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Siamo alla mancata intesa della Conferenza Unificata sul decreto interministeriale (MPI e MLPS) di “accreditamento” delle agenzie formative che intervengono con progetti e percorsi per contrastare la dispersione nel contesto dell’innalzamento dell’obbligo di istruzione, varato alla fine di novembre dello scorso anno. E’ forse la prima volta che capita dopo l’approvazione del nuovo art. 117 della Costituzione, ma sicuramente non si era mai verificato in un provvedimento di indubbia rilevanza sia per le attribuzioni dei vari soggetti, sia per l’efficacia del sistema. La situazione a livello istituzionale, com’è noto, è in evoluzione su diversi fronti. Da un lato c’è l’innalzamento dell’obbligo, di istruzione e non scolastico, proprio per lasciare aperte altre strade in un momento della crescita dei soggetti pedagogicamente difficile, senza per questo separare i percorsi; dall’altro la discussione sul titolo quinto dovrebbe definire i ruoli e le competenze, dall’altro ancora il riordino dell’istruzione tecnica e professionale, specialmente nel grado superiore, ripropone il rapporto tra i due sistemi, quello scolastico e della formazione professionale. Questo quadro, secondo la nuova legislazione costituzionale, avrebbe dovuto assumere un approccio sistemico, delle “competenze concorrenti”, mentre oggi si sta verificando un ingorgo dal quale riemerge con forza il centralismo, che ancora governa le scuole, pur essendo state dichiarate costituzionalmente autonome, e riduce le regioni a cassa di risonanza della politica nazionale, a soggetti ai quali si chiede un parere, ma che certo non spaventano per le mancate intese. Si sa che esse stanno approfondendo il titolo quinto attraverso tavoli tecnici di studio, le cui conclusioni tardano, e poi avrebbero bisogno di un cantiere parlamentare impegnativo che non pare proprio una priorità. Dal punto di vista politico si nota un indebolimento della posizione regionale, mentre sul piano giuridico si attende il pronunciamento della Corte Costituzionale sulla legislazione lombarda (sulla quale il partito democratico, possiamo dire, si è astenuto), che però è stata avversata dal ministero nazionale. Di sentenze di stampo federalista l’alta Corte ne ha già emanate, appunto sulla scorta del titolo quinto, ma per ora sono rimaste inascoltate. Il masterplan delle regioni fissa una data nel 2009, molto vicina per queste cose, per l’applicazione di una di dette sentenze che prefigura la regionalizzazione del sistema, ma anche di questo sembra che nessuno si curi, perché i provvedimenti ministeriali vanno a spron battuto in tutte le direzioni, fin all’interno delle scelte didattiche, ed il contratto del personale docente non si pone nemmeno il problema. La finanziaria dello scorso anno ha compiuto alcune scelte in modo unilaterale e quella di quest’anno sta sul fronte della razionalizzazione della spesa, ancora una volta senza badare alle diversificate richieste dei diversi territori. L’attuazione dell’innalzamento dell’obbligo ha due velocità: una per la sua realizzazione all’interno di un unico schema nazionale (DM n. 139 del 22/8/2007), che comunque prevede che i prossimi due anni siano sperimentali e un’altra, che in questo periodo consenta di proseguire con i protocolli sperimentali sottoscritti dal precedente governo con le singole regioni. Nel primo caso la cornice è decisamente statale, salvo verificare alla fine la reale autonomia delle istituzioni scolastiche per quanto riguarda le responsabilità sul curricolo, nel secondo i margini di manovra consentivano di pensare a sistemi locali verso standard nazionali. Queste due azioni utilizzano praticamente lo stesso documento, chiamato nel primo caso standard minimi, varato dalla conferenza stato regioni del 2003, e nel secondo assi culturali, emanato dal ministero nel 2007. E’ una svista ? Si era a corto di strumenti ? Oppure si deve cambiare rotta e cioè passare da un documento nazionale che guarda ai risultati lasciando libertà ai contesti locali nel perseguirli ad uno che impone un riferimento “essenziale” per tutti, che a livello di singola scuola poi si può ampliare. La mancata intesa vera forse sta qui e si porta dietro la necessaria revisione del DPR n. 275/1999 sull’autonomia e la riforma degli organi collegiali, anch’essa ancora molto in alto mare. Ma nel frattempo un decreto del governo entra in quanto di più delicato e gelosamente custodito c’è nelle prerogative delle regioni: l’accreditamento degli enti di formazione professionale. Il ministero si pone di fronte all’innalzamento dell’obbligo di istruzione, che apre ad agenzie formative di sicuro affidamento per poter gestire percorsi e progetti in un tale contesto, ma allora si può capire che tali soggetti offerenti abbiano una composizione molto diversa che ha bisogno di sicuri punti di riferimento; quando però si evidenzia che tali agenzie saranno perlopiù i tradizionali centri di formazione professionale allora si entra in un campo di “esclusiva” competenza regionale: altro che mancata intesa ! Non solo quindi non si abbandona da parte dello stato centrale la gestione dei processi, come invece si penserebbe in sede di legislazione costituzionale, attestandosi, com’è noto, sulla definizione delle linee generali, dei principi fondamentali e sui livelli essenziali delle prestazioni, ma si vuol gestire anche ciò che è chiaramente di altri. In tal caso il nuovo titolo quinto c’è già, è la revisione del testo unico delle norme sull’istruzione del 1994, arricchito con le suddette premesse; in altro caso si tratta di lavorare insieme per le predette competenze concorrenti, il cui significato non è tanto nelle funzioni di ciascun ente, quanto sul successo di azioni e processi. Il citato decreto è l’esempio di questo ingorgo: non si può non tornare alle strutture accreditate dalle regioni, senza che loro si siano espresse sul provvedimento nazionale, ma nello stesso tempo vengono dettati criteri definiti di garanzia per tutti i territori. Sarebbe dunque di prendere quelle agenzie che hanno partecipato alla sperimentazione dei percorsi di istruzione e formazione e legittimarli progressivamente solo se si adeguano ai nuovi criteri, in vista di poter continuare a permanere nel biennio con percorsi e progetti. Verrebbe da chiedersi se si tratta soltanto di legittimazione a monte, quando è dimostrato sul piano pedagogico – didattico che servono progettazioni comuni, relazioni professionali intense ed efficaci tra i due sistemi, valutazioni e certificazioni orientanti, senza correre il rischio di far rimanere un doppio canale sotto mentite (e poi non tanto) spoglie. E’ questa una cosa che abbiamo già visto, fin dal 2000 con le pratiche messe in atto per l’applicazione della legge sull’obbligo scolastico e formativo, i cui limiti hanno dato origine ad esempio all’integrazione dei percorsi, nel tentativo di sostenere non solo gli alunni in difficoltà, ma di incidere a livello di sistema, per prevenire la difficoltà e aumentare gli spazi e le strategie per il raggiungimento del successo formativo. Del doppio canale critichiamo la gerarchizzazione sociale e cognitiva, ma un aspetto positivo, ampiamente utilizzato da una didattica più evoluta, quella appunto dell’integrazione, è stata la diversità e la specificità degli approcci, soprattutto metodologici, dei diversi soggetti che operavano in tali progetti, cosa che viene affievolita con la richiesta che anche queste agenzie abbiano personale con gli stessi titoli della scuola: per i docenti come per i discenti dovrebbe valere ciò che il ministero chiama “equivalenza formativa”. Si fa finta di non capire, ma l’unica soluzione rimane ancora quella di “integrare” competenze diverse, per arrivare a gestire insieme il curricolo: non serve riprodurre la scuola altrove e nemmeno cercare di garantire l’uguaglianza attraverso la divisione del curricolo stesso tra parte così detta generale e di indirizzo. Innalzare l’età per andare stabilmente in azienda non vuol dire privarsene a livello didattico, per i benefici che ha una formazione da “sfondo integratore”. In questo ingorgo ora rischia di arenarsi anche il riordino dell’istruzione tecnica e professionale, di cui alla legge n. 40/07, che in parte interseca il biennio, ma che deve dare una risposta (che possiamo trovare ancora una volta nei percorsi integrati) all’uscita al terzo anno, con qualifica regionale, degli istituti professionali quinquennalizzati, che rimangono allo stato: con quale specificità rispetto ai tecnici? (forse l’unico settore che trarrà veramente beneficio sarà quello della ristorazione), e soprattutto avviare la completa novità egli istituti tecnici superiori, altra struttura che supera le attuali esperienze regionali di cui alla legge n. 144/2000, e di nuovo si troverà tra competenze esclusive e concorrenti delle regioni. Queste ultime infatti hanno raggiunto l’intesa con lo stato sui predetti istituti e sulla collocazione degli IFTS nella nuova filiera, ma ad essi si potrà accedere solo dopo il diploma professionale, visto che il diploma della scuola servirà, oltre che per l’università, per gli ITS, di cui se si eccettua la provincia di Trento non vi è traccia nelle programmazioni regionali, anche se rimangono presenti nella legge n. 53/03. I progetti e i percorsi, di cui al predetto decreto, per i prossimi due anni, quelli appunto della sperimentazione, vengono finanziati dai due ministeri, con contributi aggiuntivi di quello dell’istruzione, “nel quadro di intese con singole regioni”. Forse sistemare una volta per tutte il federalismo fiscale non sarebbe una cattiva idea, ma anche questo non può andare in Parlamento (vedi i provvedimenti del ministro delle regioni): ci sono troppi ingorghi. |
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