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A monte dei singoli temi che sono oggetto di conflitto sul fronte della riforma del sistema scolastico e formativo, c’è un’unica questione: un nuovo modello di governo. Si dice, infatti, che lo stato deve fare cassa e si sa che la spesa complessiva è notevole e mal distribuita, sia tra gli elementi che compongono il servizio, sia tra le diverse parti d’Italia. Si potrà anche giungere al miglioramento della qualità attraverso la leva finanziaria, con la valutazione, ma si può già da subito riorganizzare le risorse, tra stato e regioni, tra fondi nazionali, europei e territoriali, tra pubblico e privato, senza far veni meno la caratteristica di pubblicità del servizio, mediante la condivisione di norme generali, principi fondamentali e livelli essenziali di prestazione, come indicato dal nuovo titolo quinto della Costituzione. Un altro risvolto riguarda, non da ora, il rapporto tra centro e periferia, sia per la programmazione territoriale che per la gestione del personale, come peraltro già prospettato dalla Corte Costituzionale, compresa la effettiva valorizzazione dell’autonomia delle scuole e del sistema formativo. Nessuna delle parti in causa nell’attuale contesa propone soluzioni particolari sul piano culturale ed educativo, ma tutti fanno riferimento a modalità organizzative, che potrebbero essere affrontate in maniera trasversale agli schieramenti, facendo così assumere alla formazione quella considerazione super partes di cui tanto si parla. Il vero equilibrio da trovare è dunque sui modi di governare e di sostenere i relativi oneri, tra l’autonomismo e le corrispettive politiche fiscali, il decentramento delle competenze nazionali e l’effettivo ruolo delle autonomie territoriali, fino agli istituti scolastici, una maggiore libertà di scelta ed il mantenimento degli obiettivi generali ed il conseguimento dei risultati. I diversi soggetti politici, invece, propongono soluzioni unilaterali e pretendono di imporre il loro punto di vista agli altri. Così nella stessa maggioranza di governo, fin dall’inizio, si erano manifestate visioni non collimanti tra nazionalismo, autonomismo e privatismo, che ancora oggi emergono nei diversi provvedimenti, senza che prima ci sia stata un’intesa sulle modalità di governo dell’intero sistema. Diminuire l’intervento statale non necessariamente può significare diminuire il ruolo del pubblico, ma per ora insiste il sospetto che alla fine ci sarà un impoverimento del sistema stesso; programmazione territoriale e federalismo fiscale possono offrire interventi più aderenti alle esigenze delle realtà locali ed anche di maggiore qualità per l’esito complessivo, se, venendo dal basso, risultano più motivati rispetto al rapporto costi – benefici. Patto formativo, organizzazione della didattica (maestro unico o meno, accoglienza degli stranieri, ecc.) sono competenze delle scuole e della loro capacità di conseguire obiettivi generali nelle situazioni in cui operano. Ci sono già dei modelli virtuosi, cha sanno dimostrare soddisfacenti risultati nelle indagini indipendenti, di saper realizzare una gestione oculata pur volendo coniugare qualità ed equità. Punti qualificanti emergono qua e la in entrambi gli schieramenti, ma non si riescono a ricercare soluzioni bipartisan ed a volte nemmeno si trovano all’interno della stessa parte politica, come dimostra il frequente ricorso al voto di fiducia. Agendo soltanto sulla leva dei risparmi e delle privatizzazioni si sa che non potrà funzionare, così come porterà alla paralisi il conflitto tra centro e periferia, in disprezzo del ruolo delle autonomie scolastiche, mentre ragionare insieme su una nuova governance del sistema, a partire dai territori, significa ridistribuire le risorse in stretta correlazione con i bisogni e non pensare astrattamente ad accorpamenti o chiusura di scuole, ma, al contrario, trovare forme di compartecipazione economica che consentano di vedere la scuola stessa non come terminale dello stato ma come presidio del territorio, capace di sostenere un sistema formativo aperto a contributi di diverse realtà anche non formali, ponendosi come elemento di sviluppo oltre che dei saperi e degli obiettivi formativi, della stessa comunità in cui è inserita. Irrobustire i curricoli e sostenere le professionalità è assai più redditizio e meno dispendioso, più motivante e solidale di avvertimenti minacciosi circa le sanzioni derivanti dal mancato raggiungimento degli standard. Il predetto titolo quinto è lì, approvato da quasi tre legislature ed è stato disatteso, questo sì, in maniera bipartisan dai governi nazionali. In questi ultimi mesi il confronto sembra ripartire, ma ancora una volta da punti di vista particolari: si tratta del ddl governativo sul federalismo fiscale, di progetti di legge sul governo degli istituti scolastici e del sistema territoriale, di entrambi gli schieramenti, di una proposta di intesa deliberata dalla Conferenza delle Regioni. Sarà la volta buona ? La speranza è l’ultima dea, anche se l’incrocio di queste tre strade si presenta difficile, sia per dover armonizzare diversi percorsi in un momento di alta tensione politica, sia perché ognuna di queste elaborazioni è sua volta intrecciata con altri settori.
Federalismo fiscaleLa bozza Calderoli è la tela di Penelope, soprattutto perché in gran parte incentrata su problemi economici complessivi nei rapporti tra stato, regioni e autonomie locali, ed in questi tempi di vacche magre un po’tutti sono allarmati, il superamento della così detta spesa storica e della finanza derivata infatti determina la necessità di un ricalcolo del fabbisogno e inaugura una modalità nuova per il nostro sistema amministrativo. Tutto questo ha ovviamente degli effetti anche sul sistema scolastico, complicati dai tagli previsti in modo unilaterale dalla finanziaria. Per mantenere l’istruzione nell’ambito dei così detti servizi nazionali occorre però determinare, dice la proposta, i “livelli essenziali delle prestazioni”, cosa già indicata dalla riforma costituzionale, ma mai realizzata, per calcolare poi i “costi standard” delle stesse. Una prospettiva interessante ma di non immediata attuazione, e mentre si sta prendendo la strada bottom up agenzie di stampa diffondono dichiarazioni del Presidente della Camera che pone invece il problema a monte, cioè dei rapporti tra federalismo e unità nazionale, pensando “ad un più ampio decentramento nell’organizzazione amministrativa dello Stato….I passaggi di risorse da regione a regione (continua l’intervento) debbano avvenire sotto la vigilanza di un’adeguata regia tecnica degli uffici centrali dello Stato.” Con quali criteri di sussidiarietà, proporzionalità, adeguatezza, indicati dall’UE e come garantire su tutto il territorio nazionale i diritti costituzionali fondamentali. Entrambi questi punti di vista sono contenuti nel già noto titolo quinto e non sono incompatibili, ma certo il modo per perseguirli non è lo stesso, soprattutto se ognuno andrà per la sua strada e il risultato non è quindi assicurato.
Intesa tra stato e regioniLe Regioni da un lato sono ampiamente sollecitate dal federalismo fiscale e, dall’altro, hanno deciso di assumere una posizione propria, non immediatamente inseribile nell’alveo della discussione con il Governo, ma più in linea con un loro masterplan in precedenza approvato, per assumere direttamente l’intero servizio, e con la suaccennata sentenza della Corte Costituzionale, che lascia spazio a legislazioni regionali per la gestione del personale. La Conferenza delle Regioni propone un’intesa allo Stato per l’attuazione del dettato costituzionale e la sperimentazione di interventi condivisi per l’allocazione delle risorse, ricercando una soluzione complessiva per la “ricomposizione delle funzioni inerenti all’istruzione e istruzione e formazione professionale…e realizzare il fine comune del governo del sistema formativo”. L’intesa vuole offrire garanzia dell’unitarietà del sistema nazionale. Quale sarà dunque il punto di vista statale rispetto al concetto di unitarietà, definito nel qui considerato documento “risultante” di poteri e obblighi, e nel momento in cui non ci si limita ad un rapporto tra enti territoriali, ma si introduce il ruolo dell’autonomia scolastica, che da essi deve ancora essere pienamente accettata, promossa e sostenuta: “diversità di funzioni e capacità di cooperare”. E’ un pronunciamento significativo perché per la prima volta si cerca di dare interpretazioni concrete a principi in vigore addirittura con la precedente carta costituzionale: una cornice entro la quale si colloca l’autonomia scolastica, in base alla redistribuzione delle competenze, che lascia poi spazio alla legislazione regionale, tra competenze esclusive e concorrenti.
Organi CollegialiLa scuola non è un ente locale e non è più, come si è detto, un terminale territoriale; la sua è un’autonomia “funzionale”, come indicato, fin dagli anni del novecentonovanta, dalla normativa di riforma degli stessi enti territoriali e della pubblica amministrazione in genere. In teoria dunque c’è uno spazio perché il sistema formativo si emancipi dal sistema politico – amministrativo, assuma una propria fisionomia, le venga riconosciuta una rappresentanza, non soltanto come unità scolastica, ma come sistema formativo territoriale, che va ben oltre la scuola e le tradizionali età scolastiche, ma si allarga sul territorio e dura tutto l’arco della vita. Tale sistema è funzionale alla formazione dei giovani, ma anche degli adulti; è un veicolo di trasmissione ed elaborazione culturale, ma anche di mobilità sociale e di riconversione professionale; opera per la crescita delle persone e anche per lo sviluppo economico e sociale. C’è bisogno dunque di un governo autonomo, competente, rappresentativo e integrato. E qui si esprimono proposte di legge, di centro – destra (Aprea) e di centrosinistra (De Torre – De Pasquale). Su molte delle cose espresse nelle due iniziative politiche, c’è spazio per intese, soprattutto per quanto riguarda il potere di autoregolamentazione delle scuole nelle funzioni di educazione e formazione, la loro autodeterminazione nell’organizzazione dell’offerta formativa, dei rapporti con il territorio, l’integrazione tra i sistemi e con altre agenzie che intervengono nel medesimo settore, la capacità di autovalutazione e di confronto dei risultati, la modalità di dialogo pedagogico e l’attivazione di processi partecipativi. L’autonomia del sistema formativo è dunque una novità, va oltre la modalità parlamentaristica degli organi collegiali, nati per contrastare una visione assemblearistica in voga negli anni della post contestazione, ma non può assumere nemmeno una visione aziendalistica in quanto la mission della scuola rimane il servizio pubblico e la promozione dei diritti di tutti e di ciascuno. Essa, come si è detto, deve essere riconosciuta, anche nella propria rappresentanza territoriale, singola e associata, deve rimanere però distinta dagli enti locali anche se complementare nel perseguimento di obiettivi di sviluppo del territorio e di qualità della vita. Questi ultimi infatti non sono semplicemente i fornitori di locali e di infrastrutture, non serve nell’organo di governo della scuola il rappresentante della manutenzione degli edifici; si deve garantire il pluralismo delle componenti della comunità scolastica ed in modo flessibile competenze necessarie al sostegno ed alla qualificazione dell’offerta formativa. Una scuola così gestita sarà il primo interlocutore e collaboratore delle amministrazioni locali nella crescita sociale, un sapere esperto per le persone, le competenze, le relazioni. Mentre all’interno dei singoli istituti scolastici gli strumenti dell’autogoverno possono essere costruiti in modo relativamente autonomo, a livello territoriale le opzioni politiche si dividono e le cose si complicano, soprattutto perché manca adeguata considerazione del ruolo della formazione nel “sistema delle autonomie”. Questo tentativo di vedere la scuola come un altro sistema, a partire dal territorio, per andare fino al livello nazionale, era già stato pensato dai decreti delegati del 1974, con l’istituzione del distretto scolastico per quanto riguarda la programmazione e l’IRRSAE sul versante della ricerca. Abbiamo visto la fine di entrambi i soggetti, i primi visti con diffidenza sia dall’amministrazione scolastica, custode del centralismo, sia dagli enti locali che lo vedevano come sottrazione delle loro prerogative, fino a preferire un’alleanza tra i due poteri forti ai danni del distretto e dando più credito ai consigli scolastici provinciali, ancora in vigore. Dall’altra parte la ricerca didattica e la sperimentazione sono state giustamente inserite tra le caratteristiche dell’autonomia, ma il sostegno alle scuole in tale settore è stato deistituzionalizzato, con la creazione dei “laboratori territoriali”, mentre l’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia scolastica, che ha inglobato gli IRRE e l’INDIRE, costituisce il braccio secolare del ministero, che ha perso il controllo su tali materie. Oltre l’istituzione scolastica il pdl Aprea non va, forse perché il centro destra vede il rapporto diretto tra scuola e utenti, mentre il centro sinistra si muove tra l’istituzionale e l’organizzativo: il consiglio territoriale e la rete, in una visone più di carattere pubblicistico del servizio. Manca però il riconoscimento delle associazioni spontanee delle scuole autonome, che potrebbe collocarsi nelle leggi regionali. La costituzione dei consigli scolastici territoriali e regionali tenta di valorizzare la predetta autonomia del sistema, ma restano ancora lontani dai lavori in corso sul titolo quinto e rischiano di trovarsi ancora in mezzo al guado, come peraltro sono rimasti gli organi collegiali ancora in vigore, tra la costruzione del sistema delle autonomie e il decentramento della pubblica amministrazione. Le reti di scuole, che si possono già costituire, per loro natura, non possono essere la base sulla quale costruire i consigli, esse sono infatti strumenti organizzativi funzionali a precisi obiettivi e soggetti a facili cambiamenti, non possono essere burocratizzate. Se si vuole statuire una rappresentanza occorre una legge, anche per legittimare quelle spontanee, non una rete. Ma qui occorre vedere le specificità e la complementarietà delle funzioni nell’organizzazione territoriale. A rivolere i distretti scolastici non c’è niente di male, forse adesso sarebbero maturi, ma, nel frattempo, altri organi e compiti di governo sono stati indicati da una complessa normativa che dal 1990 in poi ha riguardato gli enti locali, la pubblica amministrazione, la scuola. E’urgente un nuovo governo del sistema; su questo ci sono le condizioni per allargare l’orizzonte politico, per spingere alla collaborazione nell’interesse generale. |
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