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Toh! Chi si rivede? L’istituto
comprensivo… di Giancarlo Cerini Comprensivi, (pubbliche) virtù e vizi (privati) Da quasi vent’anni sostengo che l’istituto
comprensivo, cioè l’aggregazione in una unica struttura funzionale delle
scuole dell’infanzia, elementari e medie di un medesimo territorio, è
frutto di un’originale intuizione organizzativa e presenta un rilevante
interesse pedagogico per il sistema educativo italiano. Devo anche
confessare che, nello stesso periodo, ho faticato non poco a smentire
l’idea che la scelta degli istituti comprensivi fosse dovuta a ragioni
di contenimento della spesa, che cioè l’unica motivazione sostenibile
fosse quella della riduzione delle presidenze, dovuta ad accorpamenti,
fusioni, dimensionamenti proprio per realizzare gli istituti
comprensivi. Ora, l’aver inserito la generalizzazione obbligatoria degli
istituti comprensivi all’interno di un provvedimento smaccatamente
finanziario, la legge 111 del 15-7-2011 (per altro avvallata
de facto da tutto lo
schieramento parlamentare), sembra confermare irrimediabilmente l’idea
che tutto ciò avvenga per mere ragioni contabili. L’avere poi elevato a
“quota 1000” la soglia minima di alunni affinché una scuola possa
disporre di autonomia funzionale e personalità giuridica e che ad essa
sia preposto un dirigente scolastico a tutti gli effetti (art. 19 della
legge cit.) cambia radicalmente la geografia della scuola, dopo un
decennio di stabilità che faceva seguito all’assestamento dovuto
all’introduzione dell’autonomia. Tab. 1 – Evoluzione dell’organizzazione scolastica
in Italia.
La geografia delle scuole Se si osserva l’andamento diacronico
dell’evoluzione del “parco scuole” dell’ultimo quindicennio, si possono
distinguere tre distinte stagioni:
a)
prima dell’autonomia, negli anni ’90,
quando le presidenze erano oltre 16.000, capillarmente diffuse nel
territorio, fino quasi a coincidere per le scuole medie con i
plessi/edifici scolastici;
b)
a scavalco dell’autonomia, nel biennio
1999 e 2000, emerse la necessità di disegnare una rete più solida di
istituzioni, capaci di progettare l’offerta formativa e non solo di
eseguire programmi didattici calati dall’alto. A tal fine, il Dpr
233/1998 fissò un parametro compreso tra i 500 e i 900 allievi, che
comportò una drastica riduzione delle istituzioni scolastiche esistenti;
c)
il decennio post-autonomia, vide il
consolidarsi della rete scolastica, ma con forti differenze tra una
regione e l’altra (ad es. 883 allievi per presidenza in Emilia-Romagna,
430 in Calabria, per le scuole del primo ciclo) e con inviti inascoltati
a superare le situazioni sottodimensionate (fino al diktat contenuto
nell’art. 64 della legge 133/2008).[1]
Dunque, l’assunto che i comprensivi abbiano
determinato la riduzione delle scuole è solo parzialmente vero, perché
questo esito è dovuto soprattutto alle implicazioni dell’autonomia
“funzionale”. L’iniziale insediamento degli istituti verticalizzati
(arrivati a circa 1.000 nel 1999) è infatti schizzato ad oltre 3.000
proprio in virtù del dimensionamento pro-autonomia. La nuova situazione che si prefigura per i
prossimi anni modifica radicalmente il quadro precedente ed anche la
fisionomia della dirigenza scolastica (istituita con D.lgs 59/1998).
Scuole di grandi dimensioni sembrano smentire quell’idea di comunità
professionale che pure trova importanti riscontri nella letteratura
scientifica[2]
e che richiederebbe anche un’adeguata e coerente scelta nel
dimensionamento. Ma quali? Grandi scuole e piccoli plessi Non si può banalmente affermare che “piccolo è
bello”, anzi, per certi versi potrebbe essere controproducente. E’ però
necessario aprire un pubblico discorso sulla dimensione “equa” di una
istituzione scolastica oppure, riformulando la domanda, capire quali
sono le condizioni migliori di esercizio di una autonomia credibile e di
un efficace ruolo del dirigente scolastico. E’ evidente che se cambiano
i parametri del dimensionamento ne deriva un diverso modello
organizzativo e gestionale per la scuola e di conseguenza si fa strada
(anzi, si impone) un diverso profilo della dirigenza. Ancora, se si
considera ineluttabile questo processo (cioè andare verso scuole di
“grandi dimensioni”) occorre immaginare seriamente nuove forme di
governance dell’istituzione scolastica (attraverso figure di staff,
articolazioni organizzative, referenti, ecc.). Ad esempio, si dovrà considerare come unità di
riferimento non solo l’istituto scolastico autonomo, ma soprattutto il
plesso scolastico[3],
cioè l’unità di concreta ed effettiva erogazione del servizio scolastico
(è lì che si giocheranno le dinamiche dell’insegnamento-apprendimento e
dei servizi di supporto organizzativo e didattico). Questo a maggior
ragione nel caso di istituti comprensivi, ove alla complessità delle
grandi dimensioni si viene ad associare una complessità gestionale,
dovuta alla giustapposizione di diversi segmenti scolastici. Ma nonostante tutto, vale la pena riprendere in
considerazione le ragioni “nobili” che stanno alla base degli istituti
comprensivi, per poterle ritrovare anche in questa stagione difficile
per la scuola, per fare in modo che le prossime “mosse” in materia di
dimensionamento “verticale” siano accompagnate da una riflessione
culturale appropriata. Gli istituti comprensivi rientrano oggi nella
“normalità” dell’ordinamento scolastico, ma restano pur sempre
un’“ambizione pedagogica”, una sfida ancora aperta per il rafforzamento
della formazione di base. La lezione dell’esperienza Non è stato sempre facile fare emergere la
“mission” originale dell’istituto comprensivo. All’inizio prevalse l’emergenza territoriale, il
tentativo di salvare la presenza delle scuole nelle aree geografiche più
difficili (montagne, piccole isole, zone a bassa densità abitativa,
ecc.), come stava scritto nella legge istitutiva dei comprensivi (la
legge 97/1994, appunto di tutela della montagna). Solo con la ricordata svolta dell’autonomia la
presenza del comprensivo è diventata maggioritaria (oggi sono circa
4.000 a fronte di 2.000 direzioni didattiche e 1.000 scuole medie), ma
non sempre questa scelta è avvenuta con una adeguata maturazione di
condizioni pedagogiche, didattiche, organizzative. Il fronte “interno” (quello degli insegnanti e
dei dirigenti) è apparso tiepido, a volte ostile, spesso si è
determinato un precario equilibrio tra le diverse componenti (come tra
separati in casa). In molti casi ha prevalso la difesa delle
preesistenti identità: il contenitore “comprensivo” è stato visto come
troppo generico, non in grado di stimolare un riposizionamento di scuole
dell’infanzia, primarie e secondarie di I grado, semmai come foriero del
loro impoverimento. E’ mancato in quel periodo un effettivo sostegno
all’innovazione curricolare dei comprensivi, al di là di pregevoli ma
limitate reti di scuole sperimentali promosse dall’Amministrazione
(citiamo le scuole “laboratorio” coordinate da P.Boscolo[4],
le scuole –ICS- che hanno sperimentato curricoli disciplinari[5],
le scuole dei parchi nazionali, ecc.). Le stesse norme di riferimento per i
comprensivi, elaborate in parallelo alla ricerca-azione promossa in tali
scuole, non riuscivano ad andare al di là delle petizioni di principio[6]
e, di per sè, non ebbero la forza di porre al centro del dibattito
alcune questioni cruciali, quali:
a)
l’individuazione “discrezionale” del
dirigente scolastico da preporre all’istituto, perché figura strategica
in grado di costruire il senso della “comprensività”;
b)
l’adozione di un organico funzionale di
istituto, capace di stimolare soluzioni pedagogico-organizzative
innovative (prestiti professionali, laboratori, ecc.);
c)
la semplificazione del quadro
contrattuale (diritti e doveri), per riconoscere i nuovi impegni dei
docenti, in una ottica di maggiore omogeneità. Queste occasioni mancate, ancora oggi all’ordine
del giorno, non sono riuscite a far decollare l’idea del comprensivo
come vera scuola di base, certamente più realistica della riforma
berlingueriana del 2000, congelata dal successivo ministero Moratti.
Così, affermazioni importanti come quelle contenute nel documento di
lavoro “Bertagna” del 2001 (con la proposta di saldare elementare e
medie attraverso il biennio di raccordo 5^ elementare-1^media) restarono
lettera morta, anzi furono smentite dall’articolazione nei periodi
didattici imposti dalla legge 53/2003 (1^ primaria, 2/3^ primaria, 4/5^
primaria, 1 e 2 secondaria, 3^ secondaria), che ancora oggi limitano le
potenzialità del curricolo verticale e frenano le ipotesi di maggiore
integrazione tra scuola primaria e secondaria. E’ un ostacolo che va
rimosso se si vuole offrire un ombrello curricolare sicuro alla prossima
generazione di comprensivi. I nuovi comprensivi: mission impossible? Così, una flebile preferenza della politica (e
dell’amministrazione scolastica) nei confronti degli istituti
comprensivi, di cui c’è traccia anche nel Piano Programmatico per
l’attuazione della legge 133/2008, non si è tradotta in sostanziose
provvidenze verso questo modello organizzativo. Solo sotto il profilo
delle Indicazioni curricolari si è messa a fuoco l’idea di un progetto
educativo dai 3 ai 14 anni, che già faceva capolino tra le righe degli
allegati al D.lgs 59/2004 (che però avevano l’evidente difetto di essere
costruiti con il copia e incolla). Il principio della continuità ha poi
assunto il carattere di elemento fondativo nelle Indicazioni per il
curricolo di cui al DM 31-7-2007. In questo documento, l’intelaiatura
verticale degli assetti di tutte le discipline configura un vero e
proprio canovaccio per un piano di studi in progressione, almeno tra
scuole primaria e secondaria di I grado (mantenendo invece più autonomo
il curricolo della scuola dell’infanzia). Al di là del loro pregio,
sappiamo però che l’impatto delle Indicazioni nella scuola “reale” è
stato alquanto variabile e sottoposto agli sbalzi degli orientamenti
politici e ministeriali degli ultimi anni. Il testo del 2007, comunque,
è quello al momento vigente e da quello occorre ripartire per le azioni
di armonizzazione[7],
che dovranno tener conto necessariamente del nuovo scenario “tutti
comprensivi”. La decisione del Parlamento del luglio 2011
determina infatti nuove condizioni di sviluppo e di
rilancio della presenza degli
istituti verticali. Anche se non sono preventivabili i tempi per il
completamento dei piani di ri-dimensionamento (affidati come è noto alle
decisioni delle Regioni), certamente si presenta all’orizzonte una nuova
generazione di istituti comprensivi, la quarta – dopo quelle
dell’emergenza territoriale, dell’ispirazione pedagogica, della svolta
dell’autonomia. Ci sarà un aumento di comprensivi pari a quello che si
registrò nel biennio 1999-2000 (non fosse altro per il meccanismo
penalizzante della non assegnazione di nuovi incarichi dirigenziali
nelle scuole ancora “orizzontali”). Un simile evento non può passare “sotto
silenzio”, né può essere vissuto come una scontata messa ad ordinamento
degli istituti comprensivi. E’ una innovazione ancora in larga parte da
scoprire e da studiare. Anzi, meraviglia l’esiguità della ricerca e
della pubblicistica che si è esercitata attorno al tema[8].
Possiamo comunque considerare ancora significativi i tre assi attorno a
cui si sono sviluppate le “buone pratiche” degli istituti comprensivi:
a)
il territorio
b)
il curricolo
c)
l’organizzazione. Ma gli istituti di quarta generazione dovranno
saper espandere questi elementi, farli diventare elementi di sviluppo e
di ricerca. La domanda dovrà sempre essere: “qual è il valore aggiunto
di un istituto comprensivo?”, “quali sono le convenienze ad aggregarsi
in verticale?”, “come si possono far fruttare positivamente questi
aspetti?”. Vediamoli allora con più dettaglio. Il territorio: una scuola di “comunità” E’ vero che quasi sempre i Comuni sono stati i
primi sponsor dei processi di verticalizzazione, per l’effetto di
semplificazione organizzativa e istituzionale che questo tipo di
dimensionamento comporta. Tale scelta consente di rendere più agevoli i
rapporti tra scuola e territorio (nei suoi versanti istituzionali e non
solo), ma c’è (ci deve essere) dell’altro. Se riteniamo che la scuola
sia un elemento fondamentale per la qualità della vita di una comunità,
che sia motore per il suo sviluppo, che sia un “nodo” che crea fiducia,
solidarietà, identità, allora questa dote di “capitale sociale” va
incrementata attraverso le azioni dell’istituto comprensivo nel
territorio, quali:
-
fare un check-up delle relazioni tra
scuola e società locale, per uscire dalla occasionalità, consentire una
“rappresentazione” comune dei problemi, costruire conoscenze sul sistema
sociale ed ecnomico;
-
stringere alleanze (anche tramite tavoli,
accordi e patti formalizzati), rinnovare le strategie di comunicazione e
di intervento (un POF di territorio);
-
attivare relazioni personali con gli
attori sociali, proporre idee e progetti, recuperare e attirare risorse
(ad es. con il fundraising). Un istituto che si presenta agli stakeholder
all’insegna del “fidatevi di noi: noi garantiamo la coerenza della
formazione di base dei ragazzi di questo territorio!” si candida a
diventare un interlocutore forte delle politiche di sviluppo locale, ad
essere uno degli attori in gioco e non il solito “potere debole” che sta
ai margini della scena. Il curricolo verticale: lavorare per competenze
e per bienni Spesso, con una insidiosa ingenuità, ci vien
chiesto: “Quali sono i miglioramenti negli apprendimenti degli allievi,
dovuti all’effetto comprensivo?”, “Qual è la differenza tra i diversi
modelli?”. La ricerca docimologica potrebbe già offrire qualche risposta
in merito, ma ci direbbe che l’effetto-scuola si lega ad un insieme di
fattori che non dipendono dalla sola variante organizzativa. Ci si
riferisce infatti a: - il ruolo trainante del dirigente scolastico
(ci credo o no al comprensivo?); - la condivisione di una idea di comunità
professionale (cioè il sentirsi parte attiva, consapevole e responsabile
circa l’andamento dei risultati della scuola); -
la qualità delle didattiche in classe, l’utilizzo delle tecnologie, la
cultura valutativa, il clima sociale, ecc. -
il rapporto con i genitori, la comunità, il territorio. Un istituto comprensivo si trova nelle
condizioni di poter intervenire positivamente in queste aree, ad esempio
una regia di programmazione comune favorisce la graduale organizzazione
dei saperi, la messa a punto di indicatori in progressione per una
valutazione formativa, la continuità discontinuità degli approcci
metodologici e degli ambienti didattici. Sono suggestioni già contenute
nell’Atto di indirizzo del MIUR dell’8-9-2009, la versione “bonsai”
delle indicazioni in attesa di armonizzazione[9]. In alcune realtà di eccellenza (Scuola-città
Pestalozzi di Firenze[10],
provincia di Trento[11],
gruppi sperimentali di Reggio Emilia[12])
ed in molte scuole si è riusciti ad elaborare e praticare curricoli
verticali, ispirati all’idea di competenze, standard progressivi,
metodologie attive. Resta ancora molto da fare, soprattutto per far
dialogare la scuola primaria e quella secondaria, magari attraverso una
diversa articolazione dei bienni che configurano il percorso ottennale.
Particolarmente stimolante risulterebbe la rivisitazione del biennio 5^
elementare-1^ media, magari “appoggiato” ad un consiglio di classe
verticale, in cui sfide importanti come l’autonomia di fronte ai testi
scritti, la motivazione verso l’impegno a scuola, l’incontro con i
linguaggi specifici delle discipline, potrebbero avvalersi dell’apporto
congiunto di professionalità diverse, capaci di meglio rispondere alle
diverse esigenze degli allievi. In questo quadro potrebbe addirittura
essere possibile riequilibrare diversamente il rapporto tra elementare e
medie, in una sorta di 4+4. Provocatoriamente, la quinta elementare
potrebbe essere affidata – anche come dislocazione fisica -
alla scuola media (si avrebbe un effetto di trascinamento vero
l’alto, con ragazzi e maestri proiettati verso la secondaria, ma i
docenti delle medie dovrebbero recuperare attenzione alla operatività
dei metodi didattici). Si porrebbe fine alla “querelle” circa la
presunta elementarizzazione della scuola di base ed il comprensivo
potrebbe diventare il banco di prova di una diversa e più produttiva
idea di scuola di base. Ma ci sarà tempo per ritornare sulla questione. La comunità professionale “verticale” Abbiamo visto come l’istituto comprensivo non
sia un grado scolastico distinto dai tre che lo vanno a comporre (la
scuola dell’infanzia, la scuola primaria, la scuola secondaria di I
grado), ma piuttosto una “federazione” tra di essi, che chiama in causa
soprattutto gli operatori scolastici (il dirigente e i docenti) che sono
chiamati a farlo “vivere”. Sono i loro comportamenti che danno il
“senso” del comprensivo, l’opportunità di immaginare una diversa
comunità scolastica dove i piccoli ed i grandi possono crescere con
migliori opportunità. In particolare il comprensivo mette a contatto
storie e professionalità diverse, capaci di contaminarsi positivamente.
Non immaginiamo certo un utilizzo generico dei docenti su tutta la
filiera verticale, ma la valorizzazione delle diverse “specializzazioni”
(l’attenzione alle caratteristiche degli allievi, la dimensione
operativa della didattica, il rigore degli approcci disciplinari).
Questo può avvenire:
-
nei momenti della progettazione, della
caratterizzazione degli ambienti di apprendimento, della valutazione
formativa (attraverso la costituzione di uno staff pedagogico di
raccordo);
-
nella messa a punto dei risultati di
apprendimenti e dei profili di uscita, in forma di competenze e standard
di istituto, in progressione (attraverso la costituzione di dipartimenti
disciplinari verticalizzati);
-
nella gestione di alcune attività
didattiche comuni, attraverso laboratori, prestiti professionali, scambi
di pratiche, iniziative verso l’esterno (con l’utilizzo del personale
nell’ottica dell’organico di istituto). L’istituto comprensivo può dar vita ad una vera
e propria comunità professionale se lo stare insieme si trasforma da
convivenza forzata e poco desiderata in una rete di occasioni
professionali inedite e stimolanti, in un ambiente ad alto tasso di
comunicazione e orientato alla ricerca. Nuove tecnologie (wiki-school), forme agili di
coordinamento (staff misti), figure di sistema ad hoc, capacità di
ascolto e di decisione sono elementi decisivi per costruire la comunità
professionale e valorizzare al massimo il contesto dell’istituto
comprensivo, a partire dal ruolo trainante del dirigente scolastico[13].
Anche dopo i nuovi parametri del dimensionamento. Condizioni per il rilancio degli istituti
comprensivi Il futuro degli istituti comprensivi si
inserisce in uno scenario al contempo europeo e locale. E’ l’Unione
Europea a richiamare (anche nell’ultimo documento ET 2020)[14]
il significato di una formazione di base più solida per lo sviluppo di
una cittadinanza europea. Se si ritiene che l’istituto comprensivo
rappresenti il futuro della scuola di base italiana, è necessario
riaprire un discorso pubblico sulle sue caratteristiche e sulle
condizioni che consentono di farlo funzionare al meglio:
a)
armonizzare il dimensionamento che, al di
là dei numeri, deve rappresentare una condizione di continuità
territoriale: l’idea guida, comunque, non è solo il numero, ma il bacino
ottimale per la scuola di base che dà identità ad un territorio;
b)
superare la diversità di trattamento
giuridico del personale docente, attraverso decisioni contrattuali
coerenti (ad esempio, in materia di orari di servizio, impegni
collaterali, ecc.);
c)
favorire la gestione organizzativa e
funzionale unitaria, con adeguate scelte strutturali: se il parametro
numerico si “innalza” diventa necessario ripensare seriamente alle
figure di sistema, in forma di staff intermedio che dia sostanza alla
cultura organizzativa dell’istituto;
d)
adottare finalmente l’organico funzionale
di istituto comprensivo, che consenta operazioni indispensabili come il
completamento “interno” delle cattedre, i prestiti professionali, la
disponibilità di competenze specialistiche a favore dell’intero
istituto;
e)
sperimentare una diversa articolazione
interna del curricolo, attraverso il modello dei bienni integrati, con
biennio a scavalco 5^ elementare-1^ media, anche con un riequilibrio tra
i due segmenti, un 4+4 che ridia respiro alla scuola secondaria, ma in
un confronto serrato con la primaria;
f)
costruire un ambiente professionale
orientato alla ricerca e alla formazione, mettendo a disposizione uno
specifico fondo per favorire iniziative di autovalutazione, diagnosi,
miglioramento, rendicontazione sociale.
Se si avrà il coraggio di intraprendere scelte
di questo tipo, la quarta generazione di istituti comprensivi potrebbe
dare un contributo decisivo al miglioramento del sistema scolastico
italiano nei prossimi anni.
[1] Il problema ha una sua
complessità giuridica, alla luce del potenziale conflitto tra
prerogative esclusive delle regioni in materia di
dimensionamento e competenza dello Stato nel determinare i
parametri numerici per il dimensionamento. La controversia si è
protratta fin di fronte alla Corte Costituzionale che, con la
Sentenza 200/2009, ha ripristinato lo status quo, precisando i
confini della competenza concorrente.
[2] T.J.Sergiovanni,
Costruire comunità nella scuola, LAS, Roma, 2000. Anche:
T.J.Sergiovanni, Dirigere la scuola, comunità che apprende,
LAS, Roma, 2002.
[3] M.Orsi, Il dirigente
scolastico, la visione e la comunità, in “Rivista
dell’istruzione”, n. 4, luglio-agosto 2011.
[4] P.Boscolo, Continuità,
apprendimenti e competenze in un curricolo verticale, in “Studi
e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione”, Gli
Istituti comprensivi, n. 83, Le Monnierr, Firenze, 1998.
[5] Quattro reti di scuola
approfondirono gli assi disciplinari di lingua italiana,
matematica, scienze e storia, con l’elaborazione di proposte di
curricoli verticali. Gli atti furono pubblicati per conto del
MIUR dall’IC Turoldo di Torino nel 2004 (cfr.
http://www.storiairreer.it/IndiceRapportoFinaleRicerca.htm
).
[6] Ci riferiamo alle
circolari ministeriali n. 454 del 28 luglio 1997, n. 352 del 7
agosto 1998, e n. 227 del 30 settembre 1999 che nel triennio
1997-1999 delinearono una vera e propria piattaforma
pedagogico-organizzativa per gli istituti comprensivi, ma che
non diventarono oggetto di efficaci e generalizzate misure di
accompagnamento. Sono comunque documenti di notevole
potenzialità, certamente da riprendere in mano, che possono
aiutare a scoprire le condizioni per il successo di questa
innovazione.
[7] Una sintesi di quanto è
avvenuto, nel dibattito culturale degli ultimi anni, dopo la
pubblicazione delle Indicazioni del 2007 è contenuto in G.Cerini
(a cura di), Dalle indicazioni al curricolo. Il contributo
della ricerca nel primo ciclo, USR Emilia-Romagna, Tecnodid,
Napoli, 2011 (con saggi, tra gli altri, di: I.Fiorin,
P.Cattaneo, C.Petracca, D.Previtali, L.Rondanini).
[8] Tra le ricerche più
approfondite si segnalano quella condotta dall’USR Lombardia e
commissionata all’Università di Pavia: E.Becchi, A.Bondioli,
M.Ferrari, Scuole allo specchio. Ricerca-formazione con un
gruppo di istituti comprensivi lombardi, F.Angeli, Milano,
2005.
Esperienze e riflessioni sono contenute in G.Cerini (a cura di),
La scuola verticale. Istituti comprensivi e riordino dei
cicli, Tecnodid, Napoli, 2000 e in G.Cerini (a cura di),
Un manifesto per gli istituti comprensivi. Le dieci tesi di
Sestino, Regione Toscana, 2007.
[9] G.Cerini,
Armonizzazione, in G.Cerini, M.Spinosi (a cura di), Voci
della Scuola, X, Tecnodid, Napoli, 2011.
[10] P.Orefice, S.Dogliani,
G.Del Gobbo, Competenze trasversali a scuola. Trasferibilità
della sperimentazione di Scuola-Città Pestalozzi, Edizioni
ETS, Pisa, 2011.
[11] F.Azzali e B.De Gerloni,
I saperi e la persona. Indagine sui modelli di curricolo
nella scuola trentina, Provincia di Trento, IPRASE, 2006.
[12] L.Guasti (a cura),
Standards di contenuto nella scuola di base, Erickson,
Trento, 2009.
[13] G.Cerini (a cura di),
Il nuovo dirigente scolastico. Tra leadership e management,
Maggioli, Rimini, 2010.
[14] G.Barzanò, G.De Sanctis,
ET 2020, in G.Cerini, M.Spinosi, Voci della scuola,
X, Tecnodid, Napoli, 2011. |
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