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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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Decentramento no, federalismo forse, e... l’autonomia?

di Gian Carlo Sacchi

 

Negli ultimi vent’anni un importante corpo legislativo ha cercato di riformare gli Enti Locali, nel senso di attribuire loro competenze di presidio democratico del territorio superando la funzione di organo decentrato dello Stato, la Pubblica Amministrazione nella direzione di portare la responsabilità dei servizi vicina ai cittadini, fino alla costituzione della Repubblica dal basso, con organi locali, regionali e nazionali. Da questo complesso ha preso consistenza l’autonomia scolastica, con un bacino territoriale proprio, la personalità giuridica, una soggettività specifica, quella del servizio formativo, nel panorama istituzionale, una rappresentanza riconosciuta che dialoga all’interno del sistema pubblico locale, pur mantenendo la sua funzione universalistica della promozione culturale e della formazione personale e sociale.

 Ma anche qui vale il motto che fatta l’Italia, del decentramento, occorresse fare gli italiani nel passaggio effettivo delle competenze dal centro alla periferia, verso gli enti locali, le stesse scuole autonome, sollecitando l’azione diretta dei cittadini e delle loro aggregazioni, nell’ottica di quella che si usa chiamare sussidiarietà.

Il decreto 112/1998 aveva già previsto tutto questo con l’intento di portare la gestione alla portata dei fruitori, alleggerendo così lo stato nazionale e con l’intento di creare un collante più efficace dell’azione pubblica nei diversi territori.

Questo avvenne in modo molto parziale ed anziché andare fino in fondo si preferì nella modifica della Costituzione mutare il punto di vista, cioè non più uno stato di garanzia dei diritti che fa agire le realtà locali, ma l’individuazione di competenze proprie dei diversi livelli di governo che poi si relazionano rinforzandosi in orizzontale con altre realtà operanti sul territorio stesso e in verticale per coprire spazi più ampi e porre meglio a sistema l’esercizio delle funzioni e la qualità dei servizi.

L’applicazione del nuovo ordinamento costituzionale è ancora in alto mare, esso ha comunque bisogno di una cornice normativa (fatta anche di accordi bilaterali, tra stato, regioni, province e comuni) che sancisca le attribuzioni di ciascun pezzo di repubblica e li ponga in relazione fra di loro. Qui occorrerebbe mettere a fuoco la natura giuridica delle autonomie scolastiche, definite funzionali, assicurando una loro efficace rappresentanza sia tra quelle territoriali, sia nei consessi nei quali si prendono le decisioni di politica scolastica.

Sembra però che la burocrazia ministeriale come ha resistito alle riforme Bassanini stia resistendo anche all’attuazione della normativa costituzionale e anziché mettere mano al passaggio dei poteri è forse meglio cavalcare la nuova prospettiva del federalismo, che alla situazione precedente ha aggiunto la questione delle risorse e, mediante la strada del contenzioso dell’alta Corte, anche quella della dipendenza funzionale del personale.

Oggi dunque abbiamo un sistema istituzionale estremamente debole, risultato di una notevole quantità di soggetti che vi intervengono con l’esercizio di poteri in parallelo e spesso conflittuali, un’autonomia scolastica altrettanto debole non solo per il rischio di polverizzazione, ma soprattutto perché non ha ruolo nella gestione dei curricoli, del personale e dei finanziamenti e non ha riconoscimento nelle dinamiche interistituzionali e nei rapporti con il territorio.

Prima ancora di stabilire se l’autonomia funzionale sia alla pari delle altre o valga meno le scuole vengono continuamente condizionate da una perdurante visione statalista, che contrasta con quella per altri versi regionalista, alla quale si aggiunge una abbastanza evidente azione così detta “di tendenza” che porta ad aggregare le autonomie sotto forma di reti composte sia da scuole che dipendono dallo stato, sia da quelle di enti e/o privati ancorchè dichiarate paritarie.

La recente normativa sul federalismo ripropone, migliorandola, la stessa questione del passaggio delle competenze per le quali viene ripresa dal nuovo Titolo Quinto la richiesta di definire in ambito nazionale i Livelli Essenziali delle Prestazioni che avrà, previa l’indicazione di fabbisogni e costi standard, ricaduta sulle politiche fiscali, sia a livello nazionale che locale, lasciando allo Stato medesimo competenze residuali e di garanzia dei diritti dei cittadini, nonché di perequazione. 

Ma ancora una volta il centralismo la fa da padrone e viene condito con i tagli di personale e di finanziamenti che non si misurano con i predetti fabbisogni, ma semplicemente con le disponibilità definite in modo unilaterale del bilancio statale, il che spinge unicamente alla diminuzione di qualità e più in generale dell’offerta.

Come si vede ogni maggioranza politica tenta di cambiare tutto perché di fatto in mano alla burocrazia nulla cambia (anche le reti di scuole potrebbero far tonare il ministero dalla finestra, dal momento che gli uffici amministrativi locali dovrebbero uscire definitivamente dalla porta), e da un’apparente uniformità si producono le vere disuguaglianze, dimostrate dalle ricerche sugli apprendimenti e sulla qualità dei servizi, anziché andare alla definizione delle regole generali richieste dalla nuova carta costituzionale ed al completamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, comprensiva dell’organico di istituto.

 

E LE REGIONI ?

Si sarebbe dovuto assistere ad un vero e proprio assalto alla Bastiglia di viale Trastevere e invece anche sul fronte regionale la situazione è piuttosto tiepida. Il riferimento più attuale sembra la legge sul federalismo fiscale, che se necessita ancora di approfondimenti sul fronte economico, definisce da un lato le funzioni fondamentali di cui tutte le regioni devono farsi carico, e, dall’altro, di stabilire quali sono gli standard/livelli essenziali che devono essere garantiti, sebbene con interventi perequativi da parte dello Stato.

Tutto questo deve far parte di una legislazione regionale che cammina ancora lentamente, ma che è indispensabile se si vogliono raggiungere obiettivi di efficienza della rete dei servizi ed ambire alla gestione del personale.

Le autonomie scolastiche si indeboliscono sempre di più se da un lato sono lasciate sole (“federalismo per abbandono”) e dall’altro è incerto il loro procedere (il DPR 275/1999 regolamenta l’autonomia dall’interno delle scuole, ma queste poi non hanno poteri reali di adeguamento sul piano organizzativo e riconoscimenti dall’esterno che non siano donazioni)  e la loro sussistenza (anche se non hanno potere impositivo i contributi volontari delle famiglie sembrano i mezzi attualmente più consistenti, ma qui si devono fare i conti non solo con la possibilità di detrazione fiscale, ma con il fatto che il diritto allo studio sia davvero universale).

Il problema non si risolve spingendo le scuole ad aggregarsi in rete, anche se queste possono essere utili sul piano del consolidamento dei servizi, materiali e culturali, e nemmeno pensando a “Fondazioni” di supporto, ma mettendo in atto da parte di regioni ed enti locali efficaci attività di programmazione che da un lato sappiano corrispondere alla domanda non solo di scuole ma di attività integrate in ambito formativo e dall’altro contemperando tale finalità tra quei servizi dedicati alle persone, all’organizzazione sociale ed economica.

La costante azione di riorganizzazione degli “ambiti territoriali” e delle “unità scolastiche autonome”, alle quali le scuole stesse dovranno partecipare, potrà determinare in modo efficace la loro presenza e la loro economicità, in base a parametri stabiliti dalla legge nazionale, ma attuati secondo le esigenze regionali e locali.

Dall’altra parte il sancire, come si è detto, la loro rappresentanza nella politica scolastica ai diversi livelli va legittimata in una legge sulla governance delle scuole stesse (c’è un testo interessante bipartisan alla Camera), nell’ambito di una gestione democratica degli istituti, che può operare localmente e può anche costituire occasione di aggregazione volontaria per ambiti territoriali più ampi, con modalità altrettanto democratiche di elezioni a livelli successivi. La rappresentanza è un fatto politico, deve essere valutato dagli organismi delle scuole che devono decidere da chi e in che modo desiderano farsi rappresentare. Altra cosa sono le reti di servizi, per la partecipazione a bandi e progetti, o per l’utilizzo aggregato di risorse umane e finanziarie; altra cosa ancora è l’eventuale reclutamento del personale attraverso le reti, attribuendo ad organismi bottom up competenze attualmente svolte dall’amministrazione scolastica che devono invece passare attraverso le decisioni da assumere in sede istituzionale (legge nazionale sul reclutamento o intese stato – regioni).

 

CONCLUSIONE

E’ dunque il federalismo oggi a catalizzare tutte le questioni che da anni imperversano nel governo del sistema educativo, scolastico e formativo del nostro Paese ?

Possiamo ripartire da lì, anche perché questa prospettiva ha fatto un passo avanti nell’unificazione di tutti i servizi che in questo settore vengono erogati sui territori e prova a definire un percorso finanziario che sulla base di prestazioni, fabbisogni e costi, rende più flessibile e più rispondente alla realtà la composizione della spesa, mettendo veramente a fuoco le politiche regionali e locali e le relative motivazioni ad investire.

Qual è il migliore riferimento finanziario ? Il PIL, cioè quanto si mette rispetto alla ricchezza prodotta, oppure un punto PISA, cioè quanto costa un determinato risultato.

Oggi ancora più di ieri assistiamo ad un progressivo appiattimento della spesa statale sul personale e questo potrebbe anche rappresentare il trasferimento rispetto al fisco nazionale, ma poi ci sono gli altri livelli di contribuzione: regionale, provinciale, comunale, che possono andare ad arricchire l’offerta formativa, oltre alle contribuzioni dirette alle agenzie educative, scuole comprese, con o senza detrazione fiscale.

La novità potrebbe proprio stare nella definizione dei suddetti Livelli Essenziali che comprendono la qualità dei servizi, la salvaguardia dei diritti individuali, l’incentivo ai risultati. Tutto questo non come semplice riparto di un fondo nazionale, come nel caso della sanità, ma nella composizione negoziale nell’ambito regionale e sul tavolo stato – regioni, con il costante monitoraggio tra costi e fabbisogni.


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