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Si fa troppo
presto a dire (sì o no, alla)
valutazione...
[1] di Giancarlo Cerini Tutti d’accordo sulla valutazione? Non c’è progetto politico o culturale che,
nell’evocare un futuro migliore per la nostra scuola[2],
non inserisca la “valutazione” tra le parole “forti” per costruire gli
auspicati nuovi scenari educativi. L’esigenza è talmente ovvia, da
rasentare il “politically
correct”, magari per giungere, una volta tanto, a soluzioni
condivise per una auspicata vera riforma della scuola. Non sarebbe un
risultato da poco, visto che da ormai un quindicennio il confronto sulla
scuola appare aspro e senza possibilità di intesa: quasi uno scontro di
“civiltà”. Oggi, però, la società politica, ed ancor più quella civile,
sembrano concordi nel chiedere di introdurre dosi massicce di
valutazione nel sistema educativo. L’approvazione praticamente
all’unanimità della legge 176/2007, che introduce le rilevazioni
generalizzate degli apprendimenti, è un fedele termometro di questo
sentimento che associa la parola valutazione a responsabilità,
autonomia, qualità. Ma è sul fronte “interno” che si manifestano le
maggiori diffidenze, tra gli insegnanti e le loro rappresentanze
professionali e sindacali, a partire dalla diffusa ostilità nei
confronti delle prove Invalsi. Queste resistenze non possono essere
liquidate chiamando in causa la tradizionale autoreferenzialità (quasi
riottosità) degli addetti ai lavori, che sarebbero da sempre refrattari
(e non solo in Italia) nei confronti di strumenti valutativi considerati
eccessivamente invasivi. Evidentemente c’è dell’altro, e occorre
chiarire meglio i termini della questione, per costruire una cultura
della valutazione sufficientemente condivisa anche all’interno della
scuola, oltre che dall’opinione pubblica. Una deontologia della valutazione Prima ancora degli strumenti, delle scelte
tecniche, è però necessario definire il “senso” della valutazione,
perché la si vuole rendere più incisiva e affidabile. Almeno per
sgomberare il campo dall’idea che valutazione coincida con controllo,
sanzione, giudizio, quindi con un significato negativo, quasi
minaccioso, certamente non amichevole. La valutazione degli allievi
assume talvolta una funzione “espulsiva” (si pensi al valore non solo
simbolico della bocciatura)[3],
ma deve soprattutto consentire di migliorare l’insieme delle azioni di
tutti i soggetti e fattori implicati nella relazione educativa (gli
allievi, gli insegnanti, ma anche l’organizzazione, le strutture,
l’amministrazione). Svolge dunque una funzione di regolazione dei
processi, introduce momenti di riflessività, stimola il miglioramento,
sul piano degli apprendimenti degli allievi, ma anche su quello
istituzionale[4].
In questa stagione di crisi acuta nel rapporto
tra scuola e società civile, si deve ammettere che una maggiore
trasparenza in fatto di valutazione è un prerequisito per riposizionare
la scuola agli occhi dell’opinione pubblica, per ridefinire un patto di
reciproca fiducia (risorse in cambio di qualità). A monte dell’intera
questione c’è dunque un problema etico, deontologico, prima ancora che
docimologico. Forse il ripristino del voto nasce da questo clima, ma
rivela anche la debolezza dell’attuale discorso pubblico sulla
valutazione, quasi che la (presunta) semplicità del voto fosse in grado
di nascondere la complessità dell’azione valutativa, quasi che l’enfasi
sui risultati da raggiungere facesse dimenticare la qualità dei processi
cognitivi e sociali da promuovere. La valutazione non può essere un
blitz docimologico. Valutare solo l’apprendimento degli allievi? Ma preliminare è
anche delimitare gli oggetti della valutazione: che cosa si
dovrebbe valutare? Oggi c’è una forte enfasi sulla valutazione degli
apprendimenti degli allievi: prove standardizzate somministrate ad
intere leve di allievi del primo e secondo ciclo, introduzione di una
prova nazionale strutturata nell’ambito dell’esame di terza media,
partecipazione dei quindicenni alle indagini internazionali PISA,
richiesta di certificare le competenze lungo tutto il percorso
scolastico. Qualche osservatore ha parlato di un vero e proprio
accanimento o di ossessione valutativa, paventando
gli effetti deleteri sulla vita
delle classi, con l’emergere di un conformismo cognitivo a scapito degli
aspetti relazionali, operativi, creativi, divergenti dell’apprendimento.
Certamente l’impatto simbolico di tali scadenze è rilevante, forse gli
effetti pratici lo sono assai meno. Occorre però riequilibrare l’attuale
tendenza tutta spostata sulla rilevazione degli apprendimenti e mettere
a fuoco altri aspetti determinanti per la qualità di una scuola[5]:
a)
gli apprendimenti non compresi nelle
rilevazioni strutturate (limitate a italiano e matematica) e comunque
osservati anche con procedure non standardizzate;
b)
il clima etico-sociale ed i valori
promossi a scuola (es.: competizione o cooperazione, inclusione o
esclusione, integrazione o separazione?);
c)
gli effetti a lunga scadenza (l’outcome),
nelle scuole successive, nel lavoro, nella vita;
d)
il gradimento degli utenti, della
comunità, degli stakeholder;
e)
i fattori organizzativi interni, in
primis la qualità degli apporti professionali delle diverse componenti,
in particolare di docenti e dirigenti. Il discorso ci porterebbe lontano, ma non
possiamo poggiare la valutazione sulle sole spalle degli allievi, senza
investire tutti gli elementi del sistema educativo, non fosse altro per
arricchire le informazioni di contesto, utili ad apprezzare il “valore
aggiunto” prodotto dall’intervento della scuola.
L’impatto delle rilevazioni nazionali E’ giusto sottolineare il carattere conoscitivo e
non fiscale che le prove Invalsi vengono ad assumere per le classi
intermedie, ma è anche evidente che una somministrazione così massiccia
e generalizzata (obbligatoria) delle prove per intere leve di
popolazione scolastica (tutti gli allievi di tutte le classi seconde e
quinte elementari, prime e terze medie, seconde e quinte superiori)
finisce con l’assumere un forte rilievo istituzionale. Il fatto poi che
le prove strutturate siano state inserite all’interno di una prova
d’esame (3^ media) cambia anche il significato delle rilevazioni,
intanto per gli effetti legali che producono[6].
Basti pensare al
range di difficoltà delle
prove: se sono proposte a scopo unicamente conoscitivo si può in via
teorica spingere a fondo anche verso l’eccellenza (per esplorare aree di
sviluppo potenziale dell’apprendimento), se invece hanno un valore
legale occorre maggiore cautela, ad esempio un più chiaro collegamento
con gli insegnamenti effettivamente impartiti. Se ci forniscono informazioni utili a migliorare
la qualità della didattica per ogni scuola, è giusto che le prove siano
censuarie[7],
controbilanciate però dall’impegno che i dati siano utilizzati in via
riservata, in termini tecnico-professionali, solo dagli operatori della
scuola interessata. Tali dati, dunque, non possono essere resi pubblici
al dettaglio di scuole e di classi. Questo è anche il “patto d’onore”
che al momento lega le scuole all’INVALSI[8],
anche se non ci nascondiamo il fatto che molti opinionisti (e forse lo
stesso Ministro) spingono per la completa pubblicità di risultati delle
prove. Ma autorevoli esperti hanno messo in evidenza che un simile
meccanismo provocherebbe un’ulteriore differenziazione tra buone e
cattive scuole.[9]
La qualità delle prove Molte delle critiche rivolte all’Invalsi fanno
riferimento all’estraneità delle prove rispetto alle pratiche didattiche
correnti. Se vige un’ampia autonomia didattica e curricolare, che tiene
conto delle caratteristiche degli allievi e dei diversi contesti
sociali, come è possibile sottoporre tutti gli allievi alle medesimi
prove? E’ evidente che la questione potrebbe essere rovesciata: se la
differenziazione tra le proposte didattiche è così accentuata non
rischia forse di venire meno il valore unificante della scuola pubblica?
E non potrebbero proprio essere gli stimoli forniti da prove nazionali a
favorire una maggiore convergenza evitando una totale autoreferenzialità
che finirebbe per penalizzare le realtà più deboli? In fondo, anche un
sistema nazionale di valutazione fa parte delle garanzie per pari
opportunità nell’istruzione (ivi comprese le misure compensative). La cautela è però d’obbligo, anche tenendo conto
delle caratteristiche delle prove: limitate a poche discipline (italiano
e matematica), anzi solo ad alcuni ambiti di tali discipline (in
italiano solo la comprensione dei testi e le conoscenze grammaticali),
in forma di item strutturati (e quindi con una tendenza alla convergenza
cognitiva), non sempre coerenti con i quadri curricolari vigenti (ed in
assenza di chiari standard dei risultati attesi)[10]. Si osserva un certo miglioramento tecnico,
scientifico e docimologico delle prove elaborate dall’Invalsi; si amplia
il circuito degli operatori scolastici ed esperti coinvolti
nell’elaborazione dei test; le competenze matematiche e linguistiche
(testuali) sottese alle prove sembrano in sintonia con le più
accreditate ricerche didattiche sulle due discipline[11].
Al centro sembrano essere non solo elementi e contenuti di conoscenze,
isolati da contesti reali di acquisizione, ma processi di
argomentazione, di problem
solving, di connessione di dati e informazione, indicatori di
“mobilità cognitiva” ben lontane dalla povertà mnemonica dei “quiz”[12]. Vale la pena tenere sospeso il giudizio,
ricordando comunque che la rilevazione degli apprendimenti non può
fissarsi solo sulle prove strutturate, ma deve tenere aperto il
ventaglio delle strumentazioni (prove semistrutturate, esercitazioni
tradizionali, valutazione autentica, diari di bordo, compiti di realtà,
ecc.). C’è molto altro al di là dei test, ma questi non possono essere
demonizzati. Le prove Invalsi impegnano due giorni sui 200 di un anno
scolastico e restano 198 giornate per mettere alla prova (con quali
strumenti?) apprendimenti di qualità eventualmente superiore (ma è
proprio così?). L’autonomia di ricerca, anche in materia di valutazione,
è una prerogativa che spetta ai collegi dei docenti, occorre
avvalersene. Chiamarsi “fuori” da ogni forma di valutazione esterna non
è un buon segnale di professionalità. La ricaduta sulle pratiche didattiche Il problema vero diventa dunque quello di evitare
il teaching the test (insegnare in funzione della risoluzione dei
test) e di migliorare comunque la qualità della didattica, anche
utilizzando i sensori delle prove di apprendimento. Si è cercato di fare
questo in due ampi progetti di ricerca e formazione svoltisi in questi
anni in Emilia-Romagna[13],
a partire dall’analisi intelligente delle tipologie di prove utilizzate
in varie occasioni (Invalsi, Ocse, Iea, ecc.) e dalla riflessione sul
loro diverso impatto nelle classi. Lavorare sulle prove e non in
funzione della soluzione delle prove può produrre alcuni interessanti
risultati:
a)
riferire con sicurezza le prove a quadri
di riferimento, da cui emerge il valore cognitivo delle consegne e dei
quesiti proposti;
b)
favorire una interpretazione “formativa”
delle discipline nei curricoli vigenti, con la descrizione degli
apprendimenti effettivamente promossi;
c)
analizzare i motivi di criticità di certe
prove e riferirle anche alle caratteristiche dell’insegnamento (tempo
dedicato, metodologie adottate, sottovalutazione di determinate
abilità);
d)
far emergere le funzioni cognitive più
richieste dalle prove (es. esplorazione dei dati, individuazione di
relazioni, produzione di ipotesi, inferenze, argomentazioni, transfer…
ecc) e impostare la didattica in modo
che gli studenti possano farne esperienza più spesso (non
limitandosi a memorizzazioni, ripetizioni, applicazioni di regole o
algoritmi appresi);
e)
elaborare prime strategie di recupero,
attraverso una diversificazione delle consegne, la riformulazione del
linguaggio, l’introduzione di elementi di facilitazione (disegni,
grafici, esempi, ecc.), vale a dire scoprire l’efficacia della
mediazione didattica. Il
feed-back sulla didattica è l’aspetto più interessante che si
dovrebbe evincere dall’analisi critica delle prove e dal lavoro di
ricerca che ogni scuola dovrebbe autonomamente produrre, senza l’assillo
della competizione pubblica (che non ha ragione di essere e che va
comunque contenuta). L’uso dei dati valutativi L’ostilità alle prove che si è diffusa tra gli
insegnanti trova alcune ragioni di carattere culturale (evitare che il
testing sia l’unico
imprinting per l’apprendimento e snaturi la qualità ordinaria dei
processi di apprendimento), altre di natura sindacale (per compiti
aggiuntivi assegnati implicitamente ai docenti, come la somministrazione
delle prove e la tabulazione dei dati, oltre che la loro lettura e
interpretazione), altre infine legate al timore di un uso improprio ai
fini della valutazione di scuole e insegnanti attraverso i risultati del
testing. Il Ministero ha in parte risposto a tali critiche[14]. La recente sperimentazione avviata dal MIUR, di
cui poco si sa, offre il destro a questa preoccupazione. Con qualche
doverosa precisazione[15].
La sperimentazione della valutazione dei docenti, limitata a poche
scuole in poche province, esula dai risultati dei test Invalsi, essendo
basata piuttosto sull’apprezzamento del curriculum/portfolio e sulla
reputazione attestata da genitori. Viceversa, la valutazione delle
scuole (sempre pochi casi in altre province) tiene in considerazione gli
esiti diacronici dell’Invalsi (dalle elementari alle medie) con una
qualche stima del “valore aggiunto”, depurato dai fattori di contesto
(condizioni sociali e caratteristiche degli allievi), unito però alla
osservazione diretta della scuola da parte di equipe esterne. Ma al di là dei criteri di valutazione, sempre
discutibili ma appunto da mettere alla prova, ciò che più fa discutere è
il meccanismo competitivo che si vorrebbe introdurre: non sembra
importante che insegnanti e scuole si mettano in gioco per migliorare le
loro prestazioni, ma la graduatoria di merito che si produce, ove solo
una quota (il 20% circa di insegnanti e scuole) alla fine viene
considerata meritevole di un premio. E’ questo il nodo che va
affrontato, con la ricerca di meccanismi in grado di stimolare in tutti
comportamenti virtuosi e miglioramento, attraverso procedure più
coerenti con la vocazione collaborativa e disinteressata che dovrebbe
contraddistinguere le comunità professionali scolastiche[16].
Dalla valutazione alla ri-progettazione Le tormentate vicende della valutazione nel
nostro paese ci offrono abbondanti motivi di riflessione. Intanto ci
mettono in guardia dalle semplificazioni nazional-popolari (come è stata
la reintroduzione del voto), dalle approssimazioni che rischiano di
bruciare intuizioni interessanti (come è il caso della certificazione
delle competenze), dall’utilizzo improprio delle rilevazioni
generalizzate degli apprendimenti (con la ricorrente tentazione di
utilizzarle per convalidare un giudizio negativo verso la scuola
pubblica), dalla accelerazione sulla valutazione di scuole e prestazioni
del personale (da ricondurre ad una logica di effettiva valorizzazione). C’è bisogno di un buon sistema di valutazione,
che sappia fare il suo mestiere con correttezza e sobrietà, che non
abbia la pretesa di esprimere giudizi sanzionatori verso chicchessia,
che interpreti un ruolo di accompagnamento e di supporto alle scuole. Occorre ampliare il ventaglio degli oggetti da
osservare, trasformare l’azione di valutazione in una azione di
contatto, di dialogo, di aiuto alla scuola: osservare l’attività
didattica, parlare con i ragazzi ed i genitori, vedere se le
professionalità crescono, cogliere la soddisfazione degli
stakeholder, imprimere un
dinamismo positivo e una nuova credibilità alla scuola. In fondo, la
propensione all’autovalutazione va incrociata con elementi di
valutazione esterna, in un confronto aperto di sollecitazioni che
possono far crescere[17].
Si può parlare correttamente di valutazione se teniamo insieme le
funzioni di survey, di
supervisione professionale, di
auditing, di stimolo al miglioramento. Le occasioni che la normativa offre (il 30% dei
risparmi da destinare al merito, l’incentivazione brunettiana
dell’eccellenza, i regolamenti in attuazione dell’ampia delega conferita
dal “mille proroghe”[18])
rappresentano altrettante sfide da affrontare con generosità, con la
massima apertura al dialogo sociale, con la ricerca di una condivisione
tra tutti i soggetti, per il comune obiettivo di rimettere al centro
dell’attenzione e della stima del paese una scuola pubblica che sa fare
bene il proprio mestiere (e che lo dimostra, anche attraverso la
valutazione).
[1] Articolo in corso di
pubblicazione in Rivista dell’istruzione, n. 3, maggio-giugno
2011, Maggioli, Rimini.
[2] Negli ultimi anni si sono
distinte nel delineare prospettive di sviluppo della nostra
scuola soprattutto fondazioni e agenzie di studio legate al
mondo imprenditoriale, come la Fondazione Giovanni Agnelli, la
associazione Treellle, la Fondazione per la Scuola della
Compagnia di San Paolo, la Luiss ecc. che sembrano aver preso il
posto dei soggetti tradizionalmente impegnati nell’elaborazione
culturale: le forze politiche, le organizzazioni sindacali, i
centri studi pubblici, come il Censis, l’Istat. Un segno dei
tempi? Una nuova egemonia culturale?
[3] La legge 169/2008 nel
reintrodurre la valutazione in voti decimali anche nella scuola
di base irrigidisce le procedure per l’ammissione alla classe
successiva, con la previsione di un voto di sufficienza in
ciascuna disciplina (cfr. Dpr 122/2009).
[4] In tal senso si esprimono
sia le Indicazioni per il curricolo del primo ciclo (DM 31
luglio 2007), sia le Linee guida per l’obbligo di istruzione (DM
22 agosto 2007, n. 139).
[5] Cfr. A.Paletta,
Scuole responsabili dei
risultati. Accountability e bilancio sociale, Il Mulino,
Bologna, 2011.
[6] Le previsioni del
Regolamento in materia di valutazione (DPR 122/2009,
riconfermate dalla CM 50/2010), che fanno riferimento alla
“media” tra tutte le prove (voto di ammissione, prove scritte ed
orali, prova nazionale) hanno portato ad una sovrastima del
“peso” della quarta prova che viene a valere quanto il percorso
complessivo triennale con cui ci si presenta all’esame, cioè un
sesto o un settimo dell’intero punteggio.
[7] Le rilevazioni
internazionali (es.: OCSE-Pisa, IEA-Pirls) sono rivolte solo a
campioni di studenti, e dunque possono essere somministrate con
maggiore rigore, il loro uso può essere più controllato (es. la
stessa prova, con qualche limitata integrazione, può essere
utilizzata per più anni, costruendo una serie storica che
permette una lettura diacronica degli andamenti degli
apprendimenti) e le interpretazioni/le comparazioni sono
certamente più affidabili.
[8] Si veda in tal senso
l’intervista rilasciata dal presidente uscente dell’Invalsi a
Rivista dell’istruzione: P.Cipollone,
Se non ci fosse
valutazione: una scuola senza bussola e meno equa, in
“Rivista dell’istruzione”, n. 2, maggio-giugno 2010.
[9] N.Bottani,
Insegnanti al timone.
Fatti e parole dell’autonomia scolastica, Il Mulino,
Bologna, 2002.
[10] G.Cerini,
Certificazione delle
competenze. L’araba fenice, in “Rivista dell’istruzione”, n.
4, settembre-ottobre 2010.
[11] G.Bolondi,
Prove Invalsi. Matematica
e D.Bertocchi, Prove
Invalsi. Italiano, in G.Cerini-M.Spinosi (a cura di), Voci
della scuola, IX, Tecnodid, Napoli, 2010.
[12] L.Salvia,
Nei test dell’Invalsi la
matematica sarà “argomentativa”, in “Il Corriera della
Sera”, 21 aprile 2011.
[13] Ci riferiamo ai progetti
EMMA (Emergenza matematica) ed ELLE (Emergenza lingua), promossi
dall’USR Emilia-Romagna, che hanno visto il coinvolgimento
ciascuno di circa 30 tutor senior (docenti esperti della
didattica disciplinare) e circa 600 tutor junior (docenti
referenti di ogni scuola sulla disciplina interessata).
[14] Nota MIUR n. 2792 del 20
aprile 2011: Servizio nazionale di valutazione. Rilevazione
degli apprendimenti per l.a.s. 2020-11. Precisazioni.
[15] A.Ichino,
Perché sperimentare la valutazione è utile e A.Valentino,
A proposito delle
sperimentazione per la valutazione di docenti e scuole, in
“Rivista dell’istruzione”, n. 2, marzo-aprile 2011.
[16] Ci sovviene quanto
scriveva la Fondazione Giovanni Agnelli nel Rapporto sulla
scuola 2009 (Laterza, Bari, 2009), là ove metteva in guardia
dall’introdurre meccanismi competitivi all’interno dell’ambiente
scolastico (o tra scuole), come forieri di effetti indesiderati
nell’attività di insegnamento e nel funzionamento della scuola.
Va anche ricordato che la previsione contenuta nel D.lgs
150/2009 (c.d. Brunetta) prevede l’introduzione di meccanismi
premiali nella pubblica amministrazione (con incentivi al 25%
dei dipendenti migliori), ma rimanda ad un successivo
approfondimento normativo l’applicazione di tali principi
all’area della docenza, proprio in virtù della sua specificità.
[17] M.Castoldi,
Valutare le scuole
dall’interno o dall’esterno? In “Rivista del’istruzione”, n.
1, gennaio-febbraio 2011,
[18] La legge 26 febbraio
2011, n. 10 (di conversione del c.d. decreto legge “mille
proroghe” n. 225 del 29 dicembre 2010) conferisce al governo
un’ampia delega per rifondare, attraverso appositi regolamenti,
il sistema nazionale di valutazione, che verrebbe articolato in
tre distinte strutture:
a)
il servizio ispettivo
indipendente e autonomo, per valutare scuole e dirigenti;
b)
l’Invalsi, deputato alla
predisposizione del testing e della rilevazione degli
apprendimenti;
c)
l’Indire, come agenzia di
supporto al miglioramento ed allo sviluppo dell’autonomia.
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