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PER RECUPERARE RISORSE OCCORRE RIFORMARE
LA GOVERNANCE di Gian Carlo Sacchi I tagli concentrici al personale, ai finanziamenti
delle scuole, alle regioni ed enti locali, rischiano di impoverire la
qualità del servizio e di scaricarne i costi progressivamente
sull’utenza, fino a mettere in pericolo l’equità sociale. Ma detti tagli
hanno un’altra caratteristica non tengono conto dei bisogni dei
territori e quindi anche volendo ridurre gli sprechi si finisce per
penalizzare le realtà virtuose. La stragrande maggioranza dei costi del nostro
sistema è sempre stata a carico del bilancio dello Stato, se
quest’ultimo si ritrae, soprattutto con una domanda in continua
espansione come accade in diverse parti del Paese, ad altri tocca di
supplire senza avere i mezzi necessari e le competenze istituzionali per
farlo, il che crea un canale parallelo che in apparenza
mantiene la visione nazionale, ma in sostanza si arrangi chi può.
Sono note infatti le difficoltà in cui si dibattono istituti di zone
disagiate e le disponibilità che grandi scuole delle città possono avere
grazie innanzitutto a famiglie benestanti o ad altri enti o privati che
sostengono il prestigio della scuola stessa. Mentre per i primi lo Stato
non fa abbastanza, le altre ne potrebbero fare anche a meno e tutto
questo in un formale centralismo regolamentare che incide pesantemente
sulle condizioni sociali di accesso e sui risultati. I servizi educativi viaggiano nella prospettiva del
multigoverno: accanto alle scuole che dipendono dallo Stato, ma che
dovrebbero essere dotate di ampia autonomia “funzionale”, ci sono quelle
paritarie, le attività per l’infanzia e quelle per la formazione
professionale e permanente già di competenza regionale e degli enti
locali e quindi il calcolo delle risorse non è più soltanto quello che
viene dal livello nazionale, soprattutto se così decurtato, ma il
risultato di un’azione concertata centro – periferia, che, riportando
quando indicato dalla recente legge sul federalismo fiscale, è detta una
compartecipazione alle entrate del fisco. Allora è impensabile che anche
un recupero di denaro possa avvenire in un’ottica centralistica.
Con la riforma del titolo quinto della Costituzione
si era data una svolta nel governo del sistema che aveva spostato il
baricentro dal livello nazionale a quello regionale: le “competenze
concorrenti” tra stato e regioni vedevano l’iniziativa di queste ultime
e l’intervento statale solo in maniera residuale o in un’ottica di
“sussidiarietà verticale”. E’ a questo livello dunque che deve confluire
la riorganizzazione delle risorse, mantenendo gli interventi
nazionali per quanto riguarda quello che deve fare lo Stato,
chiaramente indicato dalla riforma costituzionale, e completando con
quelli regionali e degli enti locali, che non possono sostituirsi al
precedente, ma qualificare ulteriormente il servizio in base alle
esigenze dei territori ed i loro livelli di sviluppo, attraverso, come
si è detto, la compartecipazione al gettito fiscale. Dall’altra parte
c’è l’autonomia didattica e organizzativa delle scuole con la già
riconosciuta capacità di gestione e di autofinanziamento. La cornice normativa è già stata delineata ma lo
Stato non decentra le competenze (c’è ancora da completare il primo
livello di decentramento previsto dalle leggi Bassanini del 1997) e non
sottoscrive l’accordo con le Regioni per l’applicazione del predetto
titolo quinto, ma toglie i soldi, il che anziché creare un equilibrio
tra entrate e spese a livello territoriale, come previsto dai decreti
varati dalla stessa maggioranza, vede il governo nazionale da un lato
incassare tutto e dall’altro disinvestire impoverendo il settore. Il caso della scuola dell’infanzia, tra obbligo di
istruzione e opportunità educativa, è emblematico. Era prassi
consolidata che ad ogni aumento di popolazione scolastica si
consolidasse la spesa statale, soprattutto in termini di personale;
eventuali interventi di regioni ed enti locali, anche in convenzione con
i privati, venivano a compendio dei precedenti, al punto che in diverse
regioni si era sancito per legge l’articolazione del sistema in statale,
comunale e privato, al fine di procedere verso una generalizzazione del
servizio auspicata anche da indicazioni normative nazionali. Il taglio
degli organici ha fatto ricadere la spesa sulle spalle degli enti
locali, i quali per le note diminuzioni di trasferimenti statali, ai
quali si aggiungono anche i vincoli del così detto “patto di stabilità”
finiranno per aumentare i contributi dei genitori, il che potrebbe
configurarsi di fatto come una “tassa di scopo”, il che sarebbe
legittimo ma non dovrebbe essere una necessità. Continuando il
ragionamento in termini di federalismo fiscale la scuola dell’infanzia è
considerata una “funzione fondamentale” e quindi da finanziare in toto,
ricorrendo alla suddetta compartecipazione. Ma così facendo lo stato
scarica sugli enti locali i costi del servizio senza aprire loro il
fronte delle entrate. E’ evidente essere un’operazione autoritaria e non
si sa fino a quando sostenibile, che mette in moto soluzioni
organizzative discutibili sul piano pedagogico che si pensava di avere
definitivamente superate, se si tiene peraltro conto del confronto
europeo. Per cui in sostanza il cittadino paga le tasse ed anche i
servizi. Lo stesso può dirsi del tempo scuola e più in
generale del sostegno che era stato fin qui fornito al miglioramento
dell’offerta formativa e con i fondi di istituto; all’integrazione dei
soggetti disabili, stranieri, ecc. A questo punto regioni ed enti locali
si vedono costretti ad intervenire sulla base di loro particolari
possibilità e non attraverso un percorso costituzionalmente garantito,
non solo a supplire lo stato di fronte alla domanda delle famiglie,
facendo tornare il “doposcuola” gestito dalle cooperative sociali, ma
anche a sostenere richieste in contrasto con le normative approvate dal
governo nazionale, magari della stessa parte politica (vedi ad esempio
il ripristino delle compresenza nella scuola elementare in Friuli). Da quanto detto una politica per l’education, non
più riferita dunque solo alla scuola, ha bisogno di riorganizzare la
spesa nel senso di diversificare e integrare le risorse per cercare un
equilibrio concertato tra le disponibilità finanziarie e le esigenze
reali dei territori (va calcolata una “quota capitaria” sulla base di
indicatori quanto – qualitativi), ma allo stesso tempo non si può più
pensare che i risultati si ottengano solamente dalle riforme
ordinamentali (soprattutto se sono a costo zero), quindi torniamo al
riordino della governance
come intervento non più rinviabile. Tre le tappe fondamentali:
-
completare l’autonomia
degli istituti scolastici e la revisione dei suoi organi di governo.
Ad essi va attribuito un maggiore spazio nella gestione delle risorse
umane e finanziarie ed una maggiore responsabilità nei confronti dei
risultati. Lo Stato deve indirizzare (definizione degli standard) e
controllare, le Regioni devono programmare il servizio nei rispettivi
territori, le Scuole, alle quali è stata data rilevanza costituzionale,
devono mettere in campo l’offerta formativa e provvedere, anche in rete
tra di loro, alla sua continua qualificazione;
-
costruire una
sistema delle autonomie sul
territorio, per evitare che le singole realtà scolastiche rischino la
polverizzazione (anche se questo è sempre meno possibile date le
dimensioni sempre più grandi) e per inserirle a pieno titolo, quello
della mission educativa, di istruzione e formazione, nell’ambito dei
servizi che vengono organizzati a livello territoriale. Esse hanno
bisogno di stare in collegamento tra di loro ed avere una propria
rappresentanza riconosciuta per quanto riguarda la loro partecipazione
alla politica scolastica ai diversi livelli, ma contemporaneamente
devono poter partecipare allo sviluppo del territorio stesso;
-
politiche
del personale, dove rivedere i diritti e i doveri, i percorsi
formativi, l’organizzazione flessibile degli organici di istituto. Stato
giuridico, assunzione e
contratto nazionali, “dipendenza funzionale” a livello regionale con
contrattazione integrativa, gestione a livello di unità scolastica o di
reti. Valorizzazione di luoghi
professionali, previsti nella programmazione regionale, per il
sostegno alla formazione in servizio, con compiti inerenti la
documentazione e la ricerca, in collaborazione con università, agenzie
specialistiche, associazioni professionali. Non si vuole qui entrare nei
dettagli, ma certamente andranno regolamentate le modalità di ingresso,
anche in base all’articolazione delle competenze, la mobilità,
l’organizzazione del lavoro e la valorizzazione delle professionalità. In questi ultimi anni si è cercato di introdurre
ovunque nel nostro sistema elementi di competitività, ma se questo è
accompagnato da una sottrazione di risorse lo si condanna alla
dispersione, che non sarà certo arrestata da un utilizzo più diffuso
dell’apprendistato, mentre in un sistema inclusivo le risorse vanno
ottimizzate, non si esclude l’eccellenza ma si guarda all’equità. E’
necessario mettere mano al decentramento, ad un’organizzazione
flessibile, a dare risposte reali alle esigenze del territorio per poter
“collocare nel mondo”. E’
forse quest’ultima strada quella in grado di coniugare la salvaguardia
dei diritti con il raggiungimento dei risultati. |
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