Formazione in inglese per tutti i maestri (o quasi)
di Giancarlo
Cerini
L’impresa è
senz’altro ambiziosa e meritoria: garantire a tutti gli insegnanti
elementari (con oneri a carico dello Stato) una adeguata padronanza
della lingua inglese, oggi lingua veicolare planetaria per eccellenza.
Disporre di un corpo docente colto, preparato, che guarda all’Europa,
capace di far fronte alle nuove sfide culturali e linguistiche del
terzo millennio è senz’altro nei desideri di tutti i governanti e
nelle aspettative di tutti i cittadini (oltre che dei genitori e degli
allievi). La padronanza delle lingue è senza dubbio una spinta forte
alla qualificazione dei docenti, perché offre opportunità di maggiori
contatti, scambi, confronti, soprattutto se sostenuta da adeguate
opportunità formative (borse di studio, stage, progetti in
partenariato, ecc.) non sempre alla portata di tutti.
Comunque la
diffusione delle lingue straniere e del relativo insegnamento è un
oggetto “politicamente corretto”, di fronte al quale non è possibile
chiamarsi fuori. Non è un caso che su questo punto si manifesti un
consenso che va al di là dei tradizionali schieramenti politici.
Semmai le differenze nascono sulle modalità attraverso cui promuovere
un miglior posizionamento delle lingue straniere nella scuola (solo
inglese o più lingue?), sulle risorse che si intendono dedicare a
questo obiettivo, sul ruolo e le competenze richieste agli insegnanti
(e quindi sulla loro formazione). Un caso concreto che consente di
mettere alla prova tante dichiarazioni di principio è quello legato al
futuro delle lingue straniere nella scuola elementare.
Lingua straniera alle
elementari: punto e a capo?
Dopo vent’anni di
espansione ininterrotta, anche attraverso la assegnazione aggiuntiva
di personale specializzato ad hoc per questo insegnamento, tanto da
portare la diffusione dell’insegnamento verso il 100 % dei potenziali
utenti (soprattutto nelle classi terze, quarte e quinte elementari),
sembra aprirsi una stagione di ripensamento. La novità è contenuta in
un impertinente comma, il n. 128, della legge 30 dicembre 2004, n.
311, meglio conosciuta come legge finanziaria per il 2005.
Tab. 1 – La
previsione della legge finanziaria 2005
[Comma 128]
L’insegnamento della lingua straniera nella scuola primaria è
impartito dai docenti della classe in possesso dei requisiti
richiesti o da altro docente facente parte dell’organico di istituto
sempre in possesso dei requisiti richiesti. Possono essere attivati
posti di lingua straniera da assegnare a docenti specialisti solo
nei casi in cui non sia possibile coprire le ore di insegnamento con
i docenti di classe o di istituto. Al fine di realizzare quanto
previsto dal presente comma, la cui applicazione deve garantire il
recupero all’insegnamento sul posto comune di non meno di 7.100
unità per ciascuno degli anni scolastici 2005-2006 e 2006-2007, sono
attivati corsi di formazione, nell’ambito delle annuali iniziative
di formazione in servizio del personale docente, la cui
partecipazione è obbligatoria per tutti i docenti privi dei
requisiti previsti per l’insegnamento della lingua straniera. Il
Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca adotta
ogni idonea iniziativa per assicurare il conseguimento del predetto
obiettivo.
La collocazione è già
di per sé significativa, anche se da lungo tempo siamo abituati alle
leggi omnibus. Senza troppi giri di parole, la legge impone di
riassorbire in un biennio tutte le cattedre via via istituite per
assicurare l’insegnamento della lingua inglese: si tratta di ben
11.912 posti di specialista, coperti da 8.817 docenti di ruolo
e da 3.095 supplenti annuali (cui andrebbero aggiunti 443 specialisti
in altre lingue straniere), affidando l’insegnamento della lingua
straniera ai “normali” docenti di classe. Non si tratta di una novità
assoluta, perché nella scuola elementare operano già 15.313 docenti
“generalisti” (in gergo specializzati) che si occupano
dell’insegnamento della lingua straniera (inglese) assieme alle altre
normali discipline, quindi nel proprio ambito di assegnazione (anche
in questo caso vanno aggiunti ulteriori 1.562 docenti specializzati in
lingue diverse dall’inglese).
E’ evidente che la
nomina di tanti specialisti (ognuno dei quali si occupa solo della
lingua straniera in un certo numero di classi, almeno 6-7 prima
dell’ultima riforma) ha consentito in questi anni di diffondere in
forma massiccia l’insegnamento di almeno una lingua straniera, facendo
fronte alla crescente domanda dei genitori. Ora, con il cambio di
modello organizzativo, è da tutti auspicato che non si impoverisca il
livello dell’insegnamento, ma che semmai si qualifichi ed estenda in
vista del traguardo europeo della padronanza di due lingue
comunitarie, oltre a quella materna, come prescritto anche dall’ultima
riforma di ordinamento (Legge 53/2003).
Per raggiungere
questo traguardo, al di là dei nodi politici, culturali, professionali
e sindacali di non poco conto, è indispensabile rafforzare le
competenze linguistiche dei docenti elementari, a partire da quelli
che si candidano (potenzialmente tutti) ad insegnare la lingua inglese
nella propria classe. L’obiettivo non è così palese e mirato negli
orientamenti operativi del MIUR, perché sono in corso trattative
sindacali per verificare l’impatto dell’articolo della legge
finanziaria sulle condizioni di lavoro dei docenti, anzi si è in
presenza di un sottile conflitto di attribuzioni perché il sindacato
ritiene che tale materia sia stata impropriamente regolamentata da un
provvedimento legislativo, per sua natura unilaterale (la posizione è
assai simile a quella sostenuta nella querelle sulla funzione
tutoriale).
Comunque, sono state
reperite all’interno dei fondi dedicati all’attuazione della legge
53/2003 (allocati nella medesima legge finanziaria) consistenti
risorse finanziarie, pari a 28 milioni di euro, poco meno di 55
miliardi di vecchie lire, per avviare un corposo intervento formativo
di carattere pluriennale (in linea di massima biennale, per coprire
gli a.s. 2005-06 e 2006-07). Per apprezzare la consistenza di tale
cifra, basti pensare che la stessa è assai vicina all’intero ammontare
dei fondi disponibili per tutte le attività di formazione per tutti i
docenti dell’anno 2005 (così come dalla Direttiva 45/2005). Dunque,
una volta tanto, i soldi sembrano non mancare. Si tratta ora di
verificare le forze messe in campo, i modelli organizzativi, le
metodologie prescelte, la struttura operativa, i tempi necessari.
Gli orientamenti del
MIUR
Di questi aspetti
tratta la nota 1446 del 29 luglio 2005, emanata dalla Direzione
Generale del Personale della scuola, e presentata in diverse occasioni
ai Direttori Scolastici Regionali, cui spetta mettere in moto la
complessa macchina organizzativa. Non si tratta di una semplice
circolare, ma piuttosto di un insieme di documenti di lavoro che
delineano il quadro scientifico e culturale di riferimento, gli
strumenti operativi, le risorse finanziarie, le possibili
collaborazioni da attivare, soprattutto sul versante dei Centri
Linguistici Universitari e delle Agenzie specializzate. In particolare
si stagliano, per il loro “respiro” culturale ed il quadro di sintesi
delineato, due documenti di carattere scientifico.
Il primo “paper” è
stato elaborato da un apposito Comitato tecnico-scientifico operante
presso l’INDIRE, titolare della formazione on line (che però, in
questo caso, appare del tutto residuale) e che riassume i punti-chiave
dell’intero problema, raccomandando una particolare attenzione
all’accuratezza della preparazione linguistica da assicurare ai
docenti. In particolare viene fissato al livello B1 del Quadro Comune
Europeo di Riferimento (QCER), lo standard minimo di competenza
linguistica che un docente dovrà padroneggiare per aspirare
all’insegnamento della lingua inglese nella scuola primaria. A
proposito del livello di competenza didattica e metodologica, si
individuano come prioritari alcuni approcci metodologici (la
caratterizzazione ludica, la dimensione comunicativa e semiotica, il
ricorso ad una pluralità di strumenti mediatori) riassunti nell’enfasi
sulla centralità dell’apprendente.
Il secondo documento,
più di carattere interno (siglato inizialmente dalla penna del prof.
Gotti), espone invece le motivazioni e le linee del modello formativo
adottato: l’insistenza sulle abilità audio-orali, il contatto
frequente con la lingua, la centralità degli aspetti comunicativi,
l’articolazione dell’ambiente e-learning di supporto. Si prevedono
anche corsi brevi di mantenimento e di perfezionamento, modulati su
50-100 ore.
Di questi documenti,
così come degli aspetti di natura culturale, professionale ed
operativa, daremo conto in un prossimo apposito fascicolo monografico.
In definitiva, la
nota del MIUR consente, con buona approssimazione, di delineare il
quadro degli impegni che si prospettano nei prossimi mesi per gli
insegnanti elementari e per le scuole (praticamente tutte) coinvolte
nell’operazione.
Partecipazione
volontaria, per ora…
Va ricordato che la
partecipazione alle attività di formazione, al momento, è del tutto
volontaria, cioè i docenti di scuola elementare (di ruolo) possono
aderire liberamente. Naturalmente è legittimo chiedersi quali saranno
le possibili conseguenze della mancata partecipazione, ma questo punto
è bypassato dalla circolare, con il rinvio a future ed auspicate buone
relazioni sindacali. Si capisce che l’obiettivo è quello di
incentivare una partecipazione motivata e convinta, non obtorto collo
(…il verbo apprendere, come quello amare, non consente
l’imperativo….), magari prospettando i possibili vantaggi di un tale
impegno. Credito formativo nel proprio port-folio professionale,
possibilità di spendere la competenza acquisita per migliorare la
propria collocazione lavorativa, facilitazioni nella mobilità, ecc.:
non mancheranno certamente le idee al tavolo delle trattative e chissà
che non sia uno stimolo in più a risolvere l’annosa questione della
carriera docente (o se vogliamo, dello sviluppo professionale).
Giustamente, la nota del MIUR precisa che la contrattazione su questi
aspetti è di carattere nazionale, mentre a livello regionale dovranno
essere condivise soprattutto le caratteristiche del piano formativo.
E’ fin troppo facile
prospettare l’ipotesi che l’acquisizione della certificazione di
competenze linguistiche da parte di un docente rappresenterà per
l’Amministrazione la possibilità di impegnarlo direttamente
nell’insegnamento della lingua inglese agli allievi della propria
classe (o del proprio modulo?), andando a sostituire il collega
“specializzato”. Ma i tempi e la cogenza di questa operazione sono
tutte da definire.
Un segnale forte,
comunque, la nota ministeriale lo contiene. Quello di “scovare” tutte
le competenze già presenti nella scuola e di invitarle pressantemente
a dichiarare la propria disponibilità al completamento della propria
preparazione. Nei mesi scorsi è stato compiuto un capillare
monitoraggio in tutte le scuole elementari italiane circa lo “stato di
salute” delle conoscenze di inglese tra i maestri. Ne è uscito un
quadro variegato, vedi tab. 1, non del tutto affidabile –essendo
basato su una sorta di autodichiarazione di competenza- ma su cui si
può compiere qualche inferenza. I docenti che si trovano già al di
sopra del livello soglia preventivato (quello corrispondente allo
standard B1) e che non insegnano la lingua sono alcune migliaia e
sembra opportuno garantire una corsia preferenziale a questo gruppo
professionale, allestendo le necessarie azioni di perfezionamento
linguistico e di rifinitura della preparazione metodologico-didattica.
Tab. 2 – Ricognizione
delle competenze degli insegnanti elementari
Livello di
competenza |
Numero dei
docenti (lingua inglese) |
Numero dei
docenti che insegnano altre lingue |
Docenti senza
nessuna competenza |
117.858 |
642 |
A1 |
27.049 |
265 |
A2 |
5.949 |
207 |
B1 |
2.304 |
307 |
Livelli
superiori (B2-C1-C2) |
698 |
315 |
* Docenti già
in possesso dei requisiti (ma che non insegnano inglese) |
4.697 |
|
Totale docenti
“generalisti” |
158. 555 |
|
Fonte: Rilevazione
promossa con nota MIUR n. 586 del 23-3-2005 (sull’88% della
rilevazione).
E’ evidente che i
diversi livelli autodichiarati dovranno essere convalidati attraverso
apposite prove di certificazione prima della frequenza dei corsi.
Questo aspetto è già stato collaudato nella tornata di corsi-pilota di
lingua che è stata promossa nei mesi scorsi con un primo finanziamento
ministeriale.
Una novità assoluta:
la certificazione delle competenze
A questo punto è
necessario illustrare brevemente il meccanismo che tiene collegati i
livelli di competenza linguistico-comunicativo, i tempi ipotizzati per
il loro conseguimento, la formazione metodologico-didattica,
l’idoneità all’insegnamento. E’ evidente che si tratta di aspetti
diversi, non ancora del tutto regolamentati, per i quali occorre
procedere con cautela. In primis è necessario chiarire che la sola
padronanza della competenza linguistica, benché eccelsa, non è
sufficiente per acquisire titolo (giuridico e professionale)
all’insegnamento. D’altra parte, è in via di superamento il meccanismo
che associa l’acquisizione di competenza alla durata in termini di ore
di frequenza dei corsi frequentati (siano essi di 300, 400 o 500 ore),
perché si prevede una vera e propria certificazione (quindi una prova)
al termine dei corsi, che attesti l’effettivo conseguimento delle
competenze corrispondenti ai diversi livelli del quadro europeo di
riferimento. In linea di massima è ipotizzabile una qualche
corrispondenza tra tempi di apprendimento e livello di abilità, ma si
tratta di una previsione di massima che può subire accelerazioni o
rallentamenti sulla base della “personalizzazione” del percorso
formativo di ciascun utente (che dovrà essere reciprocamente
monitorato da parte del formatore e del formando). Si pone,
eventualmente, il problema della “certificazione” intermedia delle
tappe di un percorso che può rivelarsi assai articolato, fino ad un
massimo ipotizzato di 380 ore.
Tab. 3 – Durata e
livelli della formazione
Fascia di
livello
Certificabile |
Durata della
formazione linguistica |
Formazione
didattica e metodologica |
Da
principiante ad A1 |
100 ore |
(da definire) |
Da A1 ad A2 |
100 ore |
“ “ |
Da A2 ad A2
plus |
100 ore |
“ “ |
Da A2 (plus) a
B1 (e comunque attività di perfezionamento) |
Da 30 ad 80
ore |
“ “ |
L’impianto formativo
è più flessibile di quanto appaia dalla tabella, poiché i tempi non
sono rigidamente scanditi in tappe sequenziali (che possono comunque
aiutare a costruire percorsi in progressione ed a tenerli sotto
controllo), ed è possibile una scansione meno frammentaria e più
distesa in base alle diverse esigenze, ad esempio con un primo modulo
di 180-200 ore per raggiungere il livello A2 ed un secondo modulo di
180-200 ore per raggiungere la soglia B1. Potendo disporre di tempi
distesi si potrebbe immaginare una durata quadriennale del percorso,
compatibile con le esigenze di servizio dei docenti. L’impressione è
che l’Amministrazione intenda accelerare le operazioni racchiudendole
in un solo biennio, quindi con una frequenza assai impegnativa.
Naturalmente, la possibilità di periodi intensivi, di full immersion,
di stage all’estero, di altre opportunità formative di carattere più
partecipato renderebbe più efficace ed articolata la fruizione dei
corsi, oltre che migliorarne la qualità. A parte dovranno essere poi
conteggiati i tempi per gli approfondimenti metodologico-didattici
necessari per completare il profilo di idoneità all’insegnamento del
docente formato.
Linee metodologiche e
scelta dei formatori
Appare meritevole la
scelta di improntare le attività formative ad una dimensione di forte
coinvolgimento dei partecipanti (e non può che essere così,
trattandosi di adulti “professionisti”), attraverso metodologie
partecipate e riflessive. Si raccomanda, dunque, di valorizzare il
“sapere esperto” dei docenti, il legame con il contesto di lavoro (che
può fungere da laboratorio di ricerca-azione), l’integrazione delle
diverse componenti della professione (conoscenze, atteggiamenti,
abilità, competenze). I metodi dovranno far ampio ricorso
all’apprendimento cooperativo, alla didattica laboratoriale,
all’interattività delle situazioni, con la possibilità di costruire
percorsi personali e flessibili.
La formazione
linguistica via via in incremento dovrà intrecciarsi con rinnovate
consapevolezze didattiche, attraverso l’integrazione dei “pacchetti”
linguistici in presenza (fino ad un massimo di 380 ore, secondo la
scansione per livelli già presentata) con le attività on line,
predisposte sulla piattaforma INDIRE. Questo secondo profilo avrà al
centro gli aspetti psicolinguistici (cosa significa apprendere una
seconda lingua in età precoce?), quelli metodologico-didattici (come
si progettano percorsi per sviluppare efficaci abilità di
comunicazione?), interculturale (quali i valori sottesi a questo
insegnamento?) e metacognitivo/autovalutativo (quali strategie di
gestione dell’apprendimento?).
Per raggiungere
questi obiettivi i corsi dovranno avvalersi di formatori consapevoli
di non potersi limitare alla mera erogazione “trasmissiva” di
contenuti, ma di doversi impegnare soprattutto in compiti di tutorato,
cioè di accompagnamento di colleghi in un percorso di sviluppo di
nuove competenze. Le indicazioni sulla scelta dei formatori sono
giustamente rigorose, perché è risaputo che l’efficacia della
formazione in servizio si gioca in buona parte sulla qualità
(competenza, disponibilità, passione) dei conduttori delle iniziative
formative. Nel campo dell’insegnamento delle lingue straniere esiste
comunque una collaudata pratica di formazione, a cura delle agenzie
linguistiche internazionali e delle scuole di lingua, ma anche del
mondo della scuola (attraverso i progetti sperimentali che si sono
succeduti negli anni, anche con il contributo delle associazioni dei
docenti). In questo campo, piuttosto che in tanti altri settori
disciplinari, è possibile dunque avvalersi di un quadro di
docenti-formatori già “collaudati” che offrono tutte le garanzie del
caso. La nota ministeriale, ad ogni buon conto, rammenta che i
formatori dovrebbero padroneggiare un livello di competenza pari alla
soglia C1 (con eventuali ulteriori specializzazioni), avere esperienza
concreta di insegnamento della lingua, aver già svolto in precedenza
funzioni di formatore. Peccato che non sempre, a livello territoriale,
sia stato salvaguardato questo patrimonio di risorse umane, attraverso
la costituzione di centri permanenti di formazione (i c.d. Centri
Risorse Linguistici) e la valorizzazione di “figure di sistema” per
l’aggiornamento. Ma questo, si sa, è il tallone d’Achille del nostro
sistema di formazione dei docenti.
Università, istituti
linguistici e certificazione
E’ coerente con
l’impostazione del legislatore (in particolare con l’art. 5 della
Legge 53/2003) la chiamata in causa del sistema universitario nella
conduzione scientifica dei corsi ed anche nella loro pratica
realizzazione. Naturalmente questo coinvolgimento dovrà avvenire in un
regime di piena reciprocità e senza sudditanze: l’Università (in
particolare i numerosi Centri Linguistici di Facoltà o di Ateneo)
dovrà mettere a disposizione le reali competenze di cui dispone (in
particolare ci sembra prezioso l’apporto degli “assistenti di lingua”
e dei professori “invitati”), ma anche la scuola dovrà fornire i suoi
“saperi” che non sono solo di carattere pratico ed operativo. Il
partenariato, in questo caso, è d’obbligo. Anche perché appena dietro
l’angolo di questo sistema è presente una ricca schiera di Enti e di
agenzie formative, quasi tutte certificate dallo stesso MIUR come
soggetti accreditati per la formazione, che rivendicano uno specifico
e collaudato know-how e sono desiderose di mettersi alla prova in una
impresa così vasta (e dove, aggiungiamo sommessamente, sono in ballo
anche consistenti risorse finanziarie). E’ evidente che si apre anche
una forma di competizione tra i diversi soggetti di questo mercato
della formazione (e la cosa non dispiace certamente all’Authority per
la concorrenza, che nei mesi scorsi ha avuto modo di “bacchettare” lo
stesso MIUR per presunti orientamenti volti a favorire qualche Ente
piuttosto che altri). L’importante è comunque che gli insegnanti non
siano considerati semplici spettatori (o clienti) di questo nuovo
“business” formativo, ma protagonisti in prima persona. In gioco non
c’è solo qualche fetta di mercato da incrementare, ma una impresa
culturale di largo respiro che vorrebbe rendere più europei i nostri
docenti e quindi la nostra scuola.
Il primo banco di
prova di questa triangolazione tra Università, Enti linguistici e
scuola sarà rappresentato dalle modalità di certificazione delle
competenze dei corsisti. Infatti è previsto che al termine dei corsi
(ma anche all’inizio degli stessi) siano documentati i livelli di
conoscenza, attraverso procedure valutative gestite direttamente da
Enti certificatori riconosciuti, meglio ancora se d’intesa con le
Università. In tal senso sono in corso trattative a livello
nazionale.
Modello organizzativo
Cosa avverrà concretamente nei prossimi mesi?
Entro il 15 settembre 2005 ogni Ufficio Scolastico Regionale dovrà
elaborare un apposito piano operativo, con la previsione delle
iniziative formative da realizzare (numero dei corsi attivabili), i
tempi di sviluppo (di norma biennali, assicurando comunque il
completamento delle attività iniziate), la collocazione dei corsi (che
non dovranno accogliere più di 20 docenti), le modalità di ammissione
dei partecipanti (tenendo conto delle priorità stabilite a livello
nazionale), i criteri di scelta dei direttori dei corsi e dei
formatori. In particolare, pare prioritario intervenire in quelle aree
territoriali ove maggiori sono le carenze di personale “formato” in
lingua e quindi maggiore è il ricorso a personale “precario” con tutte
le conseguenze immaginabili.
Tab. 4 – Criteri di
priorità nella partecipazione ai corsi
·
Docenti che, in
sede di candidatura ai corsi, hanno dichiarato la competenza minima
di livello A2;
·
docenti che
insegnano lingue straniere diverse dall’inglese;
·
docenti neoassunti;
·
docenti in servizio
presso istituzioni scolastiche nelle quali si sia reso necessario il
ricorso a personale con contratto a tempo determinato per l’avvio
del processo di riforma.
Fonte: Nota MIUR n.
1446 del 29-7-2005.
E’ necessario
definire il quadro operativo delle attività formative unitamente alle
Organizzazioni Sindacali attraverso uno specifico contratto regionale,
in quanto la materia rientra nella sfera di natura contrattuale (ed
abbiamo già notato come questo sia un punto assai delicato, stante i
“vincoli” della legge finanziaria). Naturalmente sarà necessario
raggiungere un “gentleman’s agreement” (un onorevole compromesso) tra
le opposte esigenze di “riconversione obbligata dei docenti” e di
“promozione libera delle disponibilità”, puntando sull’idea della
formazione in servizio come opportunità e “diritto”. In fondo, perché
dire di no ad un investimento dell’Amministrazione che mette a
disposizione di ogni docente un budget di circa 1.500 euro per
incrementare la propria preparazione culturale e didattica?
E’ quindi opportuno
coinvolgere i docenti ed i dirigenti scolastici in questa fase di
messa a punto dei programmi formativi, anche per sensibilizzare tutti
gli attori circa il significato, la natura, le conseguenze delle
attività in via di allestimento. A livello regionale è prevista la
costituzione di una cabina di regia scientifica (ove, a fianco delle
Università e dell’Amministrazione, è bene che non manchino i
rappresentanti dei docenti), che poi potrà articolarsi a livello
provinciale in agili gruppi operativi per la progettazione e gestione
delle attività sul territorio (immaginando accordi di rete, che
facciano perno su scuole-polo, meglio ancora se sedi dei Centri
Risorse di Lingua). Poiché i corsi da attivare sono parecchie decine
in ogni realtà, ci sarà spazio per tutti i soggetti accreditati in una
sana competizione per la qualità. Il budget, non da poco (stimabile in
circa 7.000 euro per ogni modulo di 100 ore) potrebbe aiutare
nell’impresa.