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Le dichiarazioni programmatiche del ministro Gelmini alle Commissioni parlamentari riaprono il dialogo con le Regioni in applicazione del nuovo titolo quinto della Costituzione. L’ultimo centro sinistra aveva impostato una politica centralista, soprattutto per quanto riguarda l’istruzione e formazione professionale, mantenendo allo stato tutti gli istituti scolastici, compresi i professionali, quinquennali, anche se sovrapponibili, per indirizzo, agli istituti tecnici, e ha istituito gli Istituti Tecnici Superiori. Il nuovo governo intende superare detta impostazione, che ritiene vecchia e deleteria, perché non tiene conto delle specificità sociali e territoriali. Il ruolo delle Regioni, continua il ministro, è da definire compiutamente nell’attuazione della legge 53, così come il necessario rafforzamento dell’autonomia scolastica; essi devono costituire una “sorta di federalismo all’insegna della sussidiarietà”. Affermazioni che contengono moltissime implicazioni sul piano politico – istituzionale, ma che di fatto non svelano nulla di preciso. Proviamo a riempirle di oggetti concreti attualmente presenti sulla scena. La prima cosa è che si vuole tornare al dialogo con le regioni, nella convinzione che all’interno di un “quadro nazionale unitario”si debba tener conto di ciò che accade sui territori. Non si tratta quindi soltanto di una riforma dei poteri amministrativi, ma di quello che la regione Lombardia chiama federalismo avanzato e che la legge Moratti aveva già sancito sul piano del curricolo regionale. Una seconda questione è quella che lega la riforma del titolo quinto alla legge 53 del 2003, facendo piazza pulita della legge 40 del 2007 che aveva tentato di proporre una riforma degli istituti tecnici e professionali, e, come si è detto, l’istituzione degli istituti tecnici superiori. Il riferimento alla predetta legge Moratti potrebbe voler rimettere in discussione anche l’innalzamento dell’obbligo di istruzione, per tornare al doppio canale fin dal termine del primo ciclo (in altra parte del discorso programmatico il ministro parla della scelta precoce che dovrebbe trasformarsi nella costruzione dei percorsi più adeguati per permettere ad ogni ragazzo di trovare la propria strada). Tale contesto normativo ripropone un secondo ciclo di istruzione nazionale a carattere liceale, che comprende anche gli istituti tecnici, seppure con diversi indirizzi, mentre si considera possibilista nel trasferimento alle regioni degli istituti professionali con il conseguente rilascio delle qualifiche di primo livello. L’obiettivo è comunque quello di irrobustire la seconda gamba del sistema, che, come si sa, vede la gran parte delle regioni piuttosto debole. Ambienti vicini a Confindustria sembrano oggi preferire il mantenimento dell’istruzione tecnica distinto dai licei e forse più vicino all’unificazione con gli istituti professionali. Per quanto riguarda l’istruzione superiore non accademica la suddetta legge prevedeva un quarto anno per il diploma professionale ed un quinto e sesto per la qualifica superiore (20 – 21 anni) senza che questo entri in collisione con i corsi di laurea triennali e consenta nel quinto di trasmigrare verso il diploma di maturità statale e gli studi universitari. Un’affermazione piuttosto nuova è quella “sorta di federalismo all’insegna della sussidiarietà”; entrambi vengono in qualche modo posti a sostegno del “necessario rafforzamento dell’autonomia scolastica”. Che l’autonomia scolastica vada sostenuta non c’è ormai più dubbio: è inserita nella riforma costituzionale, ma che questa possa essere impastata di federalismo e di sussidiarietà non è chiarissimo dove debba andare a parare, soprattutto per quanto riguarda la visione di sistema. La sussidiarietà, quella orizzontale, che emerge nel discorso del ministro, potrebbe stare alla base di quell’idea di trasformare le scuole autonome in Fondazioni, proposta nel disegno di legge Aprea (2008), ma anche nella possibilità di sgravi fiscali per quei privati che facessero donazioni alle scuole, prevista dai provvedimenti Fioroni; si sa però che in diverse parti d’Italia questa pratica non potrebbe essere realizzata facilmente, sia per mancanza di donatori, sia per scarsa trasparenza nelle operazioni, ed allora occorrerebbe una sussidiarietà verticale che intervenga nelle situazioni in cui è richiesta, senza però tornare al centralismo. Da queste considerazioni nasce una pluralità di visioni di federalismo, diverse da quelle che chiameremmo modello lombardo, perché contenute in una legge regionale e rivendicate sui tavoli della politica all’atto della costituzione dell’attuale maggioranza, ma che evidentemente non trova più tutti d’accordo anche tra chi ha votato il centro destra nelle diverse regioni italiane. Il settore formativo segue un po’ le sorti di quello sanitario. E’ di questi giorni, di fronte ai tagli previsti alle regioni per la sanità che si ripropone una visione centralistica della stessa, perché ci si accorge che un malato verrebbe curato in maniera diversa in un ospedale del nord rispetto ad un del sud. Questo fatto potrebbe far riconsiderare anche il federalismo nella formazione, a meno di non decidere a livello nazionale di promuovere la qualità del sistema, ma di farlo in modo differenziato in relazione ai bisogni reali dei vari territori. Il suddetto disegno di legge Aprea propone il finanziamento del sistema scolastico e formativo sul modello appunto sanitario. Alle istituzioni scolastiche vengono attribuiti fondi pubblici in base ad una “quota capitaria” : numero di iscritti, tenendo conto del costo medio per alunno, parametrato al contesto territoriale, alla tipologia della scuola, alle caratteristiche qualitative dell’offerta formativa. Questi criteri sono condivisi abbastanza diffusamente tra le regioni, indipendentemente dal colore politico, anche se il loro documento, di cui qui si discute, dimostra meno coraggio limitandosi al reinvestimento delle economie registrate nel comparto.
Le Regioni fanno una proposta Il modello lombardo cambia leggermente strada e si sposta dall’appartenenza territoriale e da una libertà di scelta che tendeva a privilegiare certi tipi di scuole e di percorsi formativi alla competizione sulla qualità dei servizi: libertà agli utenti di scegliere il migliore per loro. Maggioranza e opposizione sono d’accordo che sia necessario che lo stato fissi i “livelli essenziali delle prestazioni” per tutti i cittadini. Poi devono essere valorizzate le autonomie locali anche per quanto riguarda la capacità impositiva: federalismo fiscale. In questo orizzonte, nell’aprile scorso, la Commissione istruzione della Conferenza delle Regioni ha formulato una proposta di intesa. E’ la prima volta che si affrontano nel dettaglio le questioni legate all’applicazione del titolo quinto, sia sul piano interpretativo, sia su quello delle soluzioni concrete. La posizione delle regioni non è tanto quella di rivendicare poteri, com’era avvenuto con il masterplan per la gestione del servizio scolastico, ma di ricomporre le funzioni in modo che i diversi soggetti si coordinino per realizzare il fine comune del governo del sistema formativo. Si sa che la materia è notevolmente frammentata, il decentramento delle competenze è avvenuto già a partire dal 1994, con il primo provvedimento sull’autonomia scolastica, è proseguito massicciamente con le leggi di riforma della pubblica amministrazione del 1997, fino alla definizione della revisione costituzionale del 2001. Norme generali sull’istruzione, principi di leale collaborazione, condivisione delle decisioni di indirizzo, sono questi gli elementi che attraverso l’intesa vanno a costituire l’unitarietà del sistema nazionale, pur nella libertà di sperimentare, ciascuna regione, soluzioni proprie, secondo criteri di flessibilità. Lo sforzo di stato e regioni va finalizzato al sostegno all’autonomia delle scuole, che sul territorio sono i nodi della rete formativa, vicini alle realtà locali e capaci di rappresentare l’efficienza del sistema. Il documento regionale, come si è detto, cerca di declinare le norme generali,i principi fondamentali, i livelli essenziali delle prestazioni. Tra le prime quello che si coglie con sorpresa è la definizione dei limiti dell’autonomia scolastica, il che la fa sembrare più una concessione che un riconoscimento. Una simile espressione evoca ancora una visione centralista, mentre si dovrebbe trattare di definire soprattutto le potenzialità della stessa e le modalità di realizzazione. In queste norme si parla anche di organi di governo, e qui si inserisce da un altro fronte, quello parlamentare, la proposta più recente che proviene dal predetto disegno di legge Aprea che introduce nel consiglio di amministrazione della scuola autonoma i rappresentanti degli enti locali in quanto fornitori delle necessarie infrastrutture. Un altro capovolgimento di fronte: gli enti locali in questo modo non assumono un ruolo di programmazione e di presidio formativo sul territorio, ma semplicemente, come nella legislazione del 1934, devono mettere a disposizione strumenti, arredi,ecc.; difficile che con una tale impostazione si arrivi a costruire un sistema locale delle autonomie in cui si possano integrare l’offerta formativa con la programmazione del servizio. Ed ancor più difficile sarà conciliare la visione autarchica dell’autonomia delle singole scuole con il criterio di esigibilità e di sostenibilità dell’offerta formativa, proposto dalle regioni: una cosa importante però resta la modalità di coinvolgimento delle scuole stesse nella definizione dei livelli essenziali delle prestazioni.
La legislazione regionale Sia che si opti per la visione di federare le autonomie, sia che si attribuisca allo stato la definizione del predetto quadro generale, la legislazione regionale rappresenta lo snodo fondamentale tra il governo del sistema territoriale e l’apertura verso la costruzione di altri livelli: nazionale, ma anche europeo. Da questo punto di vista l’Europa è sempre più un’Europa delle regioni. L’incertezza del richiamato documento su una legislazione di sistema regionale, preferendo atti di governo, intese o leggi particolari, fa pensare che le stesse regioni non si sentono in grado di assumere delle responsabilità precise. Come leggere dunque il masterplan che prevede la richiesta di governare a livello regionale tutto il sistema scolastico e formativo a partire dal settembre 2009, il che fa eco ad una ben nota sentenza della Corte Costituzionale circa la gestione decentrata del personale, oltre alla già consolidata competenza nella programmazione della rete dei servizi. Ormai la questione del rapporto tra istruzione e formazione professionale è chiara: o si va di nuovo verso il doppio canale, salvo disporre di standard per ricercare l’equivalenza dei percorsi, o si integrano gli stessi in modo da rendere più flessibili i curricoli, ci sia più innovazione negli strumenti didattici, si vedano le competenze generali e professionali alimentarsi reciprocamente. Il livello regionale sembra adatto anche per il sostegno all’autonomia delle istituzioni scolastiche, all’individuazione di criteri per l’assegnazione del personale, in base all’assetto quanti – qualitativo dei servizi, alla legittimazione della rappresentanza delle scuole autonome, che allo stesso tempo sia in grado di realizzare nuove forme di partecipazione. Un passo avanti la legislazione regionale dovrà farlo rispetto alle normative relative al così detto “diritto allo studio”. Si tratta delle prime deleghe che le regioni a statuto ordinario ricevettero (1972, 1976) per quanto riguardava l’assistenza scolastica, che fu trasformata da semplici provvidenze per l’accesso agli studi a veri e propri interventi per la qualità del sistema. Oggi si tende a ritornare ai servizi a “domanda individuale” con contributi diretti agli utenti ed alle famiglie per difendere il principio della libertà di scelta. A meno che non si vogliano chiudere gli occhi di fronte alla realtà si sa che oltre al potere bisogna sapere scegliere e che quest’ultima prerogativa sia ancora preda di condizionamenti socio –culturali, e che in ogni caso esistono diverse azioni per consolidare questo diritto che devono essere praticate dal sistema stesso: orientamento, continuità, contrasto alla dispersione, ecc. Una “legislazione concorrente” richiede il permanere di un equilibrio tra libertà e condivisione, nella consapevolezza che si ricomincia a costruire non sul terreno del decentramento, ma su quello del federalismo. A chiudere il cerchio c’è l’autonomia professionale, che spinge il docente verso la libera professione: requisiti per l’accesso, albo professionale, codice deontologico. Bisogna sburocratizzare la funzione dell’insegnante, per poter investire in qualità, in ricerca e innovazione. Il sostegno alle professionalità è il vero valore aggiunto in un sistema glo – cale, dove deve essere promossa l’attività formativa perché a sua volta promuova i modelli di sviluppo della comunità. |
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