RIORDINO DEI CICLI: tra vecchie nostalgie e
ansia di futuro
Verso la nuova scuola di base
Intervista a Giancarlo Cerini
vicepresidente nazionale del CIDI, collaboratore di Educazione&Scuola
Ora che il Ministro DE MAURO ha presentato il programma di attuazione della riforma dei cicli, sono state sollevate molte critiche. Che ne pensa?
La legge di riordino dei cicli delinea un quadro di ampio respiro, in grado di dare un "senso" alle tante azioni intraprese in questi anni (si pensi all’attuazione dell’autonomia scolastica, al dimensionamento delle scuole con le verticalizzazioni, all’elevamento dell’obbligo scolastico a 15 anni, ecc.). Oggi, con la cornice dei nuovi cicli, tutto il quadro delle innovazioni "si tiene" con maggiore coerenza. I punti di riferimento sono di forte impatto etico e democratico, in particolare l’estensione dell’obbligo formativo fino a 18 anni, che ci proietta in posizione avanzata rispetto alla stessa Europa. Si tratta ora di essere coerenti con questa impostazione, sotto il profilo delle necessarie scelte culturali, curricolari e didattiche, ancora in larga parte da compiere.
Tutto bene, dunque, per la "grande riforma"?
Non proprio. Non basta scrivere le leggi sulla Gazzetta Ufficiale per attuarle. Siamo appena agli inizi. Occorrono ancora passaggi importanti: bisogna elaborare i nuovi programmi (i curricoli nazionali) per la scuola rinnovata e in questo campo si sono accumulati molti ritardi. Inoltre, è preoccupante la sottovalutazione delle risorse finanziarie, di strutture e di personale necessarie per costruire una scuola all’altezza delle aspettative. Le riforme non si fanno a costo zero e purtroppo la legge n. 30/2000 (sui nuovi cicli) non prevedeva risorse aggiuntive. Infine, mi pare che manchi ancora la capacità di argomentare le "ragioni della riforma", di ascoltare gli insegnanti, di intavolare un fitto dialogo sulle "convenienze" ed i "benefici" dei nuovi cicli (sia per il paese, sia per gli insegnanti).
Come si può realizzare l’avvio della riforma nelle condizioni migliori?
Noto che si propone di accelerare l’avvio della riforma dal 1 settembre 2001, quasi per metterla al sicuro. Ho qualche perplessità su questa scelta. Preferirei un avvio più graduale (dal settembre 2002, con le classi iniziali, per tutti), ma lasciando alle scuole che si sentono pronte (gli istituti comprensivi, ad esempio) la possibilità di anticiparne l’attuazione fin dal settembre 2001. Naturalmente occorre garantire consistenti benefici (di organico funzionale, di riconoscimenti economici, di formazione e consulenza qualificata) a chi decide di partire in anticipo e di realizzare le modifiche del curricolo in tempi più serrati (in 2-3 anni, anziché i 5-6 previsti). Sono convinto che molte scuole sarebbero pronte ad impegnarsi nelle innovazioni. In fondo, è necessario dare fiducia alle singole scuole, considerarle ormai "mature" per un approccio consapevole e autonomo alle riforme. I cambiamenti vanno vissuti come scelta dal basso, piuttosto che come imposizione dall’alto. In molti paesi europei hanno lasciato che fossero le singole scuole a darsi i tempi della riforma (ovviamente, stabilendo un limite temporale oltre il quale non andare).
Si sentono molte preoccupazioni sul futuro della scuola elementare. Quale ruolo avrà la scuola elementare nella nuova scuola di base? E la scuola media che fine farà?
Uno degli elementi di forte novità del progetto di riordino è l’istituzione di una "scuola di base" unitaria, una prospettiva che raccoglie aspirazioni a lungo (e invano) sviluppate nella pedagogia italiana (si pensi a Bruno Ciari, tanto per fare un nome). Ora il traguardo è a portata di mano. Senza negare la storia (gloriosa) della scuola elementare (riformata da poco, con tanto lavoro svolto dai docenti) e della scuola media (a cui va riconosciuto il merito storico di aver elevato il livello culturale della popolazione italiana), occorre immaginare un nuovo progetto culturale ed organizzativo, per la formazione di base del "cittadino competente", in cui ciascun insegnante possa portare il meglio di sé e mettere un pizzico di passione.
Sembra emergere un’articolazione interna alla scuola di base, strutturata su un percorso 2+3+2. Qual è il suo parere rispetto a questa ipotesi. Quali sono stati gli orientamenti emersi dalla Commissione di esperti incaricata di studiare i nuovi curricoli?
Non bisogna enfatizzare gli schemi numerici (ne sono stati proposti svariati: 2+3+2, 4+3, 3+4 o 1+5+1). Le combinazioni possibili per arrivare a 7 sono tante. Il problema non può essere ridotto a questioni cabalistiche. Occorre costruire l’identità della scuola di base, partendo dai compiti e dagli obiettivi formativi assegnati alla nuova scuola e, soprattutto, dalle caratteristiche degli allievi. Un bambino di 6 anni presenta bisogni, esigenze, potenzialità diverse dal preadolescente di 13. Nella nuova scuola di base occorre tenere in equilibrio le esigenze della discontinuità (per offrire nuovi stimoli, nuovi incontri, nuove proposte) e quelle della continuità (per rispettare i ritmi di sviluppo e favorire un apprendimento consapevole e personalizzato). Per queste ragioni avevo sostenuto un’ipotesi di articolazione del settennio in due momenti coordinati, ma distinti: una prima fase di 3 anni, in cui dedicare la massima attenzione all’acquisizione delle competenze di base (non solo leggere e scrivere, ma anche parlare, osservare, rappresentare, ecc.) in un ambiente educativo sereno e accogliente (basato sulla centralità della classe e sulla presenza di un team docente essenziale: es. 2 docenti, come nel tempo pieno); una seconda fase, di 4 anni, ove strutturare l’apprendimento per aree disciplinari (linguistica, matematica e scientifica, storico-antropologica, dei linguaggi espressivi) affidate a team integrati di docenti elementari e medi (sulla base di competenze accertate), con moduli biennali (4-5^ classe, 6-7^ classe).
La proposta contenuta nel piano di attuazione (2+3+2) sembra molto diversa dai modelli di cui si era discusso in commissione?
La proposta contenuta nel Piano di attuazione non esclude altre ipotesi: la periodizzazione 2+3+2 non va interpretata come rigida scansione in tre sotto-cicli (si rischierebbe di tornare alla situazione esistente), ma piuttosto come invito a ben graduare e distinguere la progressione del curricolo settennale. Spetta poi ad ogni scuola (avrei comunque preferito una indicazione più "netta" dal centro) caratterizzare il triennio intermedio del ciclo 2+3+2 come luogo dell’integrazione tra le esperienze del biennio iniziale (prima alfabetizzazione) e del biennio finale (incontro con le discipline). In questo triennio intermedio, il primo anno potrebbe essere dedicato al consolidamento dell’alfabetizzazione funzionale, il secondo e terzo anno potrebbero rappresentare l’avvio dell’incontro dei bambini con l’organizzazione del sapere in grandi aree (ambiti disciplinari). Questo biennio (4-5^ classe) dovrebbe rappresentare lo snodo in cui sperimentare team integrati di insegnanti elementari e di scuola media. L’ultimo biennio (6-7^ classe) vedrà la presenza prevalente degli insegnanti di scuola media. Ma, al di là di queste prime "rassicurazioni" ciò che conta saranno le effettive competenze dei docenti.
Come dovrà cambiare la cultura professionale dei docenti soprattutto nella scuola di base?
L’integrazione tra docenti appartenenti a storie e contesti professionali oggi molto diversi rappresenta uno dei nodi della riforma. Non si può pensare ad una "convivenza" forzata, né al mantenimento delle attuali separatezze. Va favorito un progressivo avvicinamento nella progettazione e nella gestione di una didattica integrata (un po’ come avviene negli istituti comprensivi, oggi in forte espansione). Posto che tutti i docenti che operano nella scuola di base devono avere i medesimi diritti e doveri (con una professionalità che, anche con i corsi di laurea, tenderà a diventare più omogenea), si può pensare ad una diversa assegnazione di compiti e funzioni tra coloro che aspirano ad insegnare nei primi anni del ciclo (ove prevale un’attenzione ai vissuti esperienziali dei bambini, alla relazione di accompagnamento, alla padronanza dei linguaggi di base), e coloro che –siano essi maestri o professori – abbiano maturato una buona competenza sui saperi disciplinari e sull’organizzazione dell’insegnamento per ambiti. Tutto questo richiederà una intensa attività di formazione in servizio, superando le vecchie formule dei corsi di aggiornamento, per costruire percorsi personali di sviluppo professionale, anche con periodi sabbatici presso università e centri di ricerca. Non dimentichiamo che la riforma andrà in porto solo se sarà vissuta dai docenti come un processo di crescita culturale e professionale, per la valorizzazione del proprio lavoro e delle esperienze fin qui maturate.