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LA VALUTAZIONE TRA AUTONOMIA DELLE SCUOLE E STANDARD NAZIONALIdi Giancarlo Cerini Da dove nasce l’enfasi sulla valutazioneLa valutazione nella (della) scuola è diventata oggi una rilevante “sfida” istituzionale, oltre che una controversa questione pedagogica. Si registra infatti una forte domanda sociale di valutazione, innescata da una maggiore attenzione alla formazione intesa come risorsa fondamentale a disposizione della società intera e di ciascuno dei suoi membri. Dopo lo sviluppo degli anni sessanta-settanta, il sistema scolastico ha rallentato la sua corsa; il decremento della natalità, la crisi della finanza pubblica, il moltiplicarsi dei saperi e dei luoghi ove è possibile apprenderli, hanno affievolito il ruolo centrale della scuola nelle politiche pubbliche. Inoltre, il principio di una “educazione lungo tutto l’arco della vita” tende a delimitare ulteriormente il campo dell’istruzione formale, cioè della scuola come istituzione rivolta esclusivamente alle giovani generazioni (in tempi e spazi prefissati). Di fronte ad una pluralità di sedi e di offerte, gli utenti (i genitori) ed i committenti (le istituzioni pubbliche) sono diventati più esigenti e selettivi nei confronti della formazione; tendono ad utilizzare criteri di comparazione tra costi e benefici; si interrogano sulla sua produttività “culturale”; in fondo, assumono un continuo anche se inconsapevole atteggiamento valutativo. In questo quadro, il terreno della valutazione (qui intesa come etica del render conto) può rappresentare l’occasione per ricostruire un rapporto positivo tra scuola e società civile, oggi fortemente deteriorato. La “ratio” di molte riforme di questi anni sembra implicare uno scambio virtuoso tra un possibile aumento delle risorse dedicate alla scuola e una migliore affidabilità (rendicontazione) degli esiti. Di questi diversi aspetti si occupa il sistema nazionale di valutazione. La sua stessa costituzione risponde ad una logica istituzionale. Occorre fondare le decisioni –ai vari livelli- su valutazioni meno approssimate. Se c’è incertezza sugli stessi tassi di successo scolastico, sarà impossibile compiere una diagnosi attendibile della “qualità” della nostra scuola. Sarebbe quanto mai opportuno fare diventare i dati (a partire dalle tipologie di prove, dai criteri di somministrazione, dall’interpretazione dei dati, ecc.) oggetto di riflessione per tutti gli operatori scolastici. Nel nostro paese, non solo la pratica delle verifiche sistematiche degli apprendimenti è assai sporadica, ma manca totalmente un’azione di feed-back tra curricoli reali, prove di valutazione, verifiche sistematiche degli apprendimenti (e conseguente formazione dei docenti) che coinvolga direttamente gli operatori scolastici. La valutazione come “sistema” In via preliminare è necessario delimitare il campo della valutazione. Possiamo infatti rintracciare i diversi profili di una valutazione strettamente didattica (rivolta ad apprezzare i processi e gli esiti dell’apprendimento), una di istituto (volta a rilevare le caratteristiche del servizio erogato da uno “stabilimento” scolastico), una valutazione di sistema, orientata a cogliere le grandi tendenze, il rapporto costi/benefici, i macro-indicatori, il peso delle variabili geografiche e territoriali. Un approccio sistemico alla valutazione deve interagire con le dinamiche dei processi di insegnamento, esplorare l’effetto delle variabili interne (l’istituto e la classe) sulla qualità dell’istruzione. Un simile percorso è richiesto dall’autonomia dei singoli istituti, che sono tenuti a dotarsi di strumenti e procedure per verificare la propria produttività culturale ed il raggiungimento di obiettivi e standard nazionali. La conquista dell’autonomia va dunque di pari passo con lo sviluppo di una cultura e di una attitudine alla valutazione (all’autovalutazione, alla valutazione interna ed esterna). L’autovalutazione coinvolge i soggetti stessi che compiono l’attività, mentre la valutazione esterna oltre che essere condotta da agenti esterni vuole “testare” il raggiungimento di obiettivi definiti a livello generale (esterni al singolo istituto). Il processo autovalutativo può dar vita ad una vera e propria valutazione interna, cioè ad una azione volta ad apprezzare il raggiungimento di obiettivi specifici, legati ad un preciso contesto operativo. Occorre mantenere un forte intreccio tra valutazione interna ed esterna. Se obiettivo non è solo quello di stilare graduatorie o di certificare posizioni, ma di agire per il miglioramento delle prestazioni e dei risultati, diventa opportuno allestire un sistema di valutazione fortemente interattivo, in cui i momenti di valutazione esterna si accompagnano ad una metodologia di valutazione interna. In questa prospettiva è opportuno recuperare pienamente i diversi approcci alla valutazione ed al controllo della qualità dei sistemi educativi, così come si sono sviluppati nella ricerca e nelle pratiche di numerose scuole. Un scheda di sintesi sull’evoluzione della cultura della valutazione e dei suoi metodi ci è offerta da M.Castoldi.
La richiesta di affidabilità del sistema Mai come in questi ultimi mesi si è sentito parlare di valutazione, di obiettivi formativi, di risultati scolastici, di standard nazionali. Le prove internazionali per la verifica degli apprendimenti suonano come un potente campanello d’allarme e sollecitano una maggiore attenzione dei decisori politici sui temi della valutazione e sul “rendimento” offerto dal sistema scolastico. Il dibattito sugli esiti dell’apprendimento si intreccia inevitabilmente con il tema delle competenze di base, cioè dello “zoccolo” di conoscenze, competenze e regole di comportamento, che si vorrebbe assicurare a tutti gli allievi, come obiettivo della formazione di base. E’ quindi evidente il nesso con le prospettive di riforma del sistema scolastico e con le modifiche di finalità e obiettivi di apprendimento, introdotte nei nuovi documenti programmatici per la scuola (le c.d. Indicazioni nazionali). Gli insegnanti vivono con maggiore disagio ed ansia questa enfasi sulla valutazione, perché l’associano ad un non desiderato maggiore controllo sul loro operato professionale e didattico. Non sempre è diffusa la consapevolezza che la mancanza di un efficiente sistema di rilevazione degli apprendimenti rappresenta uno dei punti deboli della nostra scuola e danneggia gli stessi insegnanti, spesso chiamati a presentarsi “a mani vuote” di fronte ai tanti “tribunali” (opinione pubblica, stake-holder, mass-media, ecc.) che sembrano aver già decretato un giudizio negativo sulla qualità della scuola italiana. Ad un giudizio superficiale esterno non è possibile contrapporre una incerta autodifesa, tutta giocata sull’autoreferenzialità impressionistica degli addetti ai lavori. La richiesta di definire degli standard nazionali, cioè di stabilire delle soglie, da intendersi come livelli accettabili di prestazione, esprime il bisogno della società di fissare alcuni punti fermi in un periodo di trasformazioni, di segno non sempre chiaro, e quindi di forte incertezze sui valori e sulle prospettive di evoluzione della scuola. Insomma, dopo la stagione della quantità (della espansione incessante del sistema scuola e dei livelli di partecipazione degli allievi) si è fatta strada la richiesta di qualità (cioè di dar conto dei livelli di preparazione assicurati dalla scuola). Si è così assistito al ripristino di curricoli nazionali, anche nei sistemi a larga autonomia (come quello inglese), alla creazione di strutture o istituti nazionali di valutazione con l’obiettivo di valutare il raggiungimento dei risultati attesi, alla intensificazione della partecipazione dei sistemi scolastici nazionali alle indagini internazionali sull’apprendimento promossi da agenzie internazionali con programmi di respiro pluriennale (IEA, NAEP, OCSE, ecc.). La stessa ricerca di “indicatori” sul funzionamento dei sistemi educativi è emblematica di una diffusa esigenza di affidabilità e di certezze. In Italia tale processo ha trovato un rinnovato impulso con il riconoscimento di ampie sfere di autonomia (amministrativa, organizzativa e didattica) alle istituzioni scolastiche, avvenuta sul finire degli anni ’90. Con l’autonomia il binomio discrezionalità-rendicontazione è apparso subito evidente, sia nel corpo della legge 59/1997 (che chiede alla scuole autonome di “render conto della propria produttività culturale”) sia nel regolamento attuativo del 1999 (che dedica alla questione della valutazione un intero articolo). La valutazione (di sistema, di istituto, degli apprendimenti) diventa così un obbligo di legge, ma soprattutto un impegno deontologico da parte di un sistema scolastico che rivenda sempre più ampi margini di discrezionalità. L’autonomia dovrà procedere di pari passo con l’onere di render conto, agli utenti vicini e lontani del servizio (i genitori, ad esempio, ma anche l’intero paese) del raggiungimento delle finalità istituzionali attribuite al sistema scolastico. Tali principi sono stati recepiti anche in alcuni recenti provvedimenti legislativi, in particolare nel d.lvo 30.7.1999, n. 286, che consolidano nella pubblica amministrazione i principi della rendicontazione, della valutazione e della responsabilità in ordine ai risultati. La norma, però, sembra adattarsi a fatica al contesto scolastico, ove la dinamica tra processi (di insegnamento) e risultati (di apprendimento) è assai più complessa dei possibili indicatori oggettivi di rendimento dell’azione amministrativa. I vincoli e le risorse dell’autonomia L’autonomia della scuola, per non trasformarsi in frantumazione autarchica del progetto educativo richiede la definizione di standard nazionali,, in altre parole di un criterio di qualità, ossia di un livello desiderato del servizio scolastico o del suo prodotto. Ogni scuola potrà predisporre con ampi margini di flessibilità le forme e le modalità che riterrà più opportune per la valutazione in itinere (v. in proposito le nuove indicazioni in materia di valutazione degli alunni per il primo ciclo, contenute nella CM 85/2004), ma la certificazione finale degli esiti dovrà sottostare a regole e criteri nazionali e consentire opportune comparazioni, rispetto a soglie definite (appunto gli standard). La definizione di tale soglia può avvenire a priori (standard assoluto, o standard di progetto) oppure a posteriori, cioè dopo aver rilevato la effettiva distribuzione delle prestazioni (standard di risultato o normativo). Si tratta di definire parametri comuni di riferimento sotto forma di indicatori, cioè attraverso enunciati circostanziati che qualificano un fenomeno in modo tale da rendere possibile la sua "misurabilità" (a partire dal livello più elementare della sua presenza/assenza). Così, l’autonomia organizzativa e didattica si esplica nel quadro di alcuni punti di riferimento definiti a livello nazionale, rispetto ai quali far agire le scelte "locali". Si tratterà di standard di apprendimento degli allievi (per individuare i livelli di competenza considerati accettabili) e di standard di funzionamento della scuola (per indicare le caratteristiche essenziali di una scuola efficace). Prudentemente, nel Regolamento dell’autonomia (art. 8 del d.P.R. 275/99) il termine standard di apprendimento, che compariva nella bozza iniziale del provvedimento, è stato sostituito da "obiettivi specifici di apprendimento". Questa scelta è emblematica della difficoltà, teorica e pratica, nell’utilizzo del concetto di standard. Di fatto, la pratica della rilevazione degli apprendimenti attraverso prove strutturate, con la possibilità di definire (prima o dopo) parametri di riferimento nazionali, come pure la diffusione di questionari di sistema per rilevare gli aspetti più significativi dell’organizzazione scolastica, stanno delineando alcune soglie di attenzione, definibili a maglie larghe come possibili standard. È però auspicabile che la individuazione di tali indicatori avvenga non dall’alto, ma in stretto rapporto con le scuole, anzi interagendo con le scuole migliori. È assai utile, in questa prospettiva, che ogni scuola sviluppi una propria capacità di autoanalisi, cioè di riflessione "strumentata" e documentata sui propri punti di forza e di debolezza. I questionari di sistema allegati alle prove Invalsi dovrebbero stimolare questa capacità di autovalutazione. Si attende anche la riforma degli organi collegiali, che nei diversi testi in discussione prevede la costituzione di un "nucleo" interno di valutazione, una struttura che dovrà diventare uno dei nodi nevralgici per lo sviluppo organizzativo e curricolare della scuola autonoma. Una sede che non solo raccoglie dati e informazioni, ma li interpreta e li mette a disposizione delle diverse fasi della progettazione. Sembra dunque emergere un filo coerente che lega insieme eventi che altrimenti rischierebbero di essere percepiti come altrettante tessere di un approccio tecnicistico (ci riferiamo alla diffusione di rilevazioni frequenti degli apprendimenti, alla creazione di un istituto nazionale per la valutazione, al rapido cambiamento di strumenti di valutazione, al dibattito sulla certificazione delle competenze). Tra regolamento dell’autonomia (1999) e legge di ordinamento (2003) sono maggiori le continuità, piuttosto che le discontinuità e questo fatto fa ben sperare circa la costruzione di una condivisa cultura della valutazione. Dall’autonomia (Dpr 275/1999) ai nuovi ordinamenti (Legge 53/2003)
La difficile definizione degli standard Non è pensabile avvicinarsi al tema degli standard con un approccio puramente tecnico o docimologico, come se fosse scontato fissare gli standard di apprendimento con una operazione aritmetica (ad esempio, fissandolo a 0.50 punti di deviazione standard sopra la media dei punteggi realizzati in una determinata prestazione). Lo standard, come farebbe pensare la sua derivazione latina da “stendardo”, induce soprattutto ad esplorarne il valore simbolico, emblematico, di possibile punto focale verso cui mirare per esprimere un giudizio sulla bontà di un “prodotto” (culturale, in questo caso). Alla base degli standard dovrebbe esserci una idea condivisa di scuola, di progetto culturale ed educativo, di conoscenze e competenze di cui si intende accertare il possesso da parte degli allievi. In questa stagione di diffusione del testing in Italia (arriviamo buon ultimi), la centratura sulle performances, il ricorso a strumenti docimologici standardizzati, il riferimento a paradigmi comportamentistici sono tutti elementi che segnalano una preferenza accordata ai modelli quantitativi, che rischiano di cristallizzare un rapporto di estraneità tra valutatori e valutati (tra soggetto ed oggetto della valutazione), una “scissione” che si rivela del tutto improduttiva ai fini del miglioramento dei processi osservati. Invece, l’analisi degli apprendimenti (sottesa ad ogni strumentazione docimologia) dovrebbe implicare l’assunzione di un preciso punto di vista sui compiti e gli obiettivi che si intendono assegnare al sistema formativo. Le performances cognitive misurabili negli allievi non esauriscono il quadro delle finalità formative attribuite alla nostra scuola. L’interpretazione degli apprendimenti, il concetto di competenze, il rapporto con le conoscenze sono dunque questioni meritevoli di essere discusse e confrontate con i diretti protagonisti delle azioni valutative, in particolare con gli insegnanti. Prima degli standard vengono i documenti programmatici nazionali, con l’individuazione di obiettivi di apprendimento, meglio ancora se sobri, tendenti al trasversale, tradotti possibilmente in indicatori di prestazione, cioè in enunciati descrittivi che consentono di esprimere un apprezzamento quantitativo di una caratteristica (ove il gradiente di assenza/presenza è più veritiero di sofisticate scale ordinali o ad intervalli). Lo standard è la definizione condivisa di una soglia accettabile di una prestazione apprenditiva, che può essere definita a priori, in modo assoluto, secondo un criterio di padronanza, oppure a posteriori, secondo un criterio che tiene come riferimento la distribuzione dei risultati rilevati (la media, la moda, lo scarto rispetto alla media, i percentili). Autorevoli docimologici invitano il sistema a sbarazzarsi della tendenza ad adagiarsi fissarsi sul concetto di “sufficienza”, elevando deliberatamente la soglia dello standard, puntando verso l’alto per elevare le aspettative dei docenti, tali da indurre comportamenti virtuosi negli allievi (quando, da loro, ci aspettiamo sempre il “peggio”). Questo anche al fine di superare un certo “naturalismo” della didattica, che si traduce in una malintesa personalizzazione degli obiettivi, per promuovere invece un effetto trainante sugli apprendimenti. In questa ottica lo standard dovrebbe tradursi in uno stimolo al miglioramento e non essere invece percepito come minaccia di una sanzione. Secondo alcune scuole di pensiero (ma non è questo l’intendimento ufficialmente perseguito dal Sistema nazionale di valutazione) la conoscenza (pubblica) dei risultati ottenuti dagli allievi di una scuola potrebbe consentire agli utenti di scegliere le scuole migliori, incentivando la competitività vista qui come molla per il miglioramento. Secondo altri, questa pratica è destinata a incentivare le disuguaglianze tra scuole, determinando dislivelli difficilmente colmabili. Il sistema valutativo italiano prevede, al momento, che i dati sui risultati siano comunicati in via riservata alle singole scuole, affinché queste possano per poter disporre di informazioni utili per intervenire e regolare i processi. L’obbligatorietà della partecipazione alla somministrazione delle prove, definita in recenti Direttive, potrebbe mettere in ombra questa ottica promozionale. Partecipare alle prove deve essere percepito dalle scuola come una convenienza, piuttosto che un obbligo. La qualità dello standard Quando si parla di standard è importante che ci si riferisca non solo ai risultati degli alunni, in termini di apprendimenti, prestazioni, competenze. Occorre allargare la visuale anche al contesto dell’apprendimento, cioè alle caratteristiche dell’ambiente educativo, alla qualità dei processi di insegnamento, alle dinamiche dell’apprendimento, partendo dal presupposto che l’apprendimento è “situato, interattivo, costruttivo e strategico” e che quindi la sua qualità dipende anche dalle condizioni dell’ambiente in cui si esplica e si sviluppa. E’ la stessa legislazione sull’autonomia a ricordarci questa duplice prospettiva, quando parla di standard di apprendimento e standard di funzionamento e sottolinea il fatto che deve trattarsi di standard nazionali, quindi di una garanzia di qualità che non sopporta di subire variazioni sulla base della geografia o delle situazioni sociali. La recente evoluzione costituzionale, con la delimitazione dei campi di intervento legislativo statale alle norme generali sull’istruzione ed alla garanzia dei “livelli essenziali delle prestazioni”, si inserisce in questa prospettiva ed offre una sponda giuridica autorevole alla ricerca di quel “nucleo essenziale dei piani di studi scolastici” di cui fa cenno anche la legge 53/2003. Un problema aperto resta la collocazione, nella nuova gerarchia delle fonti giuridiche, dei documenti nazionali relativi ai piani di studio (le Indicazioni nazionali), con l’esigenza di coniugare l’essenzialità degli obiettivi formativi con la loro descrizione analitica e la loro “misurabilità”. Alcuni studiosi sostengono che sarebbe opportuno delineare un grappolo di non più di 7-8 abilità (sottese alle diverse discipline, quasi lo zoccolo di base di abilità più specifiche), sintetizzabili in: - comprensione dei testi, - ricchezza del lessico, - capacità di argomentare, - capacità di impostare un problema, - produzione di testi di vario genere. Tali competenze dovrebbero essere riassuntive del guadagno formativo che gli allievi hanno realizzato, ma dovrebbero essere anche predittive delle future difficoltà che i ragazzi potrebbero incontrare. Su queste sarebbe dunque utile compiere un lavoro approfondito di scavo, per disporre di informazioni e conoscenze certe. Si tratta di abilità trasversali anzi, trasferibili, perché nate a contatto con uno specifico contesto disciplinare tendono poi a trasferirsi ad altri contesti, a trasformarsi in procedure di lavoro della mente dei ragazzi (modi di pensare, di organizzare il proprio lavoro, metodo di studio, ecc.). Si tratta di conoscenze procedurali piuttosto che dichiarative, quindi non di contenuti di conoscenza statici, ma di azioni cognitive corrispondenti al formalizzare, contestualizzare, comunicare, ecc. Di fronte alla complessità di simili abilità è arduo pensare che sia possibile imbrigliarle attraverso un’azione generalizzata di testing. Le prove strutturate ci danno molte informazioni in modo attendibile e valido, ma tendono a premiare le risposte convergenti, a scartare gli imprevisti, gli errori, i processi di pensiero sottesi a determinate prestazioni. Comunque non esistono solo i quesiti a risposta chiusa (multipla), ma quelli a risposta aperta e le prove di carattere semi-strutturato. In queste ultime ci sono spazi di risposta più variegati, in grado di attivare una pluralità di processi (percettivi, cognitivi, linguistici, espressivi), che consentono di vedere come un allievo imposta la soluzione di un problema. Non dobbiamo, poi, trascurare il dibattito di questi mesi sul significato di un approccio clinico-osservativo alla valutazione, ad esempio attraverso la costruzione di un port-folio personale, cioè la documentazione progressiva delle competenze acquisite e dei processi ad esse sottese. Un tema che dovrebbe essere adeguatamente approfondito riguarda il rapporto tra port-folio e standard, due termini che a prima vista appaiono antitetici, ma che invece possono coesistere, come rivela la struttura del port-folio europeo delle lingue, che contiene al suo interno anche uno spazio per consentire ad un allievo di commisurare le proprie competenze con alcuni standard di riferimento, attraverso un’attenta descrizione preventiva (rubriche) dei comportamenti attesi. La questione della certificazione La definizione di standard è fondamentale per affrontare correttamente il problema della certificazione delle competenze. Certificare le competenze acquisite da un allievo rappresenta un compito essenziale per ogni struttura scolastica e formativa. Non solo perché la valutazione è un atto indispensabile per “regolare” il rapporto tra insegnamento e apprendimento (la c.d. valutazione formativa), ma perché assolve ad un preciso impegno giuridico, che è quello di attestare erga omnes gli esiti di un percorso di istruzione (scolastica) o di formazione (professionale) . Oggi, però, tende ad affievolirsi il valore legale del titolo di studio e si richiede una più esplicita ed analitica attestazione delle competenze, riferita alle abilità e conoscenze acquisite dai soggetti in formazione. Non a caso il concetto di certificazione nasce nell’ambito della formazione professionale (f.p.), per l’esigenza di rilasciare attestati di qualifica professionale dal contenuto chiaro ed univoco, e quindi spendibili sul mercato del lavoro. Molti documenti europei (cfr. Libro Bianco "Cresson", 1994) hanno più volte sottolineato l’esigenza di costruire una carta personale (un libretto formativo o un portfolio) capace di dar conto delle conoscenze fondamentali (linguistiche, informatiche, ecc.), tecniche (di settore, es.: contabili, finanziarie, ecc.) o trasversali (relazionali, organizzative, decisionali, ecc.). In questa prospettiva, l’accordo Stato-Regioni del 18.02.2000 ha previsto la costruzione anche in Italia del "libretto formativo del cittadino". Uno strumento simile è previsto anche all’interno della legge regionale dell’Emilia-Romagna sull’istruzione (LR 12/2003). Nel nostro paese il problema è acuito dalla pluralità di istituzioni e agenzie formative (pubbliche e private), dalle differenziazioni territoriali (ogni Regione ha una competenza esclusiva in materia di formazione professionale). Negli ultimi anni si è consolidata la ricerca di criteri di riferimento per la definizione di standard nazionali minimi di competenza. Tale impegno trova una prima sistemazione amministrativa nel dm Lavoro 31.05.2001, che definisce come competenza certificabile "l’insieme strutturato di conoscenze e di abilità, di norma riferibili a specifiche figure professionali, acquisibili attraverso percorsi di formazione professionale, e/o esperienze lavorative, e/o autoformazione, valutabili anche come crediti formativi". Le procedure di certificazione (e, ovviamente, la definizione dei relativi percorsi formativi) restano di competenza delle singole Regioni, ma si riconosce sempre più l’esigenza di affermare la validità delle qualifiche sull’intero territorio nazionale. Anche l’impegno per una maggiore integrazione/alternanza tra percorsi scolastici "curricolari" e percorsi formativi verso il lavoro (apprendistato, addestramento professionale, contratti di formazione-lavoro), richiamata dalla legge 24.06.1997, n. 196 (art 17), impone l’adozione di criteri di valutazione capaci di "apprezzare" le competenze dagli allievi indipendentemente dal luogo (ambiente di lavoro o attività di tirocinio), dalle modalità (lezioni, stages, ecc.) o dal contesto (scuola, corsi brevi, autoistruzione, ecc.) in cui siano state effettivamente acquisite. L’autonomia organizzativa e didattica delle scuole, con una maggiore flessibilità delle soluzioni curricolari (la c.d didattica modulare) e la diversificazione dell’offerta formativa (con una pluralità dì opzioni e di possibili arricchimenti), introduce tali temi anche nell’ambiente scolastico, con dirette conseguenze sulle modalità di valutazione. Il Regolamento per l’autonomia (d.P.R. 08.03.1999, n. 275) attribuisce al Ministero dell’istruzione l’adozione dei nuovi modelli di certificazione che dovranno indicare "le conoscenze, le competenze, le capacità acquisite ed i crediti formativi riconoscibili" (art. 10), mentre alle singole scuole è riconosciuta la competenza su "modalità e criteri di valutazione degli alunni" e per il "riconoscimento dei crediti e per il recupero dei debiti scolastici" (art. 4). Tra gli elementi di continuità nella politica scolastica degli ultimi dieci anni c’è senz’altro l’idea di favorire una migliore osmosi, se non proprio integrazione, tra l’istruzione scolastica e le esperienze formative svolte in altri contesti (formazione professionale, apprendistato, lavoro, autoformazione). E’ emblematico che la legge 144 del 17-56-1999 istitutiva dell’obbligo formativo fino a 18 anni, a differenza di altri provvedimenti della precedente legislatura non sia stata abrogata dalla nuova legge di ordinamento (L. 53/2003). Semmai, il principio dell’obbligo formativo è stato riformulato nel concetto di diritto-dovere all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o fino al conseguimento di una qualifica (principio la cui traduzione in decreto legislativo tarda ancora ad essere formalizzato). Inoltre, sulla medesima scia dell’integrazione tra i diversi sistemi formativi, nell’attesa dell’emanazione del decreto legislativo relativo al secondo ciclo, tutte le Regioni italiane stanno sperimentando percorsi formativi misti post-obbligo scolastico, di durata triennale, sulla base di un accordo quadro siglato tra il MIUR, il Ministero del Lavoro, le Regioni, nel giugno 2003. E’ evidente che questa evoluzione del sistema richiede di essere accompagnata da adeguate strumentazioni giuridiche e normative, soprattutto in merito alle modalità di certificazione delle competenze acquisite dagli allievi in contesti diversi (scuola, lavoro, formazione, ecc.) affinché le stesse siano riconosciute e accreditate dai diversi sistemi. Serve cioè un codice comune che attribuisca un valore comparabile (un credito formativo) alle competenze. Questi strumenti sono stati ora messi a punto sia sul versante degli standard formativi minimi legati alle esperienze integrate (si tratta dell’accordo Conferenza Stato-Regioni del 15 gennaio 2004 e, più recentemente, dei modelli di certificazione che possono essere utilizzati all’interno del sistema scolastico per riconoscere crediti maturati esternamente (D.I. 3 dicembre 2004, n. 86). Il certificato ha la precipua finalità di consentire l’ammissione dell’allievo ad una determinata classe corrispondente al livello di competenze riconosciuto e deve essere rilasciato da apposite commissioni espresse dal Collegio docenti della scuola “ricevente”. Gli standard di funzionamento Se non isoliamo l’apprendimento dal contesto in cui avviene, dovremmo impegnarci anche nella valutazione dell’offerta formativa, della qualità della proposta didattica, dell’organizzazione della scuola. Anche in questo caso ci servono indicatori (ma scegliere un indicatore è sempre una scelta di valore). Se prendiamo in esame un semplice strumento in uso nella scuola materna (la scala SOVASI) vedremo una serie di items che passano sotto esame una notevole quantità di aspetti dell’ambiente scolastico (dagli spazi al clima sociale, dalle attività cognitive al ruolo degli adulti) e per i quali vengono definiti dei livelli soglia rappresentativi di qualità diverse: affermare che un certo tipo di interazione verbale è scadente o buono o eccellente è dunque una operazione di interpretazione guidata da una teoria pedagogica. Dovremo poi utilizzare concretamente lo strumento di osservazione/valutazione. Ma è molto più importante costruire o condividere il significato di un simile strumento, piuttosto che semplicemente applicarlo, attribuire un punteggio o subire una misurazione o un’osservazione dall’esterno. Il concetto di qualità (con i relativi descrittori) non può essere dettato unicamente dal valutatore esterno, ma dovrebbe in qualche modo scaturire da una condivisione di criteri, tra osservatore e osservato. Questo principio attiene alla strategia istituzionale di valutazione: interna o esterna? autovalutazione o eterovalutazione? I sistemi più efficaci sono quelli che combinano interno/esterno, cioè punti di vista del valutatore e del valutato che dialogano: ti faccio delle domande (check-list, questionario), tu dai una tua interpretazione, io esamino le tue risposte ed entro in situazione (de visu) con una metodologia appropriata, definisco un rapporto intermedio, confronto punti di vista diversi. Si alimenta una intersoggettività che aiuta a decentrarsi, ma che coinvolge, che aiuta a prendere decisioni. Per una valutazione sostenibile Un esempio tipico è dato dalla Peer Review (“valutazione tra pari”), una metodologia che consente di giungere ad un Rapporto valutativo “esterno” della qualità della scuola, dopo un percorso fortemente interattivo con gli attori interni. Alla scuola viene inviata una check-list di aspetti da sottoporre ad attenzione, che innesca un’azione interna di autovalutazione. Su questa base conoscitiva si avvia una fase di “osservazione” esterna, con visite e sopralluoghi condotti da un gruppo di pari (colleghi, valutatori professionisti, esperti esterni), che dà luogo ad una prima bozza di rapporto, su cui gli “interni” possono avanzare le loro osservazioni. Al termine di questo processo viene redatto e reso pubblico il Rapporto finale di valutazione sulla scuola. I vantaggi di questa metodologia, rispetto a forme apparentemente più oggettive ed asettiche, sono molteplici: - “una migliore conoscenza dei problemi reali che riguardano la gestione quotidiana e l’attività educativa”; - un maggior coinvolgimento degli operatori scolastici, i quali sono per primi chiamati a condurre un’analisi critica del funzionamento della loro scuola; - l’individuazione contestuale di strategie di miglioramento ed innovazione, che invece di venire calate dall’alto vengono elaborate dagli stessi protagonisti dell’attività di insegnamento” . La valutazione tende così a trasformarsi in monitoraggio, un termine che oggi troviamo sempre più di frequente nei documenti di politica scolastica e nelle iniziative di innovazione e di sperimentazione. Valutare è quindi un’azione non tanto di carattere certificativi, ma regolativi all’interno, di affidabilità verso l’esterno. In fondo questa era l’ispirazione che muoveva la Carta dei Servizi (garanzia all’utente, a seguito di un processo di rivisitazione interno). Ora si tratta di andare oltre. L’idea è ancora più ambiziosa, ispirata ad una visione etico-professionale. Si tratta di rendere visibile, e quindi condivisibile, attraverso un sistema di indicatori, le caratteristiche del progetto educativo, disponendo di informazioni e conoscenze utili per prendere decisioni, per migliorare, rendere conto all’esterno di quanto si viene realizzando nella scuola. In definitiva, l’obiettivo di un sistema nazionale di valutazione non dovrebbe essere quello di far prevalere una logica indagatoria ed intrusiva (da “grande fratello docimologico”), ma piuttosto di aiutare ogni scuola a dotarsi di un proprio sistema interno di autovalutazione e di miglioramento che, per non essere tacciato di autoreferenzialità, dovrà confrontarsi con altre scuole e con altre informazioni di riferimento. In un sistema valutativo co-costruito e condiviso ogni istituto autonomo diventa una unità informativa di base, capace di convogliare le proprie informazioni (vere, vissute, partecipate) verso un dato comparativo nazionale, per migliorare se stessa e contribuire a migliorare l’intero sistema. |
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