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PER PRATICARE IL FEDERALISMO NELL’ISTRUZIONE di Gian Carlo Sacchi La Cgia di Mestre nel 2010 ha condotto una ricerca
che metteva in evidenza le Regioni che pagano intermini fiscali più di
quanto ricevono in trasferimenti e servizi. Prendiamo un caso concreto,
l’Emilia Romagna: il sistema scolastico regionale (dalla scuola
dell’infanzia alla secondaria superiore) rappresenta il 6,4% di quello
nazionale e nonostante le percentuali di alunni disabili, stranieri,
frequentanti classi a tempo pieno, siano superiori alla media nazionale,
si vede attribuire il 6,20% di organico docenti, il 5,99% di organico
ATA e il 5,5% delle spese tramite l’ufficio scolastico regionale.
Nell’ultimo decennio gli alunni sono aumentati del 21,66% , mentre
l’incremento degli organici è stato dell’8,80%. In questo intervallo di
tempo il rapporto alunni/docenti passa dal 9,8 all’11,4, con un
incremento del 12 % a fronte di quello nazionale pari al 5%, mentre
quello alunni/classi va oltre il 21, anch’esso abbondantemente superiore
alla media italiana. Si pone una
prima domanda: che si tratti di buona amministrazione non vi è dubbio,
ma il centralismo non l’ha premiata, anzi i tagli sono continuati in
maniera così detta lineare, ma anche di mancanza di equità, e
soprattutto, come dicono i promotori del federalismo, di riconoscimento
delle regioni virtuose. In aggiunta la Regione ha finanziato, tra spese
correnti e di investimento, gli interventi per il diritto all’accesso
(borse di studio, ecc.), il sostegno all’autonomia scolastica, al
miglioramento ed alla qualificazione del sistema. Altre iniziative
riguardano l’educazione stradale, mobilità e sicurezza, alla
sostenibilità, la diffusione delle nuove tecnologie, nell’ambito del
piano telematico regionale. Tra gli investimenti ritroviamo le mense, i
trasporti, i servizi residenziali ed i sussidi per disabili, lavori
sugli edifici scolastici e contributi a cooperative che aprono servizi
educativi o scuole dell’infanzia. Finanziamenti regionali sono stati
dedicati allo sviluppo, consolidamento e qualificazione dei servizi
educativi per i bambini da zero a tre anni ed alla formazione
professionale e degli adulti. Le risorse trasferite dallo stato sono dunque
inferiori alla reale consistenza del servizio e vengono definite in modo
unilaterale a livello nazionale, ad esse se ne vanno ad aggiungere altre
reperite nel bilancio regionale, per far fronte alle esigenze espresse
dai territori, nell’ambito di standard indicati localmente.
Una seconda domanda: è a questo punto che si inserisce il fisco
regionale, in base alla ricchezza prodotta ? Questa situazione impone un
riequilibrio che arrivi ad
essere di natura finanziaria, passando per la revisione dei poteri nei
confronti delle regioni, enti locali ed autonomie scolastiche, nonchè la
definizione e condivisione dei “livelli essenziali delle prestazioni”.
E’ noto che questi ultimi sono una competenza esclusiva dello Stato,
trattandosi di tutela dei diritti sociali per tutta la popolazione, ma
essi ovviamente non possono essere decisi solo dal governo centrale,
devono infatti interpretare le aspettative delle comunità per poter
indirizzare la programmazione, dalle quali derivare i “fabbisogni
standard”e i relativi costi che andranno poi ad incidere sul prelievo
fiscale. L’APPLICAZIONE DEL TITOLO QUINTO Fino ad oggi non è stato attuato il trasferimento
delle funzioni amministrative in materia di istruzione (Dlgs 112/1998) e
nemmeno si è dato corso ai decreti che attribuivano alla periferia altri
compiti con le relative risorse, in applicazione del nuovo titolo quinto
della Costituzione. Alcune regioni hanno emanato leggi così dette di
sistema, a completamento delle disposizioni statali, per disciplinare le
“competenze concorrenti” e quelle “esclusive” loro attribuite dalla
riforma costituzionale. E’ stata elaborata al riguardo una bozza di
accordo tra Stato e Regioni e ormai tutta la legislazione di queste
ultime sta attivando un processo di condivisione con gli enti locali,
azioni nell’ottica della sussidiarietà e di sostegno alle autonomie
scolastiche. Le Regioni stanno mettendo a punto forme, livelli e
organismi di governo del “sistema formativo territoriale”, modalità di
programmazione dell’offerta, ivi compresa la funzione organizzativa
della rete scolastica e del terzo grado di scolarità, la collaborazione
tra istruzione e formazione professionale, l’orientamento ed i raccordi
con il mondo del lavoro, il contrasto alla dispersione e all’abbandono,
l’integrazione delle politiche nei servizi alla persona. Essa andrà completata, anche in relazione alla
Sentenza della Corte Costituzionale n. 13/04, con la rappresentanza
delle autonomie scolastiche, i criteri di assegnazione del personale
alle scuole, l’indicazione di uffici e servizi sul territorio per lo
svolgimento di funzioni regionali, nonché con la ridefinizione delle
norme relative ai “principi fondamentali”. Una terza
domanda: perché lo Stato non sottoscrive con le Regioni un’intesa (vedi
la bozza prima citata ed un precedente materplan delle stesse regioni al
riguardo) sul trasferimento di competenze,
per capire e far capire ai
territori quali potranno essere anche i
criteri per la ripartizione delle risorse? C’è chi dice che
si agirà sulla base di parametri ottenuti da un pull di regioni virtuose
e si potranno prevedere perequazioni per le altre più disagiate, ma se
si prenderanno a riferimento i valori medi nazionali, oltre ad aiutare
chi ha minor capacità contributiva, occorre costruire un sistema
premiante per coloro che conseguono risultati migliori. FUNZIONI FONDAMENTALI La legge sul federalismo fiscale (42/2009) offre
tuttavia un importante chiarimento, stabilisce le “funzioni
fondamentali”:
-
per i comuni, le funzioni di istruzione
pubblica, ivi compresi i servizi per gli asili nido e quelli
dell’assistenza scolastica e refezioni, nonché l’edilizia scolastica,
-
per le province, le funzioni dell’istruzione
pubblica ivi compresa l’edilizia scolastica. A dette funzioni
è riconosciuto un finanziamento
integrale; il “fabbisogno standard” per ciascuna funzione e ciascuna
regione è determinato attraverso “l’individuazione dei modelli
organizzativi in relazione alle funzioni fondamentali ed ai relativi
servizi”. Il D.L.vo n. 216/2010 stabilisce infatti che “i
fabbisogni standard sono il riferimento cui rapportare…il finanziamento
integrale della spesa relativa alle funzioni fondamentali e ai livelli
essenziali delle prestazione, fermo restando che (in
cauda venenum)….ai fini del finanziamento integrale, il complesso
delle maggiori entrate devolute e dei fondi perequativi non può eccedere
l’entità dei trasferimenti soppressi”.
Allora una quarta domanda: dal
momento che ad esempio tra le funzioni fondamentali ci sono materie che
in passato non facevano parte della spesa statale, come si regolerà il
governo nei trasferimenti e dal momento che il sistema scuola esce da un
piano triennale di tagli mai registrato nella storia repubblicana, quale
sarà l’entità del trasferimento ? Anche il federalismo dovrà essere a costo zero per
lo stato, ma allora la questione si sposta sul tavolo del fisco
regionale e locale. In questo, si dice all’art 2 del predetto decreto,
“lo Stato terrà conto delle informazioni e dei dati raccolti…sulle
funzioni effettivamente esercitate …da ciascun ente locale:
ma tenere conto
non è impegnarsi a, ed anche dal punto di vista dell’esegesi
delle fonti non si può dire che questo decreto sia nell’ottica della
certezza del diritto. La copertura integrale avverrà in un triennio, e
qui si impone una quinta domanda:
se questo non vuol dire che
nell’arco di tre anni potranno aumentare le risorse,cosa che nel sopra
citato art. 1 non sembrerebbe, significa che il primo trasferimento sarà
un terzo del già magro esistente ? Il decreto si conclude con l’inno alla virtù degli
amministratori locali: “fermo restando il rispetto degli obiettivi di
erogazione dei livelli essenziali delle prestazioni, la differenza
positiva, eventualmente realizzata in
ciascun anno finanziario fra il fabbisogno standard…e la spesa
effettiva così come risulta dal bilancio dell’ente locale, è acquisita
dal bilancio dell’ente locale medesimo”. E qui dovrebbe scattare la competizione, ma,
una sesta domanda: a quale prezzo
per il cittadino rispetto alla
continua rinegoziazione degli standard a livello locale(si pensi ad
esempio come già adesso vengono sostituite le procedure di nomina dei
docenti con appalti diretti ad altre agenzie di servizi o con altri
“modelli” educativi)e per l’operatore ed il livello di legittimazione
dei requisiti che deve possedere. I LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI (LEP) Per la determinazione dei fabbisogni standard il
decreto parla di un “sistema di indicatori, anche in riferimento ai
diversi modelli organizzativi ed agli obiettivi definiti, significativi
per valutare l’adeguatezza dei servizi e consentire agli enti locali di
migliorarli. ….La metodologia dovrà tener conto delle specificità legate
ai recuperi di efficienza ottenuti attraverso le unioni dei Comuni,
ovvero altre forme di esercizio di funzioni in forma associata”. Ancora, il decreto indica un procedimento: “…la
spesa storica, i gruppi omogenei
(?), i servizi esternalizzati o svolti in forma associata,
considerando una quota di spesa per abitante e tenendo conto della
produttività (?) e della
diversità della spesa in relazione all’ampiezza demografica, alle
caratteristiche territoriali, con particolare riferimento al livello di
infrastrutturazione del territorio,…alla presenza di zone di montagna,
alle caratteristiche demografiche, sociali e produttive,.. al personale
impiegato, alla efficienza, all’efficacia ed alla qualità
(saranno gli indicatori di qualità a richiamare le risorse o i limiti
finanziari porteranno ad una negoziazione al ribasso della stessa?),
nonché al grado di soddisfazione degli utenti.
La definizione dei livelli essenziali delle
prestazioni, cioè del bisogno meritevole di finanziamento pubblico, è
dunque un elemento cruciale per il calcolo del fabbisogno standard. I modelli
pedagogici e organizzativi implicano prestazioni qualitativamente molto
diverse e quindi il livello essenziale non può essere soltanto un
rapporto quantitativo (ore x alunno, alunni x docente, ecc.) ;
l’importanza della dimensione qualitativa è riconosciuta dalla stessa
legge quando parla di valutazione di costi …con riferimento a servizi
“erogati in condizioni di efficienza e di appropriatezza”. Livelli qualitativi considerati essenziali devono
dunque essere compresi nella definizione dei predetti costi standard,
essi si possono individuare attraverso confronti tra realtà anche di
carattere internazionale e/o condivisione con l’utenza. Si prendano ad
esempio i servizi per l’infanzia, che hanno diversità di condizioni
strutturali, di competenze per gli educatori, ecc., le pluriclassi nelle
scuole elementari e medie delle zone di montagna, la flessibilità dei
curricoli delle scuole superiori, i modelli integrati tra istruzione e
formazione professionale. Un organico di istituto con certi margini di
manovra sul piano degli orari e di una pluralità di competenze
professionali, può realizzare oltre a ricadute positive sulla qualità
del curricolo, economie,
come ad esempio nella nomina di supplenti, ecc. Anche per l’utilizzo del
personale docente vanno trovate forme quanto-qualitative e partecipate
per la determinazione del fabbisogno. Si veda inoltre il diverso tempo
scuola richiesto dalle famiglie, la presenza di alunni disabili, ecc. INFORMAZIONE E PARTECIPAZIONE La condizione per giungere in modo attendibile alla
determinazione dei suddetti costi è quella di disporre di fonti sempre
più aggiornate di informazioni sulle caratteristiche dei servizi, le
spese e le modalità di
finanziamento. D’altro canto occorre fare chiarezza concettuale ed agire
in modo trasparente nella definizione dei LEP, per poter valorizzare il
contributo delle singole regioni al sistema nazionale e le loro
legittime aspettative in termini di trasferimenti di risorse e di
fiscalità regionale e locale. Una volta che il predetto Titolo Quinto sarà
applicato ed anche la gestione del personale sarà decentrata, la
programmazione non dovrà più partire dalla spesa statale ma dai
fabbisogni delle varie realtà regionali e locali che così potranno far
leva sui rispettivi livelli di crescita economica e di efficienza
organizzativa, fermo restando i caratteri perequativi previsti dalla
legislazione nazionale. Attualmente i territori sono abituati a ricevere
dallo Stato le risorse per il servizio scolastico ripartite in modo
omogeneo; in futuro sarà il
sistema delle autonomie territoriali a organizzare la propria
domanda, a farla crescere nell’ambito di quei livelli essenziali che
pure andranno definiti, come si è detto, in maniera partecipata. Nonostante la ritrosia del ministero e il
disorientamento delle scuole non
ancora autonome è opinione diffusa che il centralismo sia una strada
da abbandonare con decisione, sia per motivi pedagogici e sociali,
riguardo alla valorizzazione del servizio formativo per la crescita
delle persone e lo sviluppo delle comunità, sia per ragioni di governo e
di riorganizzazione della spesa. Occorre comunque vigilare perché non ci venga
regalato un federalismo vuoto, in quanto non ci si decide a passare
sull’altra sponda nel decentramento dei poteri e delle responsabilità:
si sa che stando in mezzo al guado come ora si rischia di affondare, ed
alla fine non ci sono risorse da trasferire se si esclude il pagamento
del personale e quelle miserie che vengono erogate a singhiozzo per il
funzionamento. Occorre rivalutare la predetta legge 42, ma
negoziare precise intese stato regioni, anche per quanto riguarda il
fisco nazionale e quello regionale – locale. E’ chiaro che il livello di prelievo deve andare di
pari passo con la ricchezza del Paese, ma in qualunque situazione
economica esso si venga a trovare occorre che lo Stato tratti con le
Regioni la questione degli standard e non intervenga con tagli
unilaterali e distrazioni di fondi. Quanto lontani sembrano i tempi
della legge 440/1996 dove i risparmi del sistema venivano reinvestiti in
qualità, ed ancora oggi questo sarebbe possibile per effetto di una
dimenticata norma contenuta nella legge finanziaria del 2007. Il primo passo dunque per mettere in campo azioni
concrete in tema di federalismo è la definizione dei LEP sui quali
occorre concentrare il dibattito politico e l’approfondimento culturale.
Oggi sono in campo almeno tre scuole di pensiero al riguardo, ognuna
delle quali ha trovato posto in pezzi di legge o bozze di intesa tra
organismi statali e territoriali: la questione delle competenze
istituzionali, da chiarire a monte, in base anche alla nuova
impostazione costituzionale, quella dei diritti soggettivi e dei legami
con la situazione socio – economica, ed infine quella dei risultati del
sistema, rispetto alle comparazioni internazionali e alla soddisfazione
dell’utenza. Tutte cose importanti per fare chiarezza in un
quadro normativo stratificato da diverse “ideologie” nessuna delle quali
è mai riuscita ad andare fino in fondo e verificare i risultati
raggiunti, ma occorre una sintesi che elabori un pensiero strategico per
il futuro del nostro sistema ed un’alta mediazione politica. Intanto va
data risposta alle domande formulate nel corso di questo articolo, per
evitare che si ripeta il noto mito di Penelope. |
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