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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Si fa troppo presto a dire (sì o no, alla) valutazione... [1]

di Giancarlo Cerini

 

Tutti d’accordo sulla valutazione?

Non c’è progetto politico o culturale che, nell’evocare un futuro migliore per la nostra scuola[2], non inserisca la “valutazione” tra le parole “forti” per costruire gli auspicati nuovi scenari educativi. L’esigenza è talmente ovvia, da rasentare il  politically correct”, magari per giungere, una volta tanto, a soluzioni condivise per una auspicata vera riforma della scuola. Non sarebbe un risultato da poco, visto che da ormai un quindicennio il confronto sulla scuola appare aspro e senza possibilità di intesa: quasi uno scontro di “civiltà”. Oggi, però, la società politica, ed ancor più quella civile, sembrano concordi nel chiedere di introdurre dosi massicce di valutazione nel sistema educativo. L’approvazione praticamente all’unanimità della legge 176/2007, che introduce le rilevazioni generalizzate degli apprendimenti, è un fedele termometro di questo sentimento che associa la parola valutazione a responsabilità, autonomia, qualità.

Ma è sul fronte “interno” che si manifestano le maggiori diffidenze, tra gli insegnanti e le loro rappresentanze professionali e sindacali, a partire dalla diffusa ostilità nei confronti delle prove Invalsi. Queste resistenze non possono essere liquidate chiamando in causa la tradizionale autoreferenzialità (quasi riottosità) degli addetti ai lavori, che sarebbero da sempre refrattari (e non solo in Italia) nei confronti di strumenti valutativi considerati eccessivamente invasivi. Evidentemente c’è dell’altro, e occorre chiarire meglio i termini della questione, per costruire una cultura della valutazione sufficientemente condivisa anche all’interno della scuola, oltre che dall’opinione pubblica.

 

Una deontologia della valutazione

Prima ancora degli strumenti, delle scelte tecniche, è però necessario definire il “senso” della valutazione, perché la si vuole rendere più incisiva e affidabile. Almeno per sgomberare il campo dall’idea che valutazione coincida con controllo, sanzione, giudizio, quindi con un significato negativo, quasi minaccioso, certamente non amichevole. La valutazione degli allievi assume talvolta una funzione “espulsiva” (si pensi al valore non solo simbolico della bocciatura)[3], ma deve soprattutto consentire di migliorare l’insieme delle azioni di tutti i soggetti e fattori implicati nella relazione educativa (gli allievi, gli insegnanti, ma anche l’organizzazione, le strutture, l’amministrazione). Svolge dunque una funzione di regolazione dei processi, introduce momenti di riflessività, stimola il miglioramento, sul piano degli apprendimenti degli allievi, ma anche su quello istituzionale[4].

In questa stagione di crisi acuta nel rapporto tra scuola e società civile, si deve ammettere che una maggiore trasparenza in fatto di valutazione è un prerequisito per riposizionare la scuola agli occhi dell’opinione pubblica, per ridefinire un patto di reciproca fiducia (risorse in cambio di qualità). A monte dell’intera questione c’è dunque un problema etico, deontologico, prima ancora che docimologico. Forse il ripristino del voto nasce da questo clima, ma rivela anche la debolezza dell’attuale discorso pubblico sulla valutazione, quasi che la (presunta) semplicità del voto fosse in grado di nascondere la complessità dell’azione valutativa, quasi che l’enfasi sui risultati da raggiungere facesse dimenticare la qualità dei processi cognitivi e sociali da promuovere. La valutazione non può essere un blitz docimologico.

 

Valutare solo l’apprendimento degli allievi?

Ma preliminare è  anche delimitare gli oggetti della valutazione: che cosa si dovrebbe valutare? Oggi c’è una forte enfasi sulla valutazione degli apprendimenti degli allievi: prove standardizzate somministrate ad intere leve di allievi del primo e secondo ciclo, introduzione di una prova nazionale strutturata nell’ambito dell’esame di terza media, partecipazione dei quindicenni alle indagini internazionali PISA, richiesta di certificare le competenze lungo tutto il percorso scolastico. Qualche osservatore ha parlato di un vero e proprio accanimento o di ossessione valutativa, paventando  gli effetti deleteri sulla vita delle classi, con l’emergere di un conformismo cognitivo a scapito degli aspetti relazionali, operativi, creativi, divergenti dell’apprendimento. Certamente l’impatto simbolico di tali scadenze è rilevante, forse gli effetti pratici lo sono assai meno. Occorre però riequilibrare l’attuale tendenza tutta spostata sulla rilevazione degli apprendimenti e mettere a fuoco altri aspetti determinanti per la qualità di una scuola[5]:

a)      gli apprendimenti non compresi nelle rilevazioni strutturate (limitate a italiano e matematica) e comunque osservati anche con procedure non standardizzate;

b)      il clima etico-sociale ed i valori promossi a scuola (es.: competizione o cooperazione, inclusione o esclusione, integrazione o separazione?);

c)      gli effetti a lunga scadenza (l’outcome), nelle scuole successive, nel lavoro, nella vita;

d)     il gradimento degli utenti, della comunità, degli stakeholder;

e)      i fattori organizzativi interni, in primis la qualità degli apporti professionali delle diverse componenti, in particolare di docenti e dirigenti.

Il discorso ci porterebbe lontano, ma non possiamo poggiare la valutazione sulle sole spalle degli allievi, senza investire tutti gli elementi del sistema educativo, non fosse altro per arricchire le informazioni di contesto, utili ad apprezzare il “valore aggiunto” prodotto dall’intervento della scuola.  

 

L’impatto delle rilevazioni nazionali

E’ giusto sottolineare il carattere conoscitivo e non fiscale che le prove Invalsi vengono ad assumere per le classi intermedie, ma è anche evidente che una somministrazione così massiccia e generalizzata (obbligatoria) delle prove per intere leve di popolazione scolastica (tutti gli allievi di tutte le classi seconde e quinte elementari, prime e terze medie, seconde e quinte superiori) finisce con l’assumere un forte rilievo istituzionale. Il fatto poi che le prove strutturate siano state inserite all’interno di una prova d’esame (3^ media) cambia anche il significato delle rilevazioni, intanto per gli effetti legali che producono[6].

Basti pensare al range di difficoltà delle prove: se sono proposte a scopo unicamente conoscitivo si può in via teorica spingere a fondo anche verso l’eccellenza (per esplorare aree di sviluppo potenziale dell’apprendimento), se invece hanno un valore legale occorre maggiore cautela, ad esempio un più chiaro collegamento con gli insegnamenti effettivamente impartiti.

Se ci forniscono informazioni utili a migliorare la qualità della didattica per ogni scuola, è giusto che le prove siano censuarie[7], controbilanciate però dall’impegno che i dati siano utilizzati in via riservata, in termini tecnico-professionali, solo dagli operatori della scuola interessata. Tali dati, dunque, non possono essere resi pubblici al dettaglio di scuole e di classi. Questo è anche il “patto d’onore” che al momento lega le scuole all’INVALSI[8], anche se non ci nascondiamo il fatto che molti opinionisti (e forse lo stesso Ministro) spingono per la completa pubblicità di risultati delle prove. Ma autorevoli esperti hanno messo in evidenza che un simile meccanismo provocherebbe un’ulteriore differenziazione tra buone e cattive scuole.[9] 

 

La qualità delle prove

Molte delle critiche rivolte all’Invalsi fanno riferimento all’estraneità delle prove rispetto alle pratiche didattiche correnti. Se vige un’ampia autonomia didattica e curricolare, che tiene conto delle caratteristiche degli allievi e dei diversi contesti sociali, come è possibile sottoporre tutti gli allievi alle medesimi prove? E’ evidente che la questione potrebbe essere rovesciata: se la differenziazione tra le proposte didattiche è così accentuata non rischia forse di venire meno il valore unificante della scuola pubblica? E non potrebbero proprio essere gli stimoli forniti da prove nazionali a favorire una maggiore convergenza evitando una totale autoreferenzialità che finirebbe per penalizzare le realtà più deboli? In fondo, anche un sistema nazionale di valutazione fa parte delle garanzie per pari opportunità nell’istruzione (ivi comprese le misure compensative).

La cautela è però d’obbligo, anche tenendo conto delle caratteristiche delle prove: limitate a poche discipline (italiano e matematica), anzi solo ad alcuni ambiti di tali discipline (in italiano solo la comprensione dei testi e le conoscenze grammaticali), in forma di item strutturati (e quindi con una tendenza alla convergenza cognitiva), non sempre coerenti con i quadri curricolari vigenti (ed in assenza di chiari standard dei risultati attesi)[10].

Si osserva un certo miglioramento tecnico, scientifico e docimologico delle prove elaborate dall’Invalsi; si amplia il circuito degli operatori scolastici ed esperti coinvolti nell’elaborazione dei test; le competenze matematiche e linguistiche (testuali) sottese alle prove sembrano in sintonia con le più accreditate ricerche didattiche sulle due discipline[11]. Al centro sembrano essere non solo elementi e contenuti di conoscenze, isolati da contesti reali di acquisizione, ma processi di argomentazione, di problem solving, di connessione di dati e informazione, indicatori di “mobilità cognitiva” ben lontane dalla povertà mnemonica dei “quiz”[12].

Vale la pena tenere sospeso il giudizio, ricordando comunque che la rilevazione degli apprendimenti non può fissarsi solo sulle prove strutturate, ma deve tenere aperto il ventaglio delle strumentazioni (prove semistrutturate, esercitazioni tradizionali, valutazione autentica, diari di bordo, compiti di realtà, ecc.). C’è molto altro al di là dei test, ma questi non possono essere demonizzati. Le prove Invalsi impegnano due giorni sui 200 di un anno scolastico e restano 198 giornate per mettere alla prova (con quali strumenti?) apprendimenti di qualità eventualmente superiore (ma è proprio così?). L’autonomia di ricerca, anche in materia di valutazione, è una prerogativa che spetta ai collegi dei docenti, occorre avvalersene. Chiamarsi “fuori” da ogni forma di valutazione esterna non è un buon segnale di professionalità.

 

La ricaduta sulle pratiche didattiche

Il problema vero diventa dunque quello di evitare il teaching the test (insegnare in funzione della risoluzione dei test) e di migliorare comunque la qualità della didattica, anche utilizzando i sensori delle prove di apprendimento. Si è cercato di fare questo in due ampi progetti di ricerca e formazione svoltisi in questi anni in Emilia-Romagna[13], a partire dall’analisi intelligente delle tipologie di prove utilizzate in varie occasioni (Invalsi, Ocse, Iea, ecc.) e dalla riflessione sul loro diverso impatto nelle classi. Lavorare sulle prove e non in funzione della soluzione delle prove può produrre alcuni interessanti risultati:

a)      riferire con sicurezza le prove a quadri di riferimento, da cui emerge il valore cognitivo delle consegne e dei quesiti proposti;

b)      favorire una interpretazione “formativa” delle discipline nei curricoli vigenti, con la descrizione degli apprendimenti effettivamente promossi;

c)      analizzare i motivi di criticità di certe prove e riferirle anche alle caratteristiche dell’insegnamento (tempo dedicato, metodologie adottate, sottovalutazione di determinate abilità);

d)     far emergere le funzioni cognitive più richieste dalle prove (es. esplorazione dei dati, individuazione di relazioni, produzione di ipotesi, inferenze, argomentazioni, transfer… ecc) e impostare la didattica in modo  che gli studenti possano farne esperienza più spesso (non limitandosi a memorizzazioni, ripetizioni, applicazioni di regole o algoritmi appresi);

e)      elaborare prime strategie di recupero, attraverso una diversificazione delle consegne, la riformulazione del linguaggio, l’introduzione di elementi di facilitazione (disegni, grafici, esempi, ecc.), vale a dire scoprire l’efficacia della mediazione didattica.

Il feed-back sulla didattica è l’aspetto più interessante che si dovrebbe evincere dall’analisi critica delle prove e dal lavoro di ricerca che ogni scuola dovrebbe autonomamente produrre, senza l’assillo della competizione pubblica (che non ha ragione di essere e che va comunque contenuta).

 

L’uso dei dati valutativi

L’ostilità alle prove che si è diffusa tra gli insegnanti trova alcune ragioni di carattere culturale (evitare che il testing sia l’unico imprinting per l’apprendimento e snaturi la qualità ordinaria dei processi di apprendimento), altre di natura sindacale (per compiti aggiuntivi assegnati implicitamente ai docenti, come la somministrazione delle prove e la tabulazione dei dati, oltre che la loro lettura e interpretazione), altre infine legate al timore di un uso improprio ai fini della valutazione di scuole e insegnanti attraverso i risultati del testing. Il Ministero ha in parte risposto a tali critiche[14].

La recente sperimentazione avviata dal MIUR, di cui poco si sa, offre il destro a questa preoccupazione. Con qualche doverosa precisazione[15]. La sperimentazione della valutazione dei docenti, limitata a poche scuole in poche province, esula dai risultati dei test Invalsi, essendo basata piuttosto sull’apprezzamento del curriculum/portfolio e sulla reputazione attestata da genitori. Viceversa, la valutazione delle scuole (sempre pochi casi in altre province) tiene in considerazione gli esiti diacronici dell’Invalsi (dalle elementari alle medie) con una qualche stima del “valore aggiunto”, depurato dai fattori di contesto (condizioni sociali e caratteristiche degli allievi), unito però alla osservazione diretta della scuola da parte di equipe esterne.

Ma al di là dei criteri di valutazione, sempre discutibili ma appunto da mettere alla prova, ciò che più fa discutere è il meccanismo competitivo che si vorrebbe introdurre: non sembra importante che insegnanti e scuole si mettano in gioco per migliorare le loro prestazioni, ma la graduatoria di merito che si produce, ove solo una quota (il 20% circa di insegnanti e scuole) alla fine viene considerata meritevole di un premio. E’ questo il nodo che va affrontato, con la ricerca di meccanismi in grado di stimolare in tutti comportamenti virtuosi e miglioramento, attraverso procedure più coerenti con la vocazione collaborativa e disinteressata che dovrebbe contraddistinguere le comunità professionali scolastiche[16].   

 

Dalla valutazione alla ri-progettazione

Le tormentate vicende della valutazione nel nostro paese ci offrono abbondanti motivi di riflessione. Intanto ci mettono in guardia dalle semplificazioni nazional-popolari (come è stata la reintroduzione del voto), dalle approssimazioni che rischiano di bruciare intuizioni interessanti (come è il caso della certificazione delle competenze), dall’utilizzo improprio delle rilevazioni generalizzate degli apprendimenti (con la ricorrente tentazione di utilizzarle per convalidare un giudizio negativo verso la scuola pubblica), dalla accelerazione sulla valutazione di scuole e prestazioni del personale (da ricondurre ad una logica di effettiva valorizzazione).

C’è bisogno di un buon sistema di valutazione, che sappia fare il suo mestiere con correttezza e sobrietà, che non abbia la pretesa di esprimere giudizi sanzionatori verso chicchessia, che interpreti un ruolo di accompagnamento e di supporto alle scuole.

Occorre ampliare il ventaglio degli oggetti da osservare, trasformare l’azione di valutazione in una azione di contatto, di dialogo, di aiuto alla scuola: osservare l’attività didattica, parlare con i ragazzi ed i genitori, vedere se le professionalità crescono, cogliere la soddisfazione degli stakeholder, imprimere un dinamismo positivo e una nuova credibilità alla scuola. In fondo, la propensione all’autovalutazione va incrociata con elementi di valutazione esterna, in un confronto aperto di sollecitazioni che possono far crescere[17]. Si può parlare correttamente di valutazione se teniamo insieme le funzioni di survey, di supervisione professionale, di auditing, di stimolo al miglioramento.

Le occasioni che la normativa offre (il 30% dei risparmi da destinare al merito, l’incentivazione brunettiana dell’eccellenza, i regolamenti in attuazione dell’ampia delega conferita dal “mille proroghe”[18]) rappresentano altrettante sfide da affrontare con generosità, con la massima apertura al dialogo sociale, con la ricerca di una condivisione tra tutti i soggetti, per il comune obiettivo di rimettere al centro dell’attenzione e della stima del paese una scuola pubblica che sa fare bene il proprio mestiere (e che lo dimostra, anche attraverso la valutazione).



[1] Articolo in corso di pubblicazione in Rivista dell’istruzione, n. 3, maggio-giugno 2011, Maggioli, Rimini.

[2] Negli ultimi anni si sono distinte nel delineare prospettive di sviluppo della nostra scuola soprattutto fondazioni e agenzie di studio legate al mondo imprenditoriale, come la Fondazione Giovanni Agnelli, la associazione Treellle, la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, la Luiss ecc. che sembrano aver preso il posto dei soggetti tradizionalmente impegnati nell’elaborazione culturale: le forze politiche, le organizzazioni sindacali, i centri studi pubblici, come il Censis, l’Istat. Un segno dei tempi? Una nuova egemonia culturale?

[3] La legge 169/2008 nel reintrodurre la valutazione in voti decimali anche nella scuola di base irrigidisce le procedure per l’ammissione alla classe successiva, con la previsione di un voto di sufficienza in ciascuna disciplina (cfr. Dpr 122/2009).

[4] In tal senso si esprimono sia le Indicazioni per il curricolo del primo ciclo (DM 31 luglio 2007), sia le Linee guida per l’obbligo di istruzione (DM 22 agosto 2007, n. 139).

[5] Cfr. A.Paletta, Scuole responsabili dei risultati. Accountability e bilancio sociale, Il Mulino, Bologna, 2011.

[6] Le previsioni del Regolamento in materia di valutazione (DPR 122/2009, riconfermate dalla CM 50/2010), che fanno riferimento alla “media” tra tutte le prove (voto di ammissione, prove scritte ed orali, prova nazionale) hanno portato ad una sovrastima del “peso” della quarta prova che viene a valere quanto il percorso complessivo triennale con cui ci si presenta all’esame, cioè un sesto o un settimo dell’intero punteggio.

[7] Le rilevazioni internazionali (es.: OCSE-Pisa, IEA-Pirls) sono rivolte solo a campioni di studenti, e dunque possono essere somministrate con maggiore rigore, il loro uso può essere più controllato (es. la stessa prova, con qualche limitata integrazione, può essere utilizzata per più anni, costruendo una serie storica che permette una lettura diacronica degli andamenti degli apprendimenti) e le interpretazioni/le comparazioni sono certamente più affidabili.

[8] Si veda in tal senso l’intervista rilasciata dal presidente uscente dell’Invalsi a Rivista dell’istruzione: P.Cipollone, Se non ci fosse valutazione: una scuola senza bussola e meno equa, in “Rivista dell’istruzione”, n. 2, maggio-giugno 2010.

[9] N.Bottani, Insegnanti al timone. Fatti e parole dell’autonomia scolastica, Il Mulino, Bologna, 2002.

[10] G.Cerini, Certificazione delle competenze. L’araba fenice, in “Rivista dell’istruzione”, n. 4, settembre-ottobre 2010.

[11] G.Bolondi, Prove Invalsi. Matematica e D.Bertocchi, Prove Invalsi. Italiano, in G.Cerini-M.Spinosi (a cura di), Voci della scuola, IX, Tecnodid, Napoli, 2010.

[12] L.Salvia, Nei test dell’Invalsi la matematica sarà “argomentativa”, in “Il Corriera della Sera”, 21 aprile 2011.

[13] Ci riferiamo ai progetti EMMA (Emergenza matematica) ed ELLE (Emergenza lingua), promossi dall’USR Emilia-Romagna, che hanno visto il coinvolgimento ciascuno di circa 30 tutor senior (docenti esperti della didattica disciplinare) e circa 600 tutor junior (docenti referenti di ogni scuola sulla disciplina interessata).

[14] Nota MIUR n. 2792 del 20 aprile 2011: Servizio nazionale di valutazione. Rilevazione degli apprendimenti per l.a.s. 2020-11. Precisazioni.

[15] A.Ichino, Perché sperimentare la valutazione è utile e A.Valentino, A proposito delle sperimentazione per la valutazione di docenti e scuole, in “Rivista dell’istruzione”, n. 2, marzo-aprile 2011.

[16] Ci sovviene quanto scriveva la Fondazione Giovanni Agnelli nel Rapporto sulla scuola 2009 (Laterza, Bari, 2009), là ove metteva in guardia dall’introdurre meccanismi competitivi all’interno dell’ambiente scolastico (o tra scuole), come forieri di effetti indesiderati nell’attività di insegnamento e nel funzionamento della scuola. Va anche ricordato che la previsione contenuta nel D.lgs 150/2009 (c.d. Brunetta) prevede l’introduzione di meccanismi premiali nella pubblica amministrazione (con incentivi al 25% dei dipendenti migliori), ma rimanda ad un successivo approfondimento normativo l’applicazione di tali principi all’area della docenza, proprio in virtù della sua specificità.

[17] M.Castoldi, Valutare le scuole dall’interno o dall’esterno? In “Rivista del’istruzione”, n. 1, gennaio-febbraio 2011,

[18] La legge 26 febbraio 2011, n. 10 (di conversione del c.d. decreto legge “mille proroghe” n. 225 del 29 dicembre 2010) conferisce al governo un’ampia delega per rifondare, attraverso appositi regolamenti, il sistema nazionale di valutazione, che verrebbe articolato in tre distinte strutture:

a)       il servizio ispettivo indipendente e autonomo, per valutare scuole e dirigenti;

b)       l’Invalsi, deputato alla predisposizione del testing e della rilevazione degli apprendimenti;

c)       l’Indire, come agenzia di supporto al miglioramento ed allo sviluppo dell’autonomia.

 


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