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Istituti comprensivi: stop and go…
L’istituto comprensivo racchiude in sé l’idea di
una scuola (di base) che gode della fiducia della propria comunità,
perché si impegna in un progetto educativo visibile e coerente. Ma
affinché questo avvenga, anche in presenza di pesanti contingenze
economiche, è necessario aprire una riflessione a tutto campo, non
limitandosi a prendere atto dell’incidente di percorso dell’art. 19
della legge 111/2011 (generalizzazione obbligatoria del comprensivo), ma
ritornando alle ragioni profonde di questa scelta. Le idee che esponiamo di seguito, in forma di
stringati “appunti di viaggio”, sono state raccolte e rielaborate
durante incontri di lavoro, dibattiti, relazioni, tenuti in queste
settimane a Sassuolo (MO), Ravenna, Riccione (RN), Frosinone, Torino,
Cremona, Palermo, Roma, Cervia (RA), Scanno (AQ). Ma il viaggio
continua… Se parliamo
(solo) di numeri:
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nel dibattito sui “comprensivi” non ci si
può appassionare solo ai numeri, trasformando un’operazione che potrebbe
modificare – in positivo – la stessa identità e immagine della scuola di
base italiana (proiettandola verso una prospettiva più europea), in una
semplice operazione di razionalizzazione (verrebbe confermata una
ratio economicistica, che se è indubbia, non può annebbiare tutto il
resto);
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se si ridisegna l’intera geografia degli
istituti comprensivi, occorre più tempo (almeno il biennio 2012-13 e
2013-14, se non un periodo ancora più lungo: triennale o quadriennale),
ma senza che ciò si trasformi in alibi o inerzia;
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è utile una gradualità che consenta di
calibrare le scelte partendo da quelle che paiono già mature e naturali
ed invece affrontando le soluzioni più complesso, con un lavoro di
approfondimento, ma con una ipotesi complessiva già prefigurata, per
evitare di montare e smontare tutta l’offerta formativa di un territorio
nel giro di pochi anni;
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al di là della “pezzatura” (indicatori
numerici) ciò che conta è la coerenza (contiguità) territoriale della
scelta del comprensivo; ci deve essere una prospettiva credibile di
continuità effettiva del percorso formativo dai 3 ai 14 anni;
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costruire istituti comprensivi nelle
grandi città richiede un supplemento di lavoro istruttorio, perché
“grandi” scuole non si prestano facilmente ad operazioni di
aggregazione, bisogna darvi un “senso”; in alcuni casi potrebbe essere
opportuno “innestare” corsi di diverso grado nello stesso edificio ora
monovalente;
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in alcune regioni la scansione proposta
nelle “Linee guida” (ogni regione sta diffondendo le sue) è di 20-60-20,
in percentuali di operazioni da fare nel triennio 2012-2015;
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un piano pluriennale può consentire di
convergere verso alcuni standard omogenei di dimensionamento, che
dovrebbero certamente riguardare tutti gli istituti comprensivi di
vecchia e nuova generazione;
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l’idea che quota 1000 riguardi solo i
nuovi comprensivi è assai bizzarra sul piano logico e giuridico, anche
se avvallata da parecchie Regioni ed enti locali; è un’idea difensiva,
ma non è sostenibile che la dimensione delle scuole vari in base
all’anno di costituzione dell’istituto. E’ pur vero che per
“armonizzare” le dimensioni di tutte le istituzioni (fatte salve le
specificità territoriali) è necessario uno studio di fattibilità più
approfondito;
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in prospettiva dovrebbe esserci una certa
comparabilità tra scuole del primo e del secondo ciclo: dopo il disposto
dell’art. 19 della legge 111/2011, i criteri sono nettamente sbilanciate
a sfavore del primo ciclo (ci si chiede: perché un istituto comprensivo
deve raggiungere una soglia di 1000 alunni, mentre una scuola secondaria
di II grado può fermarsi a quota 501?);
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per motivare il “contenimento” dei
parametri numerici, va detto che il modello “comprensivo” non è affatto
più semplice sul piano organizzativo, in esso convergono più ordini
scolastici (materna, elementare, media), spesso più Comuni;
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occorre consolidare il dato normativo; ad
oggi ci sono molte incertezze sulla “solidità” delle soglie prospettate
nella legge 111/2011 (in provvedimenti di legge in itinere si parla di
uno standard minimo di 600 alunni (anziché di 500), per poter mantenere
la dirigenza, riducibile a 400 nelle aree di montagna (oggi 300);
Se parliamo
di modello organizzativo:
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la quota 1000 viene generalmente
considerata “faticosa” (ma i pareri sono discordanti: attualmente ci
sono molte esperienze positive su istituti collocati verso quota 800, ma
anche grandi scuole di 1200-1300 allievi che sembrano funzionare bene);
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si consolida l’idea che piuttosto che di
una soglia minima, sia necessario agire su fasce di “confidenza” (ad es.
se si mantiene quota 1000, la fascia dovrebbe andare da 800 a 1200);
comunque l’operazione ”dimensionamento” non è un semplice “ritaglio”
numerico, ma deve essere rispettosa di un dato territoriale ed
antropologico;
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quale che sia la quota, è necessario
ripensare a fondo le condizioni di esercizio della dirigenza, ad esempio
in termini di staff di figure intermedie, di responsabili di plesso, di
esoneri e semiesoneri, di funzionamento dei servizi di segreteria;
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un istituto di maggiori dimensioni (verso
quota mille, piuttosto che quota settecento, come
era fino ad oggi in virtù del
Dpr 233/1998), mette a rischio l’idea di comunità di apprendimento, che
si alimenta con relazioni professionali significative e non anonime;
l’istituto resta un ambito di riferimento importante, ma si deve
riscoprire anche il valore del plesso (scuola) come luogo di
condivisione di scelte, di identità, di collaborazione e legame con la
comunità di riferimento;
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non è marginale il ruolo del dirigente
scolastico, egli impersona anche fisicamente l’unitarietà
dell’istituzione verticale; proiettarlo su scuole di grandi dimensioni
può modificarne definitivamente la funzione: da una leadership educativa
che richiede contatto, empatia, convivialità, briefing informali ad una
managerialità costretta nella scansione degli appuntamenti formali e
degli adempimenti amministrativi; Se parliamo
di comunità professionale
-
l’identità (la storia) dei docenti che
vanno a ricomporre un istituto comprensivo deve essere valorizzata,
favorendo un processo di reciproco riconoscimento tra i docenti dei
diversi settori scolastici, svelando anche le dinamiche sottese al
codice materno (primario?) e al codice paterno (secondario?),
interpretato dalle diverse tipologie di scuole;
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la condizione indispensabile per “fare
comunità” professionale resta quella di un organico funzionale di
istituto, cioè di un quadro di risorse umane che consenta di far fronte
a bisogni differenziati in forme flessibili e, comunque, con organici
non semplicemente commisurati agli orari di cattedra;
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va da sé che anche la struttura
dell’orario di lavoro dei docenti dovrebbe superare l’ancoraggio
all’orario frontale di insegnamento, e muoversi verso una dimensione
onnicomprensiva (tutoraggio, supporto, progettazione, laboratorio,
ecc.);
-
non c’è spazio per una generica
collegialità, che va piuttosto finalizzata alla condivisione di scelte
strategiche;
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un luogo fondamentale per una crescita
dell’istituto comprensivo è quello dei dipartimenti verticali,
organizzati per discipline o grandi ambiti del sapere;
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progetti comuni possono rinsaldare
l’identità educativa dell’istituto, la collaborazione tra i diversi
segmenti, l’immagine e la credibilità verso l’esterno;
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l’istituto, che lambisce l’esperienza del
nido e della scuola superiore, deve saper esprimere un’ampia gamma di
competenze professionali e specialistiche per affrontare una notevole
varietà di situazioni e di problemi;
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un’azione di accompagnamento/formazione
potrebbe rivolgersi come scelta strategica ad una rete intermedia di
“figure sensibili” in grado di presidiare i diversi gangli nervosi
dell’istituto comprensivo (dipartimenti, progetti, rapporti, plessi,
ecc.). Gli enti locali di riferimento potrebbero promuovere e finanziare
processi di accompagnamento; Se parliamo
di ricerca curricolare e didattica
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non basta il mito della continuità, se
questa è associata ad una idea generica di semplificazione e
impoverimento del percorso formativo: meglio introdurre anche il tema
della discontinuità “utile” (per gli allievi), che va però costruita con
una regia comune (degli insegnanti);
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c’è bisogno di discontinuità per
crescere: i ragazzi possono e devono fare cose sempre più “difficili”,
ma gli insegnanti devono svolgere una funzione di accompagnamento che
emancipa gli allievi;
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il curricolo verticale, in progressione,
evolutivo, potrebbe utilmente essere scandito in bienni verticali e di
snodo; ad esempio, consigli di classe per biennio (pensiamo a quello 5^
elementare – 1^ media) sono utili per accompagnare/favorire lo sviluppo
di competenze effettive, offrendo un periodo più lungo di incubazione
cognitiva ed emotiva;
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ogni biennio (1-2, 3-4, 5-I, II-III
media) potrebbe essere qualificato da una mission specifica (unitarietà,
integrazione, specializzazione, opzionalità, se prendiamo le diciture
prescelte a Trento per caratterizzare i Piani provinciali di studio ivi
vigenti);
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è importante contrappuntare il percorso
verticale che porta ad un profilo di uscita (a 14 anni), con step in
progressione (classe per classe o bienni per bienni), condivisi e
sufficientemente descritti in compiti di apprendimento;
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i livelli, più che “gradini”, dovrebbero
essere la descrizione dei traguardi che un allievo “vede” davanti a sé,
su cui fondare anche certificazione, autovalutazione, standard di
riferimento;
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un lavoro utile può essere quello di
coordinare i sistemi di valutazione e di certificazione tra i diversi
gradi scolastici;
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si può spostare il baricentro del
curricolo verticale verso l’alto (anche con la scelta di dislocare
fisicamente la 5^ elementare presso la scuola media), con un ritmo 4+4;
In sintesi, l’istituto comprensivo si presta ad una
vocazione “sperimentale”, di ricerca delle migliori condizioni per
rafforzare i livelli di apprendimento dei ragazzi, personalizzarne i
percorsi educativi, arricchire di opportunità l’offerta formativa,
utilizzare in modo integrato le risorse educative del territorio. Questa
“ambizione pedagogica” non può essere tradita da scelte frettolose
dettate dalla contingenza del momento, perché è in gioco il futuro - per
almeno il prossimo decennio – della scuola italiana. (3 novembre 2011) |
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