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C’è la persona, ma torna il curricolo Il nuovo testo delle Indicazioni non nasconde i suoi riferimenti culturali e li evidenzia soprattutto nella premessa “cultura, scuola, persona”. Il titolo, a dire il vero, appare un po’ datato ed eccessivamente aulico. Meglio declinarlo al plurale in “culture, scuole, persone”: sarebbe più chiara la laicità dell’impianto ed il pluralismo della cornice che deve stare alla base delle nuove Indicazioni. Ritroviamo il termine “persona”, che aveva fatto ampio sfoggio anche nel testo delle precedenti Indicazioni del 2004. Anzi, allora, dalla radice di “persona” erano poi derivati alcuni principi pedagogici assai pervasivi, come quello di “personalizzazione” e, ancor di più, alcuni dispositivi al limite della prescrittività come i “piani di studio personalizzati”. La centralità della persona sembra un valore persistente dei programmi degli ultimi anni (ricordiamo che anche uno dei paragrafi introduttivi dei curricoli De Mauro era intitolato “la centralità della persona che apprende”: ma già questa postilla era significativa). Ci sono nobili tradizioni filosofiche, oltre che pedagogiche dietro questi concetti (riferite al personalismo cristiano, all’attivismo, ad altri apporti della ricerca), ma la loro traduzione nell’operatività quotidiana sembra annebbiarsi in un certo “naturalismo” della didattica. Non vogliamo qui ripercorre la diatriba tra personalizzazione e individualizzazione. Le differenze ci sono, ma non sono dovute alla diversa radice etimologica dei due termini di “persona” e “individuo” (da una parte la persona, con i suoi valori spirituali ed extramondani, dall’altra l’individuo, con la materialità delle sue condizioni sociali ed esistenziali). Con il principio di personalizzazione s’intende porre l’attenzione sulle caratteristiche originarie di un soggetto, sulle sue qualità, per poterle coltivare al massimo livello (appunto, in modo personalizzato). Con individualizzazione, invece, si sottolinea la diversità dei percorsi e degli itinerari predisposti dalla scuola per poter perseguire una sostanziale equivalenza dei risultati tra tutti gli allievi. La ricerca di un punto di equilibrio è senz’altro auspicabile. Come non essere d’accordo sull’idea di un progetto educativo a misura di allievo, che tenga conto delle soggettività, delle aspettative, delle intelligenze, delle attitudini di ciascuno. Il problema è come intervenire nei confronti delle differenze, per non trasformarle in disuguaglianze. Se si costruiscono tanti “piani di studio personalizzati” il rischio è quello di separare precocemente gli itinerari degli allievi, di favorire esiti diversi, di perdere il valore della relazione, del confronto, dell’aiuto reciproco, del clima positivo che si costruisce in ogni classe. Sappiamo che l’istruzione a scuola è un’impresa sociale per definizione. Ecco, nella scelta di denominare il nuovo testo “Indicazioni per il curricolo” (e non per i piani personalizzati) si torna a mettere al centro del discorso educativo il progetto della scuola, il valore aggiunto apportato dall’ambiente di apprendimento, dall’intervento intenzionale predisposto con professionalità dagli insegnanti. Le persone incontrano la cultura, la conoscenza, i saperi, grazie appunto ad un luogo chiamato “scuola”. Non è poco, di fronte alle sirene della descolarizzazione. Così, fa piacere ritrovare nel nuovo testo delle Indicazioni il termine curricolo (che possiamo declinare come curricolo di scuola), interpretato come “sintesi progettuale ed operativa delle condizioni pedagogiche, organizzative e didattiche che consentono di realizzare un insegnamento efficace ed adeguato agli alunni, nel rispetto degli indirizzi curricolari di carattere nazionale”. Questo “ritorno” propone un corretto equilibrio tra le garanzie di carattere nazionale (le finalità ed i traguardi di apprendimento validi per tutti) e l’autonomia e la responsabilità delle singole istituzioni scolastiche sul piano didattico ed organizzativo.
Una seconda novità: il curricolo verticale La cifra interpretativa più netta delle nuove Indicazioni riguarda la scelta della verticalità dell’impianto curricolare, che si distende in progressione dai 3 ai 14 anni. L’asse della continuità è particolarmente forte nel rapporto stretto tra scuola primaria e secondaria di primo grado, intrecciate dalla comune appartenenza al “primo ciclo” di istruzione. Siamo sulla scia della legge 53/2003, che per prima aveva varato l’idea di un ciclo primario (dopo l’insuccesso della scuola di base settennale proposta da Berlinguer), ma in questo caso il principio viene corroborato da una comune struttura compositiva per cui, sia la premessa “pedagogica” del primo ciclo, sia le singole discipline, si presentano con un impianto unitario. In particolare, i traguardi e gli obiettivi disciplinari sono indicati in sequenza ed in progressione (alla fine della scuola dell’infanzia, della scuola elementare e della scuola media) quasi a favorire una lettura in continuità degli assetti curricolari. La stessa morfologia interna di ogni disciplina, in genere viene mantenuta omogenea in entrambi i livelli scolastici. Così, ad esempio, se per “italiano” nella scuola primaria le dimensioni della disciplina fanno riferimento alle abilità di base: ascoltare, parlare, leggere, scrivere, riflettere sulla lingua, analogamente ci si muove per la scuola media; e così via per storia, geografia, lingua straniera, matematica e quasi tutte le discipline (con alcune vistose eccezioni). C’è quindi un movimento progressivo verso i saperi organizzati nelle discipline, ove a cambiare non è la consistenza dei sistemi simbolico-culturali sottesi ad ogni disciplina (o ad ogni campo di esperienza, come nella scuola dell’infanzia), ma la natura della mediazione didattica, il riferimento ad una comune base esperienziale, percettiva, motoria, che nella prospettiva verticale si evolve fino alle prime forme di rappresentazione, simbolizzazione, padronanza di codici formali. Se nella scuola “primaria” si conosce e apprende a partire dalle “prime” forme di rappresentazione dell’esperienza, nella scuola “secondaria” si conosce muovendosi con sempre maggiore sicurezza tra i diversi codici e le diverse forme di rappresentazione formale. Continuità, dunque, si deve coniugare con discontinuità. Con il vantaggio, con un primo ciclo unitario, di disporre di una cabina di regia comune (il curricolo verticale), a maggior ragione negli istituti comprensivi. L’idea di generalizzare gli istituti comprensivi, che riguardano ormai il 50% delle scuole di base del nostro paese, esce dunque rafforzata dall’impostazione delle nuove Indicazioni per il curricolo. Peccato, invece, che resti del tutto aperto e problematico il raccordo tra scuola di base e nuovo biennio della scuola secondaria superiore. I percorsi per l’elaborazione dei programmi 3-14 anni hanno proceduto separatamente rispetto all’elaborazione dei documenti per il nuovo segmento obbligatorio (14-16 anni), tant’è che si notano sfumature culturali diverse (pensiamo ad esempio, al diverso concetto di competenze o di traguardi o di assi/aree disciplinari ed al diverso impatto che essi avranno nella pratica scolastica). Resta, comunque, un’identità ritrovata e rinnovata della scuola di base, resa ben visibile dal “manufatto” unico (il libretto con le Indicazioni) con cui sono stati consegnati ai docenti i nuovi documenti. Trapela un’idea di continuità, di formazione di base, di curricolo progressivo, che ben esprime i nuovi orientamenti espressi dalla compagine ministeriale. Ci sembrano queste le due novità più sostanziali che ci è dato rintracciare nel testo delle nuove Indicazioni, come elementi di discontinuità visibile con le precedenti Indicazioni del 2004. Ma sono novità di per sé sufficienti a motivare il repentino accantonamento del testo varato dal precedente Governo?
Perché dovrebbero cambiare i programmi? Non sembra corretto motivare il “cambio” di programmi e contenuti della scuola pubblica solo alla luce del “ricambio” di maggioranze o di ministri, o al momentaneo prevalere di una impostazione pedagogica. La scuola di tutti non può dipendere dalla fragile architettura del bipolarismo primordiale che sembra caratterizzare il nostro paese. Qui si registra tutta la debolezza del nostro sistema istituzionale (e della nostra cultura politica) che non riesce a trovare uno spazio condiviso per la costruzione di una comune visione della scuola pubblica (repubblicana). Tanto è vero che anche oggi, dopo il frenetico susseguirsi di riforme dei curricoli (De Mauro 2001, Moratti 2004, Fioroni 2007), anche con il viatico parlamentare (Berlinguer, 2000 e Moratti, 2003), molti si stanno chiedendo quale sia la consistenza di questa nuova proposta, se la sua durata sarà pari a quella della maggioranza che esprime il ministro pro-tempore. Proviamo ad uscire da questo schema, ricordando da un lato il metodo prescelto dal Ministro, che non impone un testo definitivo di curricoli ad una scuola disinformata ed ostile (come era avvenuto nel 2004), ma propone un periodo di assestamento di due anni entro i quali l’ipotesi di curricolo nazionale viene sottoposta ad una verifica pubblica da parte della scuola (una sorta di validazione sociale, di prova di fattibilità). Si apre dunque un ciclo intitolato alla rivedibilità del curricolo, al suo progressivo adattamento ai mutamenti sociali e culturali, all’impatto con la realtà della scuola, al riscontro (perché no?) con gli esiti rilevati degli apprendimenti. Certo, ci sarà un intreccio anche con le dinamiche della politica, ma meno assillante rispetto al passato. Questa è la prima garanzia di “sostenibilità” e “durata” nel tempo della nuova proposta. La seconda risiede nel tentativo compiuto dagli estensori del testo (una settantina di esperti, uomini di scuola, rappresentanti delle associazioni disciplinari, ecc. anche se la redazione finale si deve ad un gruppo assai ristretto della commissione “madre”, in presa diretta con il Ministro) di intercettare domande vere della società verso la scuola, di porre questioni reali che interpellano il senso dell’educazione in questo scorcio di millennio, di capire come tradurre queste “urgenze” in una idea credibile di scuola e di curricolo. O, ancora, di come leggere le caratteristiche dei ragazzi di oggi, le modalità del loro apprendere, le influenze delle nuove tecnologie (della pervasività del mondo delle immagini e dei suoni) sul loro modo di vedere, pensare e capire. Se l’analisi di questi fenomeni si avvicinasse alla realtà delle cose, certamente la piattaforma culturale e pedagogica della nuova scuola apparirebbe più fondata, più comprensiva e condivisibile, certamente meno ideologicamente connotata, più asettica, più nazional-popolare, quasi ispirata ad un comune senso dell’educazione e dell’istruzione. In questa ottica ci permettiamo di leggere l’invettiva “tabelline e grammatica” con la quale il Ministro ha presentato all’opinione pubblica i nuovi contenuti dei programmi nazionali. E’ un approccio certamente riduttivo (c’è ben altro nei programmi, ad esempio, il concetto di “riflessione sulla lingua”), che però ha colpito l’immaginario “popolare”, quasi come un ripristino di serietà degli studi, di ritorno delle “cose che contano” rispetto alle troppe divagazioni degli ultimi anni. Questa domanda, intercettata “ruvidamente” dal ministro, va dunque capita, filtrata, reinterpretata. Giustifica certamente la sobrietà pedagogica del testo (che non dedica troppe pagine agli affreschi di carattere pedagogico-letterario) e si concentra sull’individuazione precisa e puntigliosa di traguardi, obiettivi, contenuti, quasi a voler rassicurare una società disorientata e disillusa sulla capacità della sua scuola di far fronte alle sfide dei nuovi tempi. Ma, appunto, quali sono queste sfide?
Interpretare le domande della società La società cambia in fretta. La dimensione globale si intreccia con quella locale, fin sulle porte delle nostre aule, sempre più colorate. I problemi epocali (gli squilibri, l’energia, l’inquinamento, la guerra e la pace, la democrazia ed i fondamentalismi) sembrano soverchiare il nostro futuro. Anzi, non c’è più il futuro di una volta. Come potranno immaginare il futuro i nostri ragazzi, in una società così volatile? Disegniamola, con pochi tratti, cercando di intravedere le conseguenze per la scuola. Sarà una società del rischio, con la necessità di gestire le incertezze, gli squilibri, rafforzando gli elementi di coesione, i legami di comunità e di fiducia. Responsabilità individuale e organizzazione sociale dovranno incontrarsi in un tessuto civile più robusto dell’attuale. Occorrerà promuovere nuove forme di partecipazione, solidarietà, reti sociali, cooperazione. La scuola deve riscoprire una indispensabile funzione di “luogo da vivere”, una comunità ove praticare prime forme di cittadinanza responsabile (ad esempio, gestire l’ambiente scolastico, condividere l’uso delle strutture e delle risorse, ecc.). Sarà pur sempre una società basata sul lavoro degli uomini e delle donne, ma il lavoro non sarà solo fonte di guadagno o di sostentamento, ma di identità, di appartenenza, di cittadinanza. I requisiti per partecipare ai lavori “intelligenti” saranno sempre più elevati; poi ci sono i lavori “altri” (e per quelli?). Non basterà la precoce specializzazione verso lavori che cambieranno in modo inimmaginabile, dove le tecnologie faranno tutt’uno con il fattore umano. Serve un’attitudine “generalista” a leggere, interpretare, governare il cambiamento imposto dalla globalizzazione e dalla tecnologia. E’ già la società della conoscenza. L’intelligenza, la curiosità, il desiderio e la capacità di imparare rappresentano risorse indispensabile per far fronte al caleidoscopio comunicativo e mediatico, al flusso continuo di messaggi, stimoli, informazioni. Come un individuo riuscirà a collocarsi nello spazio culturale –senza esserne sommerso - quello è lo spazio della sua libertà personale. Occorre essere ben consapevoli delle “trappole” della società della conoscenza (o dell’apprendimento pervasivo), che apparentemente mette alla portata di tutti conoscenze, informazioni, beni immateriali, quasi senza bisogno di un tirocinio. E’ vero, ormai l’80% delle conoscenze un ragazzino le apprende in contesti esterni alla scuola, in modo informale, ma possiamo pensare che il 20% che resta alla scuola abbia un valore strategico, fondativo: dia gli strumenti per mettere ordine nella caoticità dei messaggi, per costruire gerarchie, mappe, reti di comprensione, per collegare quanto già si sa con il “nuovo” che si incontra. Per connettere diversi tipi di informazioni e di saperi. Si privilegia, dunque, una “testa ben fatta” piuttosto che una testa ben piena. Basterebbe citare Montaigne, non Morin. Ma come spiegarlo al sistema che produce i libri di testo, agli autori, agli editori, agli stessi compratori: gli insegnanti! Vogliamo che sia una società democratica, dove sia possibile esprimere opinioni, partecipare alle decisioni, saper resistere alle tentazioni del fondamentalismo e degli estremismi. Sarà una società laica, non nel contrapporsi ad un credo religioso, ma nel senso di rendere legittimi diversi punti di vista anche in materia religiosa. Occorre una piccola dose (almeno) di relativismo, per rendere possibile la “relazione” tra diversi. La scuola è uno spazio “pubblico” (anche il nostro Ministero è tornato pubblico) perché pubblicamente si costruiscono le regole della convivenza. Dunque, la scuola come “anima laica” della società. Ma i “mattoni” di questa costruzione non sono le ideologie (fossero pure quelle “buoniste” dell’accoglienza), bensì i materiali culturali che a scuola affiorano (che sono portati dai diversi contesti di provenienza), vengono scoperti, accettati, ma riorganizzati, filtrati criticamente (ecco il relativismo), restituiti attraverso l’istruzione. Ben venga, allora, anche la “grammatica”, nel senso di “pane e grammatica” dell’obbligo scolastico di fine ottocento: solo l’acquisizione dell’alfabeto, dei codici, dei saperi emancipa, rende liberi, fa guadagnare il pane... Sarà una società plurale, multiidentitaria, dove vivono persone di diversa origine, religione, cultura, lingua; dove diventerà indispensabile sviluppare nuove forme di vita e di lavoro comune; ognuno potrà conservare la propria cultura (anzi, essere orgoglioso della propria lingua, dicono le Indicazioni/2007, inserendo un canto della Divina Commedia nel pantheon dei contenuti obbligatori della scuola media), contribuendo allo stesso tempo all’arricchimento reciproco. Non basterà un generico atteggiamento di accoglienza, se non si costruisce uno spazio simbolico comune dove le regole della democrazia, della laicità, dell’uguaglianza, possono rappresentare un condiviso punto di partenza per la costruzione di una nuova cittadinanza “planetaria” (afferma la premessa delle Indicazioni).
Capire i nuovi “barbari” (cioè loro, i ragazzi) Qualcosa si è rotto nel triangolo insegnanti-studenti-genitori. E’ sempre più difficile dare un senso all’esperienza scolastica, all’incontro tra saperi dei grandi e vita dei ragazzi in aule dove lo squillo del cellulare deve essere zittito a suon di ordinanze e di sequestri. Sembrano essere venuti meno il senso delle regole, del rispetto, del silenzio, della lealtà: valori che sembrano antiquati nella società dell’apparire, del consumo veloce, di una certa assordante maleducazione. Da un lato, le famiglie appaiono sempre più protettive, ma anche disorientate, a volte nella veste di “avvocati” di un privatissimo diritto all’istruzione di figli che non sembrano crescere mai (i “bamboccioni” evocati da T.Padoa Schioppa). Dall’altro la scuola, che fatica a prendersi cura di questi nuovi “barbari” (gli adolescenti di oggi, sempre più immersi in una società virtuale ove prevale l’estasi della comunicazione). Forse i quotidiani esagerano, o addirittura sbagliano a fare da cassa di risonanza quasi quotidiana agli episodi di “malascuola” (bullismo, esibizionismi, piccole storie di ordinaria follia quasi per gioco). In fondo il sistema educativo italiano è così esteso e articolato, che pochi episodi non possono mettere in crisi la sua credibilità. Tuttavia, ciò che vediamo spesso sui videofonini ampliati in rete è il sintomo di un disagio sottile ed inquieto, del venir meno di quella autorevolezza della scuola, di quella “tenuta” dei rapporti educativi tra generazioni, che fino a pochi anni fa erano uno dei punti fermi della nostra vita sociale. Insomma, urge ritrovar il bandolo della matassa, riscoprire il piacere (e il dovere) delle regole, che sono sfide che fanno crescere, al pari dei no che quasi più nessuno vuole pronunciare. In questo scenario, che incide anche sui comportamenti privati, essere genitori è diventato più difficile. I ragazzi sono senza dubbio più nutriti (in tutti i sensi), sanno più cose, sono immersi nelle nuove tecnologie, ma sono anche più fragili, precocemente coinvolti nelle dinamiche della vita degli adulti. Più autonomi e dipendenti nello stesso tempo, soggetti ‘socializzati’ per forza (vista l’organizzazione nucleare delle famiglie urbane), spesso partecipi di diversi ambienti durante la stessa giornata (scuola, amici, nonni, genitori, conoscenti, ecc.). Una situazione esistenziale più intensa ed articolata, però sollecitata dagli orari e dagli interessi extradomestici degli adulti, che viene compensata dai genitori intensificando le gratificazioni materiali ed affettive a scapito dell’acquisizione del senso delle regole. Questo compito, sempre più spesso viene delegato alla scuola, con la richiesta di svolgere con più fermezza le funzioni normative (educative), tra difficoltà crescenti. La classe, come la famiglia, si è però trasformata in un gruppo amicale, ove prevale il piacere di stare insieme, di comunicare, piuttosto che quello di una sfida per la conoscenza, che richiede impegno, sforzo, continuità, regole, ma che implica anche coinvolgimento emotivo, curiosità, entusiasmo. Si ottiene rispetto e partecipazione dei ragazzi non alzando la voce, ma “costruendo la classe” come ambiente di apprendimento e di relazioni, ove ha senso impegnarsi e cooperare per ottenere un risultato concreto. Ma è anche sul piano cognitivo che la nuova società, in questo caso dell’immagine pervasiva, costituisce una nuova condizione per la conoscenza: gli stimoli aumentano, le immagini e i suoni si moltiplicano, la realtà virtuale prende il sopravvento su quella fisica. Destreggiarsi in questo mondo carico di simboli diventa difficile per i giovani se non ricorrendo a scorciatoie e semplificazioni. La scuola, come una palestra in miniatura, può allenare a muoversi in un mondo sempre più complesso, dove i confini tra naturale (reale) ed artificiale (virtuale) tendono a scomparire, dove i problemi del proprio ‘cortile’ sono immediatamente i problemi del pianeta intero. Una riflessione non scontata sulla fragilità dei nostri ragazzi, figli dell’insicurezza, bisognosi di protezione, immersi nei riti del consumismo, ci può aiutare a riscoprire i modi per dare un senso all’andare a scuola (dei ragazzi, ma anche degli allievi).
La scuola ambiente di apprendimento In molti passaggi delle nuove Indicazioni si insiste sul concetto di “ambiente di apprendimento”, di “gestione della classe”, di “cura educativa”, di coinvolgimento degli allievi nella relazione educativa. Puntare sulla “qualità” della relazione non significa solo prendersi cura dell’altro (della persona dell’allievo), anche se è bella la definizione heideggeriana della “cura” come “preoccupazione”. Cura è ascolto, accompagnamento, attenzione, tenerezza, empatia, disponibilità, ecc.; ma “cura” significa anche prendersi cura della conoscenza, dell’imparare a ragionare insieme utilizzando il contributo di tutti, stimolando capacità critiche e creative, sviluppando competenze linguistiche nel confronto dialogico, nella narrazione. Questa attenzione implica scommettere sull’apprendimento in un gruppo, sulla classe come ambiente di cooperazione (e non di competizione); sulla cura del contesto, sulla mediazione comunicativa e didattica, sulla facilitazione dell’accesso alla conoscenza, anche riscoprendo le ritualità protettive dell’ambiente scuola (la vicinanza “empatica”, i tempi distesi, il silenzio come condizione dell’ascolto, le ricorsività dei comportamenti). I gesti che aiutano l’apprendimento bisogna ripeterli molte volte. Lavorare sull’identità, sulla memoria, richiede tempi lunghi, lentezza; implica saper perdere tempo (oggi ci manca il tempo!) per poterlo riguadagnare. Per intercettare i bambini e gli adolescenti di oggi, la scuola deve ospitare forme articolate di mediazione e di comunicazione. L’ambientazione didattica dei saperi deve saper raggiungere diversi tipi di intelligenza. La classe si modula su stimoli intellettivi differenziati. Non è in gioco solo il recupero di una modernità multimediale, ma anche di un ambiente fisico, di un faccia a faccia, di un incontro di corpi che “pensano”. Il curricolo (come l’apprendimento) deve essere “situato” in un contesto. Esiste, dunque, un problema di “nuove regole” nella dinamica apprendimento/insegnamento, che può essere affrontato con una didattica “efficace”, organizzando con sapienza le variabili del contesto organizzativo (gli spazi ed i tempi), facendole vivere con intelligenza pedagogica. Costruire un ambiente “educativo” di apprendimento significa operare la connessione tra saperi didattici ed organizzativi. Ma significa anche riscoprire la centralità della motivazione, delle emozioni, del dare un “senso” all’esperienza della scuola (oggi il 38 % dei ragazzi vive male la scuola). Significa riscoprire uno scenario scolastico positivo, di fiducia, di recupero della comunicazione, di sostegno all’impegno, alla fatica. L’autonomia organizzativa e didattica può assumere un significato “nobile” se è finalizzata alla costruzione di un ambiente educativo di apprendimento, se riscopre la centralità del “fare scuola”, se mette a disposizione dell’aula le necessarie risorse pedagogiche, metodologiche, organizzative.
Il contesto dell’autonomia Una scuola “ben fatta” ha molto a che fare con questa idea di insegnamento e apprendimento. Perché non si limita a trasmettere e riprodurre uno stock di contenuti statici, ma promuovere soprattutto l’attitudine all’apprendimento continuo, la curiosità e la voglia di affrontare nuovi problemi, la disponibilità al lavoro d’insieme, il gusto di intraprendere nuove iniziative. Qui stanno le ragioni dell’insistenza su una didattica “laboratoriale”, che non significa solo allestimento di spazi specifici, ma coinvolge l’intero funzionamento della scuola e della didattica. E’ però impossibile che tutte queste competenze siano il frutto solo dell’istruzione scolastica. Anzi, potrebbe essere fuorviante assegnare alla scuola compiti così pervasivi, meglio riscoprire per essa il nocciolo duro delle competenze essenziali, una prima alfabetizzazione funzionale che solo il tirocinio fatto nell’ambiente “protettivo” della scuola può assicurare. Si registra, nei nuovi documenti, la richiesta di concentrare l’impegno della scuola su poche essenziali competenze di carattere culturale. Di qui una certa cautela di fronte ai troppo facili slogan sull’ampliamento e l’arricchimento dell’offerta formativa (che era il duplice titolo della legge 440/97 con la quale si è finanziata l’autonomia scolastica). Il nodo resta quello di un rapporto di inter-azione tra apprendimenti formali proposti dalla scuola e ambienti di apprendimento informali e taciti diffusi nella società della conoscenza. Come far sì che le competenze “colte” promosse a scuola siano riutilizzate anche al di fuori dell’ambiente scolastico? Come costruire un tessuto sociale che sia in grado di valorizzare ed amplificare i saperi promossi all’interno delle aule? Come valorizzare i saperi informali senza farsi travolgere dal loro disordinato presentarsi sulla scena? Queste domande rimandano a questioni di natura politica, circa il rapporto tra sistema educativo e sistema sociale (con la ricerca di un dialogo più aperto e meno autoferenziale); di natura istituzionale circa il rapporto tra scuole autonome e sedi gestionali-amministrative (con l’esigenza di un corretto rapporto tra centro e periferia, tra istanze istituzionali e istanze comunitarie); di natura didattica, circa il rapporto tra il sapere d’aula (il curricolo) ed i saperi diffusi nella società (consapevoli della loro complementarietà, ma anche diversità). Sono queste le ragioni più evidenti sottese all’idea di autonomia in campo scolastico, in particolare di un rapporto più aperto tra la scuola ed il contesto sociale, tra la scuola interpretata come comunità professionale e la più ampia comunità circostante. E’ un principio già affermato nella legislazione degli anni ’70 (decreti delegati) che ritrova oggi nuova linfa nei dispositivi costituzionali riformati (il Titolo V) che valorizzano il ruolo intelligente delle periferie e impongono il tema della “governance”, cioè delle forme orizzontali di autogoverno, responsabilità, rendicontazione. La qualità dell’istruzione non è data dalla somma di singole scuole, velleitariamente autarchiche e in competizione tra loro, ma da un sistema di scuole autonome che interagiscono tra di loro e con la comunità di riferimento, capaci di costruire un vero e proprio “patto formativo”. Compiti disinteressati dell’istruzione, recupero del valore formativo dei saperi, autonomia della scuola, rapporti con il territorio, coinvolgimento di allievi, genitori e comunità in un nuovo “patto formativo”: sono queste le coordinate per interpretare la funzione della scuola nel nuovo scenario della globalizzazione e dell’immateriale, dove vecchi paradigmi (le nostre certezze novecentesche) cambiano in fretta. [1] Il presente contributo fa parte di un più ampio lavoro di commento sulle nuove Indicazioni per il curricolo che è stato curato dal CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti) e che è disponibile presso le sedi dell’associazione. Giancarlo Cerini è vicepresidente nazionale del CIDI.
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