IL RIORDINO DEI CICLI
La "grande" riforma"

di Giancarlo Cerini

 

Dopo tre anni di discussioni, proposte, scontri e "resistenze" il riordino dei cicli è giunto in porto, con il definitivo via libero espresso dal Parlamento. Il Senato della Repubblica ha infatti approvato, nella seduta del 2 febbraio 2000, il testo del progetto di legge di riordino (Atto n. 3952/A) nella medesima formulazione licenziata dalla Camera dei Deputati il 22 settembre 1999.

La proposta, che è già stata denominata "7+5" (perché strutturata in sette anni di scuola di base unitaria e cinque anni di scuola secondaria superiore) introduce alcune varianti al disegno originario del Governo, il cosiddetto modulo "6+6". In particolare, la versione definitiva potenzia il ciclo primario (aggiungendo ad esso un anno di orientamento), con ciò venendo incontro anche a quanti richiedevano una scuola di base più lunga o comunque una maggiore attenzione alla fascia d’età 11-14 anni.

L’approvazione della legge è stata generalmente accolta con favore (ad esclusione dell’opposizione parlamentare), perché era ormai indispensabile fornire una cornice certa alle tante tessere del mosaico messe in campo dal Ministro Luigi Berlinguer nel corso del suo mandato (autonomia, saperi essenziali, maturità, obbligo scolastico e formativo, formazione dei docenti, parità, nuove tecnologie). In fondo il riordino complessivo dei cicli scolastici assume una funzione simbolica, quasi catartica, un segnale di discontinuità rispetto ai modelli attuali, il segno tangibile dell’avvenuto "trapasso" alla "grande" riforma. Questo valore simbolico va al di là degli stessi effetti reali sulla qualità della scuola che un nuovo ordinamento è in grado di produrre. L’esperienza europea ci conferma infatti che non è sufficiente modificare l’ingegneria dei cicli e degli ordini scolastici per ottenere risultati migliori, se non si cambiano anche le condizioni strutturali dell’insegnamento (gli ambienti fisici, le tecnologie, la formazione/preparazione dei docenti, le loro motivazioni).

Sarebbe qui troppo complesso ricostruire le fasi del dibattito sui cicli, che poi si è intrecciato con l’avvio dell’autonomia scolastica e con la riflessione sul progetto culturale, a partire dalle elaborazioni della commissione dei Saggi sui "Saperi fondamentali". Giustamente si è messo in evidenza che una scelta strutturale così innovativa non poteva non implicare un profondo ripensamento sul modello culturale di riferimento e sui compiti formativi da attribuire alla scuola.

 

Un progetto culturale per i nuovi cicli

Oggi la società sembra assegnare al sistema formativo una pluralità di funzioni, non sempre chiare, a volte contraddittorie, certamente eccessive. Si parla, di volta in volta, di orientamento, di successo formativo, di selezione della classe dirigente, di socializzazione, di formazione alla cittadinanza, di preparazione al lavoro, ecc.

Non sembra essere maturato ancora un sufficiente consenso intorno alla "mission" della scuola: c’è chi punta su un deciso aggancio della formazione alle domande emergenti dal mondo dell’impresa, dalle sfide della tecnologia e della globalizzazione (ed il progetto di riordino dei cicli è stato anche accusato di essere orientato verso questa "filosofia"); c’è chi invece sottolinea il ruolo "disinteressato" della formazione nel promuovere competenze durature, generaliste piuttosto che professionalizzanti (e vede quindi la scuola come un luogo doverosamente "appartato" rispetto ai flussi spesso confusi dei linguaggi della contemporaneità); altri, ancora, si dichiarano strenui difensori del valore della cultura e della conoscenza (intesa nei suoi livelli formali e alfabetici) come strumento di emancipazione e di crescita, lamentando un’eccessiva leggerezza nelle ipotesi di riforma.

Sarebbe una scuola troppo "americana" per alcuni (cioè esclusivamente attenta alla socializzazione), troppo "tedesca" per altri (cioè preoccupata anzi tempo degli sbocchi professionali e dell’impiegabilità degli individui): modelli da taluni auspicati, da altri temuti.

La stessa interpretazione del progetto avanzato dal ministro Berlinguer ha risentito di questi diversi approcci: qualcuno ha intravisto la precoce canalizzazione dei percorsi a 12 anni (una critica in tal senso è stata formulata anche nel Rapporto dell’OCSE-1998) con indebolimento della formazione di base; altri invece ha stigmatizzato l’eccessivo peso dato alla formazione obbligatoria e orientativa, con il rischio di "alleggerire" e "ridurre" il profilo dell’attuale scuola superiore "liceale".

Ma oltre al dibattito culturale sono poi affiorate le inevitabili preoccupazioni circa il destino dei diversi gradi scolastici (in particolare la scuola media), il futuro degli insegnanti (con la minaccia incombente dell’esubero), il rapporto (tutto da decifrare) con i processi di dimensionamento e di razionalizzazione delle sedi scolastiche, avvenuti in previsione dell’autonomia.

Incertezze di ordine culturale, complessità delle scelte operative, schermaglie parlamentari sono stati fattori che hanno ritardato il processo di decisione legislativa, riavviato solo nel corso del 1999 con la approvazione di due importanti leggi-stralcio sull’estensione dell’obbligo scolastico a 15 anni (Legge 20 gennaio 1990, n. 9) e dell’obbligo formativo a 18 anni (Legge 17 maggio 1999, n. 144).

 

Le novità della legge

Il testo definitivo della legge sui cicli recupera quindi alcune delle "tessere" messe in campo negli scorsi anni, inserendole in un quadro più ampio, caratterizzato da alcuni punti fermi:

terminare il percorso scolastico a 18 anni (e non più a 19) per allinearsi con i sistemi europei, investire di più sulla formazione post-secondaria, aprire decisamente verso l’educazione permanente e l’alternanza apprendimento/lavoro;

elevare l’obbligo scolastico (a tempo pieno) almeno fino a 15 anni, qualificando però il triennio 15-18 anni come obbligo formativo, con la garanzia estesa a tutti di continuare a formarsi, anche se in modi diversi: a tempo pieno, a tempo parziale, sul lavoro, ecc.);

unificare la scuola di base, per incrementare –mediante un disegno curricolare unitario, ma progressivamente articolato- l’acquisizione ed il consolidamento delle competenze essenziali in termini di conoscenze, procedure e metodi, linguaggi, atteggiamenti, realizzando un certo qual contenimento della sua durata.

Naturalmente si possono osservare, in controluce, anche alcuni limiti nella soluzione adottata dal Parlamento:

la riconferma della scuola superiore nella sua tipica scansione quinquennale (punto di forza, ma anche di rigidità), addirittura nel suo ritmo interno caratterizzato da un biennio (orientativo e obbligatorio) e da un triennio (specializzato e mirato alla "terminalità" della preparazione). Sembrano dunque prevalere gli elementi di continuità in un segmento che richiederebbe, invece, forti innovazioni;

la mancata definizione dell’articolazione interna del ciclo di base. La questione è stata al momento accantonata, per evitare che potessero insorgere vecchie contrapposizioni tra la attuale scuola elementare (che "esce" da una riforma appena attuata) ed una scuola media (che mostrato forti resistenze ad inserirsi nell’alveo di una scuola di base-comprensiva);

l’accantonamento dell’obbligo per l’ultimo anno della scuola dell’infanzia (cioè del 5° anno d’età), proposta che aveva suscitato qualche perplessità di ordine pedagogico, ma che è stata bloccata per pregiudiziali ideologiche di segno opposto.

Non è però tempo di pessimismi preconcetti. La legge sui cicli è una legge-cornice dalle maglie talmente larghe che la sua "interpretazione" dipenderà fortemente dalle modalità di attuazione, a partire dal decisivo piano di fattibilità quinquennale, che dovrà essere presentato al Parlamento entro 6 mesi dall’approvazione della legge.

Alcuni nodi ancora aperti dovranno essere sciolti con decisione:

l’uscita anticipata da scuola a 18 anni, dovrà essere accompagnata dall’apertura di nuove strade dopo i 18 anni, con corsi post-secondari, formazione tecnica, snodi verso una università in attesa anch’essa di riforma;

il segmento secondario 13-18 anni dovrà affrontare con più innovazione la doppia sfida dell’espansione dell’obbligo scolastico e della garanzia di un’offerta formativa qualificata fino ai 18 anni (non illudendosi con le facili scorciatoie di canali troppo differenziati);

la scuola di base dovrà consentire un effettivo miglioramento del contesto di apprendimento, attraverso un’articolazione interna che renda fluido il percorso formativo mediante una forte integrazione tra ex-elementare ed ex-media [personalmente suggerisco una scansione 3 + 4, che evita di penalizzare qualcuno dei due precedenti tronconi e li invita a ripensarsi in ottica diversa];

un sistema scolastico di durata più compatta (dai 3 ai 18 anni, anziché dai 3 ai 19) può far balenare l’idea di una riduzione progressiva dei docenti in servizio; nulla di più azzardato: un sistema ben funzionante, che punti alla qualità dei risultati, al successo formativo dei ragazzi dovrà investire di più sui docenti: rapporti numerici soddisfacenti, sviluppo di funzioni di supporto, attività di tutoring, di orientamento, di collegamento con il territorio, periodi sabbatici di formazione, ecc.

Una grande riforma non potrà essere vissuta come operazione a costo zero, o peggio, come penalizzazione del corpo docente, ma come occasione storica di sviluppo della scuola (e di una sua modernizzazione) e quindi di crescita e valorizzazione di tutte le professionalità in esse operanti.



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