La vicenda del tormentato rapporto tra scuola pubblica e scuola privata è di quelle destinate a scaldare gli animi: la "querelle" in effetti viene da lontano, almeno dal secolo dei Lumi e dalla Rivoluzione francese. Ha percorso poi buona parte del nostro Risorgimento (con un esplicito conflitto tra il nascente Stato laico e la Chiesa cattolica) e, dopo le reciproche convenienze del Concordato del 1929, ha trovato un "nobile" compromesso nella Costituzione repubblicana del 1948. In essa viene affermata la piena libertà per le scuole private, anzi il loro diritto alla parità, cioè ad una pari dignità giuridica e formativa con le scuole pubbliche, accompagnato però dall'ormai celebre enunciazione che tutto questo debba avvenire "senza oneri per lo Stato".
È anche vero che in questi cinquant'anni di storia repubblicana il problema è stato rimosso, inserito anch'esso nella logica del bipartitismo imperfetto. Governo ed opposizione si dividono i ruoli e sanno fin dove è lecito "spingersi": ecco perché i ministri democristiani non presentano disegni di legge sulla parità o sul finanziamento alle scuole cattoliche, considerando più redditizio dedicarsi alla gestione del sempre più esteso sistema scolastico statale.
C'è dunque molta verità,
oltre che un pizzico di civetteria, nell'attribuire un significato
"storico" al progetto di legge presentato dal Ministro
Luigi Berlinguer sul tema della parità ed approvato dal
Consiglio dei Ministri il 18 luglio 1997.
La parità, ai tempi dell'Ulivo
Giustamente è stato ricordato che si tratta di dare attuazione all'art. 33, comma 4° della Costituzione, che impone di dettare regole alle scuole non statali ("fissare i diritti e gli obblighi") per il riconoscimento di un'effettiva parità di trattamento e non tanto di finanziare con denaro pubblico le scuole private, anche se è ovvio che l'ambita "patente" di scuola paritaria (o addirittura di scuola "pubblica" paritaria, come si afferma nel disegno di legge governativo) rappresenta un inevitabile passepartout per accedere a pubblici finanziamenti.
D'altra parte il principio della parità (anzi, dell'integrazione dei sistemi formativi statale e non statale, nell'ambito di un sistema a larga autonomia) era uno dei piatti forti del "menù" dell'Ulivo per la scuola (1). Si può obiettare che quel programma sia stato elaborato in sedi molto ristrette e conosciuto nei dettagli da pochi. È comunque altrettanto vero che il programma della coalizione di centro-sinistra fu vittoriosamente convalidato dal corpo elettorale nella primavera del 1996. Si registrò allora un ampio consenso verso l'Ulivo anche tra gli insegnanti. Al di là dell'adesione ad uno specifico programma, prevaleva l'attesa di un più forte investimento culturale, politico e finanziario sulle sorti pubbliche dell'istruzione in Italia.
Ma che un diverso equilibrio tra scuola pubblica e scuola privata dovesse far parte di un eventuale accordo politico tra sinistra e cattolici lo si era colto fin dal documento "Una nuova idea per la scuola" del luglio 1994 (2), con il quale diversi esponenti dei due schieramenti tradizionalmente contrapposti (laici vs cattolici), da Pietro Scoppola a Giovanni Berlinguer, da Giancarlo Lombardi a Roberto Maragliano, fino a uno "sconosciuto" Romano Prodi, convenivano su un diverso significato da attribuire al concetto di scuola pubblica, termine non più da riservarsi alle sole scuole gestite da istituzioni pubbliche (lo Stato, in primo luogo), ma anche a quelle scuole non statali gestite da associazioni, gruppi, privati, disponibili a riconoscersi in alcune essenziali regole e standard definiti dalla parte pubblica.
Questo è dunque il dilemma di fondo che rimbalza nel pur sobrio disegno di legge del Governo dell'Ulivo sulla parità. È, in primo luogo, una questione di principio, che si articola in alcuni quesiti decisivi.
Possono le scuole legittimamente promosse da soggetti privati fregiarsi del titolo di scuola pubblica? Se sì, a quali condizioni? E fino a che punto potranno spingersi i controlli pubblici, senza "snaturare" la specifica identità (la "mission") di una scuola privata, non più "privata"? Questa condizione sta ovviamente molto a cuore ai cattolici; alcuni di essi temono infatti un patto "scellerato": soldi pubblici in cambio di una rinuncia alla propria completa libertà d'azione, alla propria irriducibile identità. Torna spesso, in questi commenti, il richiamo alla diversità, anzi l'orgoglio della propria alterità educativa rispetto ad un generico e neutralissimo progetto educativo statale (3).
Ma la ripetuta affermazione di uno status di "scuola di tendenza" è compatibile con la richiesta di essere riconosciuta tout court come scuola pubblica? Lo Stato non rischia forse di svilire il termine di "pubblico", accontentandosi di una soglia interpretativa molto bassa del concetto, quasi una mera presa d'atto di una scuola "comunque aperta al pubblico" e quindi di per sè incaricata di un "pubblico servizio".
Come si vede, si tratta di grosse
questioni di principio (abbiamo per ora tralasciato il problema
dei finanziamenti) che rendono quanto mai giustificato un dibattito
approfondito e sereno e non un accordo frettoloso, come di fatto
è avvenuto in questo caso, nonostante le risoluzioni di
indirizzo approvate preventivamente dal Parlamento nel giugno
1997.
Lo "scoglio" costituzionale
Il disegno di legge del Governo si muove così in un quadro di incertezza politica e culturale, con prese di distanza che si avvertono sia nel campo dell'Ulivo, sia nell'area cattolica. Lo rivela anche lo stile understatement scelto nel prosaico titolo del disegno di legge, centrato sull'espansione dell'offerta formativa e del diritto allo studio e non tanto sull'esplicitazione dei contenuti della parità.
Intanto incombe sull'intero disegno della parità una possibile pronuncia di incostituzionalità, già per altro messa in moto dal ricorso bolognese al TAR contro le Convenzioni, giudicate costituzionalmente improprie, tra i Comuni dell'Emilia-Romagna e le scuole materne private, autodefinitesi "libere" (4).
In effetti il dettato costituzionale è assai scarno, ma netto: "enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato". Il versetto, come ammonisce un laico doc qual è Alessandro Galante Garrone, non ammette troppi sollogismi. Carta Costituzionale alla mano, ivi compresi i lavori preparatori, è difficile sostenere che il divieto si riferisca solo alla istituzione iniziale di una scuola privata, ma non alla sua successiva gestione ordinaria, come vorrebbe un costituzionalista altrettanto raffinato qual è Pietro Scoppola.
Ci si richiama però ad alcune pronunce del Parlamento Europeo per estendere il concetto di equipollenza del trattamento da garantire agli studenti delle scuole private (fino ad oggi inteso come pari valore giuridico del curriculum e del titolo di studio acquisito) alla sfera economica (in quanto la parità sarebbe effettivamente tale solo se accompagnata da una sostanziale ed analoga onerosità/gratuità dei percorsi scolastici pubblici e privati). Lo scoglio del 3° comma ("senza oneri per lo Stato") verrebbe superato mediante un più forte richiamo al diritto allo studio dei singoli (4° comma).
In tal senso si esprime L. Paladin, ex-Presidente della Corte, che vorrebbe indirizzare gli eventuali sostegni pubblici unicamente agli studenti e non alle scuole, realizzando così una incisiva politica del diritto allo studio, per incoraggiare i "capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi", come recita la vetusta dizione costituzionale (art. 34), e comunque per sostenere la frequenza scolastica degli alunni, ovunque questa avvenga.
Questa opzione potrebbe tradursi in un sistema di interventi attivi (sotto forma di borse di studio, assegni, contributi per sussidi, ecc.) o passivi (sotto forma di sgravi fiscali, con possibilità di detrarre le spese sostenute per la formazione: rette, tasse, libri, ecc.). Tali interventi dovrebbero riguardare gli studenti indipendentemente dal tipo di scuola frequentata (A. Schiavone).
Dalla detassazione al buono-scuola
La defiscalizzazione sembra ultimamente
aver fatto numerosi proseliti, anche perché non implica
il riconoscimento di un carattere tout court pubblico alle scuole
non statali, poiché si limita a prendere atto che i cittadini
optano per scuole diverse, anche private o di tendenza, purché
di loro fiducia (come si fa nel campo della sanità). Lo
Stato, riconoscendo la legittimità di questa scelta, viene
incontro al cittadino con uno sgravio della spesa sostenuta, attraverso
un credito d'imposta, un onere indiretto di cui si farà
carico l'intera platea dei contribuenti mediante la fiscalità
generale.
La frequenza di una scuola privata viene considerata a "sgravio" degli oneri diretti che lo Stato avrebbe comunque dovuto sostenere per la scolarizzazione di quell'alunno, specie nel caso di scuola obbligatoria.
Il principio della detassazione (cioè il chiamarsi fuori dal contribuire a quei servizi pubblici di cui non si fruisce) potrebbe però innestare una pericolosa deriva verso forme di egoismo sociale. Se le tasse sono troppo "mirate" a finanziare direttamente alcuni servizi pubblici della comunità (come nelle proposte di federalismo "fiscale" coniugato al principio di sussidiarietà) viene di fatto ad essere incentivato l'abbandono dell'intervento pubblico. Abbandono sopportabile per rendere forse più "produttive" le aziende municipalizzate del latte e del gas, certamente più rischioso per le sorti della formazione delle nuove generazioni.
La proposta del credito di imposta, nel dettaglio, va comunque regolata dalle norme fiscali in materia di detraibilità fiscale (attualmente è pari al 22 % dell'ammontare delle spese riconosciute entro un tetto prestabilito) e si tratterà probabilmente di un rimborso parziale degli oneri sostenuti per frequentare una scuola privata. Un rimborso totale delle spese all'utente assumerebbe infatti una configurazione giuridica assai diversa, assimilabile a quella del "voucher", cioè del buono-scuola.
Quest'ultima proposta, oggi sostenuta dall'ala "liberista" dello schieramento politico e culturale, vorrebbe consegnare ad ogni potenziale utente del servizio scolastico una quota-parte di risorse (corrispondente appunto alla frazione virtuale del costo per ogni alunno), da spendersi liberamente sul mercato della formazione, verso l'una o l'altra struttura scolastica (sia essa pubblica o privata). Si argomenta che la proposta metterebbe tutti i cittadini su di un piano di effettiva parità, contribuendo a migliorare la qualità del sistema attraverso una rigorosa competizione, ove i "rami secchi" (cioè le scuole scadenti) verrebbero tagliati fuori dal mercato.
Si sottovaluta il fatto che un tale sistema consegnerebbe ai desideri (anche quelli meno confessabili) dei consumatori il funzionamento, la vita e la morte stessa delle scuole. I clienti potrebbero essere interessati al rilascio del fatidico "pezzo di carta", piuttosto che ad un impegnativo programma di formazione culturale. Comunque tenderebbero a prevalere le chiusure (la scuola su misura), gli egoismi (la scuola per i più fortunati), la disparità nelle opportunità (fortemente dipendente dai contesti territoriali e sociali). Dove il sistema del bonus è stato (parzialmente) sperimentato, la qualità della scuola pubblica è andata scemando. Il rischio è infatti di ridurla ad una scelta marginale, rivolta ai ceti che non possono o non sanno accedere a scelte diverse. Una scuola residuale, per i ceti meno abbienti.
Sarebbe la fine della scuola come istituzione civile, come elemento indispensabile di coesione sociale, civile e culturale. Il luogo dove si costruisce il senso del appartenenza alla medesima res pubblica.
Apparentemente ultra-democratica (in quanto ciascuno riceve un "fondo" per istruirsi liberamente), la proposta non riesce a celare una profonda avversione per tutto ciò che è amministrazione pubblica, una congenita diffidenza per lo Stato (visto sempre e comunque nel ruolo di potenziale "invasore" delle sfere di libertà personale), uno scarso investimento per il concetto di bene comune. Portata alle estreme conseguenze (cioè ad ogni gruppo o gruppetto la "sua" scuola) questo principio finirebbe con il distruggere uno degli elementi costitutivi della convivenza democratica.
Il sitema formativo "integrato"
La scuola ha dunque un carattere fondativo del patto che unisce i cittadini di uno stesso paese. Da questa premessa "costituzionale" scaturisce la richiesta dei sostenitori della parità di costituzionalizzare anche la presenza delle scuole private, cioè di riconoscere a pieno titolo la loro appartenenza al sistema (integrato) delle scuole pubbliche. Poiché le scuole private sono in larga maggioranza scuole cattoliche, il loro riconoscimento pubblico finisce con l'essere un doveroso riconoscimento della presenza dei cattolici nella società ("i cattolici non sono altrove rispetto agli italiani") e dei loro valori (che "costituiscono un'ispirazione insostituibile dell'ethos collettivo del Paese"). In questo senso si è espresso Romano Prodi nella lettera ai vescovi dell'agosto 1997, dalla quale abbiamo tratto le citazioni.
Il riferimento a comuni valori costituzionali,
la lealtà nei confronti del pluralismo culturale e quindi
il rispetto del principio della libertà di insegnamento
e apprendimento (Schema di documento sulla parità, 1997)
costituirebbero una cornice di sfondo capace di contenere sia
le scuole statali che quelle non statali. A queste ultime dovrebbero
essere richiesti requisiti (nei programmi, negli ordinamenti,
nella qualificazione del personale, nelle forme di gestione) sostanzialmente
simili a quelli delle scuole statali, con l'obbligo di assogettarsi
a "controlli esterni" a garanzia del rispetto degli
standard fissati.
Il disegno della parità si presta però a numerose
critiche, di opposto segno.
Da un lato si afferma che se l'adeguamento agli standard della scuola pubblica fosse totale (ad esempio, con modalità integralmente pubbliche di reclutamento dei docenti) verrebbero meno le ragioni stesse dell'esistenza delle scuole private, la loro specifica "identità". Dall'altro si ribatte che se l'adeguamento fosse parziale e del tutto formale, ad esempio, mantenendo la formula della chiamata diretta del personale docente, verrebbero a mancare le basi per un riconoscimento del carattere pubblico.
Una antinomia quasi insolubile nonostante i volonterosi tentativi della Commissione dei 6 saggi, messi al lavoro dal Ministro Berlinguer. Non a caso il tema più controverso è stato proprio quello relativo al reclutamento dei docenti (5).
Secondo alcuni commentatori, per evitare conflitti di natura costituzionale, è più conveniente prendere atto della diversità (anche in positivo) dei due tipi di scuola, intervenendo forme di agevolazione o di sostegno pubblico, simili a quelle previste per il cosidetto "terzo settore" o "privato-sociale", cioè verso quelle imprese no-profit (a metà strada tra la cooperativa ed il volontariato), che operano largamente nei servizi di cura alle persone. Tutto ciò in sintonia con il principio di sussidiarietà che oggi trova una sua collocazione "forte" all'interno della bozza di nuova Costituzione (6).
Questa prospettiva - aggiungiamo noi - non può però far dimenticare l'obbligo costituzionale per la Repubblica di garantire l'istituzione di scuole statali di ogni ordine e grado (e quindi la priorità dei relativi impegni finanziari). In tal senso un concreto banco di prova sarà costituito dall'eventuale estensione dell'obbligo scolastico alla scuola materna, in particolare al suo ultimo anno, ed al 15° anno: non si potrà far fronte alle nuove esigenze "obbligando" i cittadini ad avvalersi di strutture private.
Il riconoscimento di una diversità tra scuole pubbliche e private non è comunque preclusivo del sistema delle convenzioni. La convenzione riguarda infatti un rapporto tra un soggetto titolato a porre in essere rapporti giuridici di particolare valore (lo Stato in questo caso) ed altri soggetti (non necessariamente pubblici) ai quali, a fronte dell'erogazione di un certo servizio riconosciuto di pubblica utilità, viene assegnato un contributo finanziario.
È vero però che il sistema delle convenzioni (o dei contributi diretti alle scuole) sembra incappare nel divieto costituzionale di impegnare oneri dello Stato. Delle due l'una: o si modifica la Costituzione, facendo cadere quel divieto (e in proposito N. Della Chiesa propone di aggiungere all'ormai famoso versetto un "senza obbligo di oneri per lo Stato" che renderebbe facoltativi e discrezionali i finanziamenti), oppure, si attribuisce esplicitamente la qualifica di scuola pubblica alle attuali scuole private, previo il rispetto di alcuni standard e si dà il via libera ai finanziamenti.
Questa seconda strada, più complessa, è quella scelta nel disegno di legge del Governo, che punta tutto su un riconoscimento di principio molto esplicito (le scuole paritarie sono pubbliche), mentre gli interventi finanziari restano assai vaghi (oscillando tra convenzioni, detassazione e sostegni al diritto allo studio) e le concrete erogazioni vengono rinviate al "redde rationem" della annuale legge finanziaria-capestro, come del resto avviene per la scuola statale.
La pista delle convenzioni è già stata praticata da molti Enti locali, soprattutto nel campo delle scuole materne, con evidenti limiti tecnici (oltre alle perplessità di ordine costituzionale, prima menzionate). Le carenze sono riferibili a:
- parzialità dei soggetti contraenti le Convenzioni (il contratto è spesso a due, Comuni e privati, con l'esclusione dello Stato e delle sue articolazioni periferiche);
- vaga definizione dei contenuti degli accordi (che si configurano quasi sempre come un'erogazione finanziaria pro-capite per ogni alunno iscritto);
- debole individuazione degli standard da rispettare (con indicatori troppo generici e scarsamente quantificati);
- insufficiente previsione delle forme di controllo (assenti o molto blande, con reticenza diffusa ad individuare gli organismi tecnici preposti alle verifiche, per altro evanescenti anche per le scuole pubbliche).
C'è da dire che anche i prototipi delle convenzioni nazionali esistenti, appaiono carenti sotto molti profili, come dimostra lo status delle scuole elementari non statali parificate, un comparto già interamente convenzionato.
Soluzioni ancora aperte
Il dibattito che si è riacceso in questi mesi ha messo in luce almeno tre diverse tipologie di proposte:
a) l'attribuzione di un buono-scuola ad ogni alunno, con possibilità di spenderlo liberamente nella "scuola su misura". Questa proposta mette a repentaglio l'attuale scuola pubblica e tende ad una totale privatizzazione del sistema formativo, subordinandolo alle diverse spinte dei "clienti". L'intervento pubblico diretto rimarrebbe solo per le situazioni marginali, mentre cadrebbe il valore legale del titolo di studio;
b) l'assunzione indiretta da parte dello Stato di una parte delle spese connesse alla frequenza scolastica, sotto forma di defiscalizzazione degli oneri sostenuti (tasse, rette, contributi), misura particolarmente significativa per chi frequenta scuole a pagamento. La proposta potrebbe evitare lo scoglio del "senza oneri per lo Stato" (anche se evidentemente si determina un mancato introito finanziario, da porre a carico della fiscalità generale) e non implica di per sè il rilascio della "patente" di scuola pubblica agli istitui privati;
c) la stipula di convenzioni con le scuole private (sia che vengano considerate pubbliche tout court, paritarie o semplicemente convenzionate) con erogazione di contributi finanziari a fronte della fornitura di un servizio educativo connotato da alcune garanzie di qualità. Il modello da seguire potrebbe essere quello delle imprese no-profit.
Esiste anche una quarta ipotesi,
che si attiene ad un rispetto "letterale" dell'art.
33 della Costituzione. Chiede una definizione di regole certe
anche per il settore privato, con il riconoscimento di una parità
esclusivamente giuridica, e limita il finanziamento
ad interventi compensativi e di supporto per gli studenti, a garanzia
del diritto allo studio per le fasce sociali più deboli.
È evidente che tutte e quattro le
proposte hanno un costo, seppur diverso, per lo Stato. I politici,
generalmente, si sono affrettati a dichiarare che deve trattarsi
di un budget aggiuntivo rispetto all'attuale finanziamento
per la scuola pubblica, anche se non mancano interventi tecnici
controcorrente, come quello di L. Ribolzi che, seguendo le tracce
di un'autonomia scolastica assai radicale, propone un totale rimescolamento
dei flussi finanziari in vista di una competizione per la qualità,
aperta alle scuole pubbliche e private.
Infine, per concludere il panorama,
è bene sapere che oggi esistono scuole private già
finanziate: si tratta delle scuole elementari parificate (la grande
maggioranza delle scuole private del settore) che ricevono un
contributo di 24 milioni annui per ogni classe funzionante) e
delle scuole materne non statali, che ricevono un contributo dallo
Stato per ogni sezione più esiguo (di circa 5 milioni)
ed in genere un più consistente aiuto dagli Enti locali
(alcune convenzioni si spingono fino ad 1 milione di contributo
per alunno frequentante).
Da queste coordinate dovrà riprendere il via il dibattito parlamentare sul disegno di legge del Governo, che si presenta come una faticosa quadratura del cerchio che dovrebbe attuare la Costituzione (parità giuridica di diritti e doveri), rispettarne il dettato (senza oneri per lo Stato), onorare gli impegni elettorali (riconoscere la funzione pubblica delle scuole private), non ridurre le risorse per la scuola pubblica (già compresse all'osso).
I prossimi mesi ci diranno se si
tratterà di una fatica di Sisifo o di una credibile strategia
politico-parlamentare verso le riforme nella scuola.
(1) Nella Tesi n. 66 del programma dell'Ulivo
si auspica la "pluralità dei soggetti di offerta scolastica,
garantendo controllo e standard qualitativi comuni, nell'ambito
di un unico sistema di istruzione pubblica, superando anche la
contrapposizione tra scuole statali e scuole non statali"
("La scuola è la base di ogni ricchezza" in "La
scuola che vogliamo. Materiali per la discussione del programma
dell'Ulivo su scuola e formazione", dicembre 1995).
(2) Nel documento "Una nuova idea
per la scuola" (13-7-1994) si sottolinea che è ormai
tempo di "pensare a un sistema formativo pubblico, nazionale
ed unitario, del quale partecipano scuole statali e non statali
che accettino e pratichino l'impegno di formare i giovani secondo
i valori costituzionali, secondo gli indirizzi generali stabiliti
dallo Stato e con un preciso sistema di valutazione.
(3) In un durissimo intervento su "Il
sole-24 ore" del 21-6-1997 ("Un problema di libertà")
l'Arcivescovo Alessandro Maggiolini paventa il rischio che il
sistema delle convenzioni esponga "continuamente i vari
soggetti educativi ai dettati e ai grilli dei potentati politici,
economici, sindacali, del momento". Nello stesso saggio l'autore
aveva rivendicato "l'indubbio vantaggio - delle scuole private -
di formare ad una mentalità precisa e a un comportamento
determinato", in quanto in esse "non si avrà
timore di prevaricare sugli alunni, offrendo un punto di vista
preciso di pensiero e di vita".
(4) La motivazione con cui il TAR dell'Emilia-Romagna
solleva questione di incostituzionalità di fronte alla
Corte attiene all'intervento legislativo della Regione Emilia-Romagna,
la Legge 52/95 volta a favorire la realizzazione di un sistema
integrato delle scuole d'infanzia basato sul progressivo coordinamento
e collaborazione fra le diverse offerte educative. Tali indirizzi
- secondo il TAR - andrebbero oltre le competenze della Regione;
solo allo Stato compete dettare norme generali sull'istruzione.
Inoltre, la definizione di parametri per il funzionamento potrebbe
configurare "un'ingerenza sull'organizzazione della scuola
stessa" (da Valore Scuola, n. 37/97).
(5) L'apposita Commissione di Studio
sulla parità ha proposto (a maggioranza) di reclutare i
docenti sulla base di concorsi pubblici indetti direttamente da
ogni scuola, sia pubblica che privata. L'accertamento delle competenze
dovrebbe verificare anche la conoscenza (e l'accettazione?) della
"specificità del metodo pedagogico, del mondo culturale
o del contesto religioso che caratterizzano le singole istituzioni
scolastiche". L'ipotesi di minoranza prevede invece concorsi
pubblici su base territoriale, escludendo "chiamate nominative
dirette o indirette degli insegnanti", pur lasciando aperte
soluzioni che introducono alcuni elementi di discrezionalità
da parte delle scuole (ad esempio, il non gradimento e la non
riconferma di nomina).
(6) Nel progetto di revisione della Costituzione, approvato dalla Commissione Bicamerale il 30-6-1997, il principio di "sussidiarietà" viene così definito: "Le funzioni che non possono essere più adeguatamente svolte dalla autonomia dei privati sono ripartite tra le Comunità locali, organizzate in Comuni e Province, le Regioni e lo Stato, in base al principio di sussidiarietà e di differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali, riconosciute dalla legge. La titolarità delle funzioni spetta agli enti più vicini agli interessi dei cittadini....".