metodo- da parte dei "governatori" regionali). Si registra ormai una tendenza verso una maggiore responsabilità delle "periferie" nel campo dell’istruzione (chiamiamolo "federalismo" scolastico), ma resta aperto l’esito di questo movimento: avremo un federalismo competitivo, con le Regioni "forti" intenzionate ad erodere sempre maggiori poteri allo Stato centrale, oppure un federalismo cooperativo e solidale, ove cioè prevarranno le ragioni della collaborazione e della coesione tra i diversi territori ? Il fatto che entrambe le proposte di riforma costituzionale (una già legge dello Stato, l’altra ancora in embrione) prevedano un federalismo a geometria variabile, cioè con la possibilità di diversi stadi di avanzamento nell’acquisire autonome prerogative legislative, sembra –al momento- segnalare la "spinta" delle Regioni più forti (più pronte a praticare il federalismo) a sganciare i loro vagoni dal convoglio nazionale, perché giudicato troppo lento. Sta di fatto che l’equilibrio raggiunto con la legge 15 marzo 1997, n. 59 (non a caso definita del "federalismo amministrativo" o del "federalismo a Costituzione vigente"), con una tripartizione di funzioni tra lo Stato, le autonomie locali (Regioni ed enti locali) e le Istituzioni scolastiche autonome (un tridente cui ha fatto riferimento anche il Ministro Moratti nelle sue dichiarazioni programmatiche al Parlamento nell’estate 2001), sembra già messo in discussione prima ancora di essere concretamente attuato. Le nuove deleghe agli Enti locali, infatti, dovrebbero decorrere dal 1° settembre 2002. Anche la connessa riforma della amministrazione della [Pubblica] Istruzione, di cui al regolamento approvato con il Dpr 6 novembre 2000, n. 347, è di fatto messa in mora perché non si è in grado di darvi pratica attuazione dal 1° gennaio 2002. Per inciso, da tale data dovrebbe decorrere la nuova intelaiatura degli organi collegiali territoriali (consigli scolastici locali, consigli scolastici regionali, consiglio nazionale della pubblica istruzione), ma l’esecutivo ha richiesto una delega per una nuova ristesura del decreto (DLvo 233/1999). Come si può notare siamo di fronte ad un panorama normativo alquanto perturbato (per non dire "scoppiato"), che va ben al di là delle turbolenze dovute ad un fisiologico ricambio di legislatura. Sono certamente in discussione questioni di rilevanza costituzionale, ma la scuola è costretta a vivere un’ennesima stagione di incertezze, dove l’apparizione continua di nuovi orizzonti e di nuovi scenari, in mancanza di primi tangibili risultati, produce un effetto di straniamento e di disillusione rispetto alle tante riforme "preannunciate" e poi "disattese". Conviene, allora, ricostruire le fila del discorso, provando a documentare l’evoluzione del quadro normativo costituzionale e delle norme attuative per riscontrarne motivi di continuità e di discontinuità e prevederne quindi l’impatto sulla realtà scolastica.
La Costituzione del 1948 I padri costituenti dedicarono alla scuola ed alla formazione pochi ma essenziali enunciati. Innanzi tutto gli articoli 33 e 34, specificamente volti a delineare l’impianto culturale del sistema scolastico pubblico ("la scuola è aperta a tutti"), e con una forte insistenza sul ruolo della Repubblica nella promozione diretta della scolarizzazione e nella definizione delle regole (le "norme generali") per tutto il sistema formativo (pubblico e privato). Alcune prescrizioni appaiono certamente datate, come il richiamo ad "almeno otto anni" di scuola obbligatoria (ma come non ricordare le polemiche di "Lettera ad una professoressa" circa il mancato raggiungimento di questo pur elementare diritto costituzionale) o il severo riferimento ai "capaci e meritevoli" che sarebbe troppo facile contrapporre al gettonatissimo "diritto al successo formativo" di oggi. L’attuazione del dettato della Costituzione del 1948 è stato un punto d’onore per molte forze politiche e culturali, come ha più volte ricordato il ministro Tullio De Mauro (cfr. T.DM, Scuola secondo Costituzione, in "Insegnare", n. 9, 1990: la versione on line è stata curiosamente "cassata" dal sito del Ministero), sferzando le commissioni incaricate di redigere i nuovi curricoli. E resta un traguardo ancora da realizzare, soprattutto se si confronta la funzione svolta dalla nostra scuola con i primi 12 articoli della Costituzione (una piattaforma valoriale capace di dare un senso forte ad ogni politica scolastica democratica).
Ma la Costituzione contiene anche prescrizioni più dettagliate, come quelle relative alla istruzione professionale (con un’ampia delega alle Regioni) o al decentramento di funzioni e di competenze nella prospettiva di una piena valorizzazione delle autonomie locali. Anche in questi casi si sono dovuti registrare molti ritardi e qualche divergenza nell’interpretazione del testo costituzionale. Ad esempio, non sempre è stata condivisa la lettura "restrittiva" che ha affidato alle Regioni (con la legge 845/1978) solo alcuni frammenti della formazione professionale, quelli più fragili e più legati alle domande "adattive" del mercato del lavoro (e riservando l’istruzione professionale all’intervento dello Stato, con ingenuo scandalo –nelle ultime settimane- di Norberto Bottani, esperto europeo all’interno della Commissione Bertagna).
Decentramento ed autonomia sono state pienamente valorizzati solo con la legislazione degli anni ’90, a partire da Massimo Severo Giannini e Sabino Cassese, fino a Bassanini. Ma il travaglio per giungere al riconoscimento dell’autonomia funzionale alle istituzioni scolastiche è stato lungo e complesso e nemmeno oggi si può dire concluso. Mancano, infatti, i "pezzi" più pregiati del Regolamento dell’autonomia (come le regole per la costruzione del curricolo, l’organico funzionale, i compiti degli organi collegiali, ecc.). Il processo, però, si è avviato con decisione a partire dalla legge 15 marzo 1997, n. 59 che, non a caso, disegna un profilo complessivo dei nuovi rapporti tra le istituzioni pubbliche, improntandole ai principi di responsabilità, sussidiarietà, efficienza ed efficacia, trasparenza. In questo quadro si colloca e si capisce "meglio" il significato dell’autonomia scolastica, che non è autarchia, privatizzazione, liberismo, localismo, ma pieno riconoscimento di responsabilità ed iniziativa "locale", però in un quadro fortemente unitario e garantito dal ruolo dello Stato e delle sue articolazioni periferiche. Va, infatti, menzionata la scelta di non "regionalizzare" o "municipalizzare" la pubblica istruzione (scelta che si coglie nettamente all’interno della legge 59/97), ove lo spostamento dei "poteri" dell’amministrazione scolastica statale si dirige verso le singole unità scolastiche (questo sembra giustificare il conferimento della qualifica "dirigenziale pubblica" ai capi di istituto), piuttosto che verso gli enti locali (per essi è previsto semmai l’esercizio di funzioni "integrate", di comune interesse tra scuola ed enti locali).
E’ bene ricordare che la "devolution" alle Regioni compiuta con la legge 59/97 (e confermata nella normativa secondaria) si riferisce a funzioni di carattere legislativo solo in quanto già previste dall’art. 117 della Costituzione (es: istruzione professionale e assistenza scolastica), altrimenti si limita ad un più modesto potere di emanare norme attuative. Il decreto legislativo n. 112 del 31 marzo 1998 (esplicativo delle deleghe di cui alla legge 59/1997) ribadisce dunque il ruolo dello Stato in una serie di materie strategiche, individuate dall’art. 137, e concernenti:
Per tali materie non solo non è prevista alcuna "devolution" di carattere legislativo alle Regioni, ma neppure il conferimento di funzioni amministrative. Tali funzioni infatti (art. 138) si limitano alla programmazione dell’offerta formativa integrata, alla programmazione della rete scolastica, alla definizione degli "ambiti funzionali" al miglioramento dell’offerta formativa, ai contributi alle scuole non statali, alla formulazione del calendario scolastico. Altri compiti sono poi attribuiti alle province ed ai comuni (art. 139) in merito all’arricchimento ed alla qualificazione dell’offerta formativa (che esclude, però, un intervento diretto in materia di curricoli). Anche la definizione di "formazione professionale", contenuta nell’art. 141 dello stesso decreto, è coerente con una pluridecennale interpretazione normativa che riassorbe e delimita la dicitura di "istruzione artigiana e professionale" contenuta originariamente nella Costituzione. La formazione professionale si riferisce al "complesso degli interventi volti al primo inserimento, compresa la formazione tecnico professionale superiore, al perfezionamento, alla riqualificazione e all’orientamento professionali, ossia con una valenza prevalentemente operativa, per qualsiasi attività di lavoro e per qualsiasi finalità, compresa la formazione impartita dagli istituti professionali, (nel cui ambito non funzionano corsi di studio di durata quinquennale per il conseguimento del diploma di istruzione secondaria superiore), la formazione continua, permanente e ricorrente e quella conseguente a riconversione di attività produttive".
La Costituzione del 2001 Quando è ancora tutta da interpretare la materia delegata alle Regioni dalle leggi e dai decreti "Bassanini", siamo già alle prese con l’attuazione della nuova Costituzione dell’ottobre 2001. Materia assai intricata, tanto è vero che si è auspicata una "cabina di regia" per definire le più importanti regole del gioco nei nuovi rapporti tra Stato centrale e Regioni (si sente, anche in questo caso, la mancanza di un effettivo potere "federale", cioè una istanza nazionale di composizione delle possibili divergenze di interessi e di sintesi unitaria delle possibili spinte centrifughe). In molti hanno criticato l’assenza, nel disegno di riforma costituzionale, di un "Senato delle Regioni" che, a prima vista, potrebbe apparire un passo più lungo della gamba "federalista" che siamo disposti a concederci, ma che –a ben pensarci- rappresenterebbe l’unico antitodo nei confronti di un eventuale "federalismo corsaro" praticato dalle Regioni più forti. Ma vediamo tecnicamente i contenuti del nuovo dispositivo costituzionale. Le competenze in materia di istruzione, tradizionalmente attribuite allo Stato (anche nella riforma Bassanini), vengono radicalmente ridimensionate alle sole norme generali (quali poi ?), mentre la materia "istruzione" entra nella sfera della legislazione "concorrente" di ogni Regione. Il termine giuridico non evoca però l’idea di una concertazione tra Stato e Regioni (una sorta di "tavolo" nazionale per condividere le decisioni di interesse generale). La nuova Costituzione è assai esplicita: la legislazione "concorrente" implica, comunque, un diritto di iniziativa della Regione, che non potrà però invadere la sfera dei "principi generali" (riservati allo Stato) e dovrà salvaguardare l’autonomia delle singole istituzioni scolastiche. Quest’ultimo passaggio è di estremo interesse perché "costituzionalizza" le autonomie scolastiche, dando ad esse –seppur indirettamente- una copertura costituzionale. Anche questo punto ci ricorda dell’importanza della riforma degli organi collegiali della scuola (organi di partecipazione democratica ad una istituzione cui si riconosce una esplicita funzione pubblica e non semplici organi di consulenza cooptati dal "dirigente scolastico" o privatistici "consigli di amministrazione").
A parte l’esigenza di definire ciò che rientra tra i principi o le norme generali (di spettanza della legislazione statale) e ciò che può essere invece attribuito con certezza alla legislazione regionale, va segnalato il dispositivo che consente di rafforzare i poteri delle singole Regioni (anche in modo differenziato) attribuendo direttamente ad esse funzioni oggi esclusive dello Stato (e quindi anche le "norme generali" sull’istruzione). Questa "devolution" caso per caso (cioè regione per regione), deve essere convalidata con legge dello Stato e sarà comunque da esercitare con estrema cautela, perché una sua ingenua estensione potrebbe portare ad una totale differenziazione dei sistemi scolastici delle 20 regioni italiane. Ben vengano, dunque, le prescrizioni costituzionali di interventi compensativi ed aggiuntivi per salvaguardare i diritti fondamentali delle persone e rimuovere eventuali squilibri, anche mediante iniziative surrogatorie e sostitutive delle eventuali inadempienze locali. I nuovi meccanismi fanno però presagire una quantità notevole di negoziazioni (e di conflitti) tra Stato nazionale e Regioni sulla portata dei rispettivi poteri. Ed anche la Corte Costituzionale (federalizzata … ?) avrà il suo da fare.
La Costituzione che verrà Passiamo ora ad un primo esame delle novità che si vorrebbero ulteriormente introdurre nell’equilibrio dei poteri costituzionali, con la recente proposta di devolution approvata dal Consiglio dei Ministri il 13 dicembre 2001. Nel testo ipotizzato scompare l’elenco delle materie di pertinenza esclusiva dello Stato (ricordiamo che tra di esse erano previste le "norme generali sull’istruzione") ed i poteri legislativi regionali sull’istruzione da "concorrenti" diventano "esclusivi" (senza bisogno, dunque, di una concertazione con la legislazione statuale, anche se nei limiti dei "principi fondamentali" da essa definiti). La terminologia utilizzata nel testo del disegno di legge si presta, però, a qualche ulteriore osservazione. I proponenti sembrano aver ridimensionato la spinta verso una completa "regionalizzazione" dell’iniziativa legislativa in materia scolastica, riconducendola nell’alveo della "organizzazione scolastica e gestione degli istituti scolastici" (dicitura che potrebbe ricondurre ad aspetti organizzativi e gestionali della vita della scuola, piuttosto che ad elementi di ordinamento). Resta però l’incognita della "gestione" del personale della scuola. Alcuni esperti –citiamo tra gli altri Luisa Ribolzi- sollecitano un passaggio di tali competenze alle Regioni. Anche la derubricazione dell’intervento regionale sui programmi scolastici (ci mancherebbe…!) alla sola quota relativa agli aspetti "locali" è una conferma della necessaria prudenza che tutti dovranno assumere in questo campo: potrebbe entrare in crisi il concetto stesso di identità culturale nazionale. La quota "locale" del curricolo (che è già prevista nel Regolamento dell’autonomia) sarà però tutta da negoziare: se si limita al 5 %, al 10 %, al 15 % dell’intero curricolo saremmo di fronte ad una interpretazione "temperata" del federalismo scolastico, qualora tale quota si espandesse le prospettive sarebbero assai diverse.
Le garanzie necessarie per evitare lo "spappolamento" del sistema scolastico L’opinione pubblica, in materia di federalismo scolastico, è apparsa assai cauta. La stragrande maggioranza degli italiani ritiene che l’istruzione debba continuare ad avere una sua caratterizzazione unitaria e nazionale. E’ diffusa la convinzione che i diritti fondamentali dei cittadini non si possano territorializzare, cioè farli discendere dall’abitare in una certa Regione piuttosto che in un’altra. L’istruzione pubblica fonda il senso di appartenenza, costruisce identità e legami, consolida le radici e la comunità, ma le deve proiettare in un contesto più ampio che sappia guardare all’intero paese e, semmai, all’Europa. E’ coessenziale ai principi educativi di una società democratica la presenza e la effettiva disponibilità – tramite la "scuola aperta a tutti"- di un progetto culturale unitario, ampio e pluralistico. Non si vuole qui difendere una vecchia idea di stato borbonico (ma forse non c’è più nessun "Stato", nessuna "Repubblica", di cui essere amici ?), quanto piuttosto esigere che il "bene costituzionale" dell’istruzione per tutti sia rigorosamente presidiato e tutelato. Una legislazione "esclusiva" di ogni singola Regione in materia di istruzione (che diventa possibile, in base ai meccanismi che abbiamo analizzato essere contemplati nella II^ e nella ipotetica III^ Costituzione) mette a repentaglio l’unitarietà dei compiti attribuiti dalla Costituzione (parte I^) alla scuola pubblica del nostro paese. Se non esisterà più un Bilancio nazionale della Pubblica Istruzione (con possibilità di meccanismi compensativi tra i diversi territori), se la gestione del personale della scuola dovesse essere "regionalizzata" (al pari delle Guardie Forestali), se i curricoli dovessero essere validati da una autorità locale piuttosto che rispondere a principi di pluralismo scientifico e culturale, se… Insomma, sono troppi i "se" che si affollano all’orizzonte del federalismo scolastico: meglio diradare fin da subito le possibili nebbie. Una esigenza si impone: quando si andranno a definire le nuove regole della "devolution" sarà bene esplicitare con molta precisione cosa si intende per "norme generali sull’istruzione" (che restano di competenza esclusiva dello Stato) e per "principi generali" (entro il cui ambito si dovrà esplicare il potere legislativo riconosciuto alle singole Regioni in campo scolastico). Sarebbe opportuno, in questa prospettiva "garantista", elencare nel testo della nuova Costituzione i contenuti di tali norme generali, tra i quali non potranno mancare: gli ordinamenti della scuola, gli standard di apprendimento e le forme di verifica, la condizione professionale dei docenti (formazione, reclutamento, stato giuridico, valutazione), le regole di partecipazione democratica. Questa "riserva" potrà garantire tutti i soggetti in gioco contro gli effetti perversi di un malinteso federalismo. La legislazione "concorrente" in materia di istruzione non dovrebbe, infatti, limitarsi a cambiare l’azionista di riferimento del sistema scuola (mettendo la Regione al posto delle Stato): avremmo un semplice spostamento di competenze o di poteri sulla scuola, quando invece è da auspicare una crescita di responsabilità e di impegni verso la scuola. L’enfasi sul "federalismo" (e quindi sui nuovi poteri di Regioni ed Enti locali) non può far dimenticare il ruolo delle scuole autonome e dello Stato. Alle scuole compete la responsabilità dell’iniziativa curricolare, organizzativa e didattica; alle Regioni e agli enti locali l’impegno "concorrente" per favorire lo sviluppo della scuola (una "concorrenza" per la qualità, per andare oltre gli standard nazionali); allo Stato –infine- il compito di salvaguardare i livelli essenziali, le pari opportunità, i valori comuni (e quindi definire indirizzi e controllare, come bene precisò Sabino Cassese nella Conferenza Nazionale della scuola del 1990). A questa misura di saggezza sono attesi i nuovi "costituenti", si spera non in veste di "apprendisti stregoni". |
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