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Si chiamava diritto allo studio (a 3
anni) di Giancarlo Cerini Una storia prestigiosa Che succede alle scuole considerate il nostro
gioiello di famiglia? Ci riferiamo alle scuole dell’infanzia italiane,
giudicate non a torto, tra le migliori al mondo. I tassi di frequenza
sono (erano?) tra i più alti in Europa: oltre il 97% dei bambini dai 3
ai 5 anni risulta iscritto, mentre l’Europa si pone ancora l’obiettivo
del 95% al 2020. I livelli di qualità sono certamente differenziati
(questo è il cruccio vero del sistema educativo del nostro paese), ma in
genere con uno standard elevato, nonostante (o forse proprio perché) il
settore prescolastico sia storicamente articolato in scuole statali,
comunali, private paritarie. La sua presenza è assai capillare, conta su
una rete di oltre 24.000 (micro)strutture scolastiche, una vera scuola
di “prossimità”, molto vicina alle comunità di riferimento. Gode di
programmi didattici avanzati (gli Orientamenti del 1991 fanno ancora
testo) e di un corpo insegnante motivato verso il proprio lavoro,
disponibile a rimettersi in gioco e a curare il proprio aggiornamento.
E’ vero, la ferita dell’anticipo a 5 anni non è stata ancora rimarginata
(perché metteva in crisi un progetto triennale apprezzato), mentre i
pasticci sul fronte dell’anticipo a 2 anni[1]
non hanno consentito di far decollare, come auspicato, l’esperienza
delle sezioni primavera (per i bambini dai 2 ai 3 anni), come servizio
complementare all’asilo nido e alternativo all’anticipo[2]. Le cattive notizie Di qui, a partire dalla persistente immagine
positiva, cominciano le cattive notizie: - certi Comuni non riescono più a sostituire
nelle loro scuole dell’infanzia il personale di ruolo che va in
pensione, tanto che in alcune prestigiose realtà comunali il 50% del
personale è supplente! Sembra incredibile! - in alcune scuole statali del sud, ci sono mamme
che vanno a ritirare i bambini all’ora della mensa, perché non possono
permettersi di pagare la retta[3]; - in tante realtà sono tornate a fiorire le liste
d’attesa, un fenomeno che era stato superato almeno da vent’anni, grazie
anche all’intervento programmato e progressivo dello Stato nel mettere a
disposizione i posti necessari per l’espansione del servizio; - in altri comuni (anche questi prestigiosi) si
stanno ormai esternalizzando parti del curricolo, non meramente
integrative (lo capiremmo…), ma essenziali come il pomeriggio (non il
prolungamento del tardo pomeriggio) o le attività di sostegno; - a volte lo Stato apre una nuova sezione, ma
assegna un solo docente (quando il modello ad ordinamento –Dpr 89/2009-
nel 91% dei casi prevede un orario a tempo lungo, con il doppio
organico), costringendo Regioni, Enti locali, genitori a doppi e tripli
salti mortali per assumere una qualche figura avventizia per assicurare
un minimo di durata del servizio; - le risorse pubbliche per le sezioni primavera
stanno diminuendo, i tempi ed i ritardi burocratici negli indispensabili
accordi rendono difficoltosa la prosecuzione di una esperienza
promettente. Sul piano finanziario, i costi richiesti per
frequentare una scuola dell’infanzia (comunale, statale, o privata)
stanno salendo incredibilmente, perché mensa, servizi di scodella mento
(!?), prescuola, ed altre “accise” portano spesso la quota mensile di
frequenza anche verso i 200-300 euro mensili, facendo tornare
l’iscrizione alla materna un onere “individuale” per le famiglie,
piuttosto che una struttura educativa per tutti. Ve lo immaginate se la
famiglia benestante che manda al liceo statale il proprio figliolo si
sentisse richiedere una retta annuale di 2-3.000 euro (quando oggi c’è
chi mette in mora il preside perché ha osato chiedere un contributo di
150 euro annue, assicurazione compresa?). Riscoprire un diritto civile Insomma, qualcosa non va nella nostra civilissima
Italia. Se quello che fin dagli anni ’70 veniva considerato un diritto
(“il diritto allo studio comincia a tre anni” titolava un volumetto di
battaglia pubblicato a quel tempo dagli Editori Riuniti, ad opera del
volitivo assessore comunale Liliano Famigli), ma se quel diritto
universale oggi è rubricato ad un mero servizio a domanda individuale,
subendone tutte le conseguenze sul piano tariffario e del contributo
chiesto ai genitori, l’educazione della prima infanzia sta
correndo serissimi problemi, nelle aree forti e deboli del nostro paese,
nel sistema pubblico e nel sistema privato (anche lì, le risorse sono
state congelate), in controtendenza rispetto alle stesse indicazioni
europee. Che ne sarà del motto “Starting strong” (“partire
alla grande”) che stava scritto nel Rapporto Ocse sulla scuola dei
piccoli[4],
che pure premiava il modello italiano? Come onorare l’indicatore
(Indagine Pisa 2009) che mette in correlazione la frequenza della scuola
dell’infanzia con un migliore successo negli apprendimenti a 15 anni?
Come promuovere un rafforzamento della formazione nella scuola di base
(oggi rilanciata dall’idea di generalizzare gli istituti comprensivi[5]),
che richiede di dare piena dignità e vigore al primo incontro con i
saperi, dai 3 ai 5 anni? Come superare il dislivello di offerta che si
manifesta tra i comparti 0-3 anni (gli asili nido, fermi al 15%) e 3-5
anni (le scuole dell’infanzia, ormai al 97% ma con le criticità che
abbiamo visto)? Come essere coerenti con le tradizioni, vecchie e nuove,
della ricerca pedagogica italiana sull’infanzia, fatta di illustri
accademici ma anche di tante “esperienze” innovative promosse sul campo? Sono interrogativi ineludibili, che richiedono
risposte di ordine politico, tecnico-amministrativo, legislativo,
professionale. Comune e “terzo” settore Intanto sembra urgente un provvedimento di legge
che sfili il settore delle scuole dell’infanzia comunali dai vincoli
capestro che condizionano i Comuni (mancata sostituzione dei
pensionamenti, tetti di spesa per le supplenze, mancato reclutamento di
nuovi docenti, interventi per il sostegno, ecc.) adottando le stesse
regole vigenti nel parallelo settore statale. Qui è a rischio la stessa
sopravvivenza della terza filiera (quella comunale) del settore
infanzia, che tanto ha dato all’intero sistema educativo italiano. Già
si sentono assessori affermare che la gestione delle scuole comunali non
rientra tra le priorità dell’ente locale, che è una situazione del tutto
residuale, che ben venga una bella “statizzazione”, così finirebbero
l’incertezza ed i problemi di bilancio. Ma in questo modo si priverebbe
il sistema di una linfa vitale (posto che si recuperino le criticità di
oggi). Servono decisioni rapide, come hanno segnalato le neo-assessore
all’infanzia dei Comuni di Napoli, Milano, Torino e Bologna[6]. Per lo stesso motivo si dia garanzia di contributi
pubblici al settore privato (quelli statali previsti da leggi, quelli
regionali e comunali previsti da convenzioni), ma si dica chiaramente
che il privato che riceve finanziamenti pubblici deve rispettare i
criteri propri di una scuola che ambisce svolgere una funzione pubblica.
Non sempre si accolgono utenti a prescindere da condizioni sociali,
etniche, religiose (economiche…); non sempre si coordinano le
iscrizioni, dando vita a concorrenza impropria (ad esempio, tutti
dovrebbero farsi carico della presenza di bimbi stranieri); il sistema
dei controlli è troppo evanescente. La scuola privata vorrebbe il
riconoscimento automatico di “pubblica”, ma le nostre leggi (la 62/2000
di berlingueriana memoria, detta di “parità”) pongono regole che vanno
rispettate (che dire degli allievi fuori età? dei contratti di lavoro
dei docenti? dei programmi didattici?). La sussidiarietà non significa
che lo Stato e gli Enti pubblici abbandonano il loro dovere di dare
indirizzi, standard, garanzie, a piccoli e grandi.[7] Gli impegni dello Stato Ma intanto lo Stato deve prendersi cura delle sue
scuole: sono ben 13.553 scuola (56% del comparto), 993.226 bambini
(59,1% dei bambini), 81.197 insegnanti di ruolo, il settore
maggioritario del comparto, cresciuto in poco più di 40 anni (dalla
mitica legge 444 del 18-3-1968, quella che fece cadere diversi Governi).
Andare a scuola a tre anni costituisce in quasi tutte le Regioni il
primo impatto di genitori e allievi con una istituzione pubblica, che
rappresenta una garanzia di uguaglianza di opportunità, di incontro con
la lingua e la cultura del nostro paese (in un ambiente sempre più
plurilingue). E’ un tassello fondamentale della cittadinanza, che va
difeso con più ostinazione di quanto facciano le leggi. Spesso, con
l’alibi che la scuola dell’infanzia non è obbligatoria, si deve
registrare il disimpegno delle istituzioni, non si provvede di fronte a
domande effettive di scolarizzazione, il servizio non viene garantito
nella sua universalità. Riteniamo che la scuola dai 3 ai 5 anni possa
continuare a non essere obbligatoria, per non omologarla o “anticiparla”
rispetto a compiti formativi che sono successivi, ma che il suo “status”
giuridico debba essere quella di una istituzione educativa da garantire
con certezza. Oggi c’è una richiesta pressante di servizi
educativi, ma bisogna seguire meglio le dinamiche demografiche e le
nuove zone di insediamento, facendo fronte alle aree di criticità (detto
in altre parole: occorre predisporre uno stock di sezioni aggiuntive e
di insegnanti ogni anno, per rispondere alle richieste inevase). Occorre
rilanciare la formazione e la ricerca didattica tra il personale (e
l’approccio al monitoraggio delle Indicazioni è una risposta tardiva e
al momento insufficiente)[8],
soprattutto per trasmettere sapere e passione ai nuovi insegnanti,
valorizzando le competenze di quegli insegnanti magari vicini alla (o
già in) pensione, che hanno dato molto in questa direzione.
Sezioni ed insegnanti non sono le uniche condizioni
che fanno qualità. Pensiamo al personale ausiliario (questione che non
si può liquidare con l’infelice battuta che non servono i carabinieri a
scuola) perché l’assistenza educativa a 3 anni significa autonomia,
corpo, sicurezza, benessere, identità. Pensiamo ai cosiddetti “servizi”
(il trasporto, la mensa, ecc.) perchè non sono un optional e “fanno
qualità” e quindi le quote di partecipazione finanziaria degli utenti
devono essere calmierate e rese sostenibili. Una “survey” per la “materna” Sono dunque molti i punti di attenzione che dovremo
riservare a questo delicato ma decisivo segmento del nostro sistema
educativo, non solo per mantenere e confermare le nostre buone
posizioni, ma per rilanciare l’idea di una scuola dell’infanzia di
qualità, plurale nella sua gestione, ma accomunata nella ricerca di
standard educativi di elevato spessore. Si ricostituisca al centro un nucleo pensante, un
osservatorio (che potrà essere posizionato al MIUR, ma che dovrebbe
aprirsi ad una logica inter-ministeriale e inter-istituzionale),
che veda le diverse iniziative che si possono “cantierare” per
salvaguardare la qualità (e la quantità) delle nostre scuole
dell’infanzia. Serve una “survey” sul sistema educativo 3-5 anni che
aiuti a capire meglio quali sono le condizioni che possono favorire il
persistere della buona scuola dell’infanzia italiana.
[1]
Vedi l’interessante pronuncia del CNPI sulle sezioni primavera,
espresso nella seduta del 23 novembre 2011 (Documento
di contributo sulla situazione e sul monitoraggio relativi alle
sezioni aggregate alle scuole dell’infanzia per i bambini da 24
a 36 mesi.). Esiste in proposito un dettagliato rapporto del
MIUR con i dati più significativi di una esperienza avviata
nell’a.s. 2007/08 e che ha portato a costruire un nuovo segmento
di servizio all’infanzia, che interessa circa 20.000 bambini.
Proprio per questo – scrive il CNPI nella sua pronuncia - le
sezioni primavera, all’interno di un
quadro complessivo che deve essere prioritariamente
assicurato con risorse certe per il rilancio di tutta la scuola
dell’infanzia e più in generale di rafforzamento dei servizi
educativi per la fascia di età 0-6, meritano di essere seguite
con attenzione per correggerne e migliorarne l’impianto
attraverso una efficace azione di formazione e di supporto agli
operatori impegnati.
[2] Secondo i dati forniti
dal MIUR sarebbero circa 85.000 i bambini che frequentano in
anticipo la scuola dell’infanzia (51.000 nelle scuole statali,
34.000 nelle scuole paritarie), pari al 15% della leva di età.
Un decimo degli anticipatari risulterebbero nati dopo il 30
aprile, quindi o “fuori norma” oppure inseriti nei “piccoli
gruppi misti” previsti dal Dpr 89/2009 come terza tipologia di
anticipo (anticipo vero e proprio, sezione primavera, piccoli
gruppi).
[3]
L’atlante dell’infanzia a
rischio, pubblicato nel 2011 dall’associazione “Save the
Children”, rivela che il 18,2% dei bambini in Italia vive al di
sotto della soglia di povertà, rispetto al 14,5% in Europa. I
dati sono fortemente differenziati tra le regioni, con punte
elevatissime in Campania, Sicilia e Basilicata. Vedi:
http://atlante.savethechildren.it/
.
E’ un argomento su cui più volte è
intervenuto il neo-sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi
Doria: http://marcorossidoria.blogspot.com/2011/11/giornata-mondiale-dei-diritti-dei.html
[4] Reggio Children,
Associazione Treellle (in collaborazione con OCSE),
La scuola dell’infanzia,
Seminario n. 7, settembre 2006. Una sintesi del seminario:
http://archiviostorico.corriere.it/2006/settembre/22/Pochi_fondi_alle_materne_Italia_co_9_060922016.shtml
[5] G.Cerini,
Toh, chi si rivede… gli
istituti comprensivi, in edscuola.it:
https://www.edscuola.it/archivio/riformeonline/toh_chi_si_rivede.html
[6] http://www3.lastampa.it/torino/sezioni/cronaca/articolo/lstp/430739/
[7]
Si legga l’ultimo libro di Sabino Cassese per averne conferma:
Una società senza Stato? Il Mulino, 2011 dove l’autore segnala
che [8] Un articolato documento sul monitoraggio delle Indicazioni (avviato sulla base della CM 101/2011) è stato predisposto dal Cidi, Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti: http://www.cidi.it/documenti/Monitoraggio22nov11.pdf |
La pagina
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