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IL RUOLO DEI GENITORI
NELLA GESTIONE DELLA SCUOLA di Gian Carlo Sacchi Il percorso partecipativo nato negli anni settanta del
secolo scorso ha subito diversi cambiamenti sia sul piano potremmo dire
sociologico, sia normativo. Venivamo da richieste di democrazia educativa per
contrastare la gestione centralistica e burocratica di stampo
gentiliano. La cultura politica dominante in quel periodo aveva ispirato
la difesa dei diritti costituzionali della famiglia nell’educazione dei
figli e quindi spettava ad essa il primato negli organismi scolastici e
non ad esempio ai comuni che si ritenevano portatori di ideologie
espresse dalle loro maggioranze di governo, che poco si adattavano
all’ambiente così detto educativo, anche se non sono mancati
investimenti importanti di tipo pedagogico oltre che finanziario di cui
si vedono i risultati ancora oggi ed anzi sono proprio questi modelli
che si tendono a generalizzare, come accade ad esempio nella scuola
dell’infanzia. Il metodo per attuare tale partecipazione doveva
essere quello democratico per eccellenza, attuato dalla nostra
democrazia politica, l’elezione diretta dei rappresentanti, per
contrastare il pericolo di assemblearismo postsessantottino, anche se vi
erano insigni pedagogisti di varia estrazione che hanno sempre difeso le
assemblee e nella stessa legislazione delegata ha trovato posto sia la
logica dei rappresentanti sia quella dei comitati/forum di studenti e
genitori. Più di un canale era aperto fin da allora, anche se un
certo pensiero, quello della scuola tra comunità e istituzione, ha
prevalso in tutti questi anni. La stessa presidenza del consiglio di istituto ad un
genitore evocava un’idea un po’ aziendale di un cda presieduto dal
“capitale”, in questo caso umano dei giovani e delle famiglie, e un
dirigente scolastico nella veste dell’amministratore delegato. Peccato
che il cda non avesse nessun potere di gestione in proprio e
l’amministrazione scolastica governasse non solo attraverso i suoi
funzionari ma anche i dirigenti scolastici, presidenti della giunta
esecutiva, ne rappresentavano una componente. Che c’era qualcosa che non andava lo si sapeva da
tempo, ma la democrazia sulla carta metteva d’accordo un po’ tutti, chi
si sentiva rappresentante e chi deteneva di fatto il potere. Questo
modello fu esportato anche negli organi collegiali territoriali, il
distretto ad esempio, al quale non fu consentito di fare l’unica cosa
per la quale era veramente nato, cioè la programmazione territoriale del
servizio, diventando un dispensatore di pareri ad accordi che avvenivano
sopra la sua testa tra enti locali e amministrazione scolastica, cosa
molto diversa dalle local educational autorities inglesi. I primi a snobbare il
distretto furono proprio i Comuni che non volevano rinunciare
alle loro prerogative, perché il distretto
non aveva poteri cogenti e all’amministrazione scolastica interessava il
rapporto con i singoli enti facendo lei da collettore delle istanze di
programmazione per poi mandare tutto nel calderone della politica
nazionale. I genitori furono triturati da
questa macchina e gradualmente persero potere di persuasione nei
confronti degli altri genitori e la partecipazione al momento elettivo è
andata scemando, anche se il ministero ha sempre emanato le annuali
“grida”, che continuano anche adesso, se non altro per tamponare i
fronti dell’autonomia delle scuole. I distretti sono dei fantasmi e pur
con tutta la legislazione prodotta in questi anni
non sono mai stati considerati, né per
abrogarli, nè per rilanciarli. Allora sebbene convinti che in democrazia la forma è
anche sostanza c’è da domandarsi non tanto se il metodo è ancora valido,
ma se gli oggetti sono ancora quelli e perché la motivazione non c’è
più. Una preliminare osservazione va fatta sulla famiglia e
sui genitori, pensando se il modello di quegli anni è ancora attuale:
paradossalmente si parlava di famiglia al singolare, ma oggi sarebbe
meglio parlarne al plurale e di genitori al plurale ed invece prende
sempre più piede il single. A ciò aggiungasi che le nostre classi sono
sempre più interetniche e quindi forse ci sarà da ripensare non solo ai
meccanismi di rappresentanza, per essere capaci di interagire con tante
e diverse culture, ma anche le modalità di esprimersi come associazioni. Dalla legge Bassanini alla riforma Costituzionale il
servizio scolastico diventa “policentrico” e sempre meno la dinamica
degli organi collegiali è centrale nel processo di sviluppo del sistema;
lo stato si decentra per non perdere prerogative nella gestione, alla
quale, come in passato intende far partecipare genitori e studenti, ma
altri soggetti, regioni ed enti locali, ed anche le autonomie
scolastiche si pongono non più nell’ottica di cercare di attenuare il
centralismo, ma rivendicano il trasferimento di poteri reali nel governo
del sistema. Al punto in cui siamo, anche se il ministero sembra
non sentire la pressante richiesta delle regioni per l’applicazione del
nuovo titolo quinto della Costituzione, ci vuole una separazione netta
tra governo delle scuole e del sistema formativo, non più solo
scolastico, ma dell’education, territoriale. Gli organi collegiali della scuola
Riprendendo l’esempio dell’autorità locale inglese
sembra che la motivazione alla partecipazione sia determinata da due
aspetti: il potere di questi organi nei confronti del governo della
scuola e il senso di appartenenza della scuola alla sua comunità e
viceversa. Cose che in Italia non si sono mai realizzate; gli organi
collegiali sono dello stato e poco o nulla della comunità. Entrambi
questi caratteri potrebbero evidenziarsi per effetto dell’autonomia, per
la quale siamo ancora molto indietro, che potrebbe portarci a livello
nazionale partendo dal territorio e da decisioni che hanno una ricaduta
immediata sulla comunità stessa; un sistema che riparte dal basso
potrebbe avere, in primis i genitori, ma anche altre realtà locali,
impegnati direttamente nella crescita dei giovani e nel miglioramento
del servizio scolastico. Può non essere solo una provocazione l’aumento delle
così dette “scuole paterne” con le quali il sistema pubblico locale deve
fare i conti, pena il rischio di vedere valorizzata la famiglia in un
processo di privatizzazione della scuola: vedi la “dote individuale” che
alcune regioni tendono a sostituire alle tradizionali politiche del
diritto allo studio. Autonomia vuol dire anche farsi su misura gli
strumenti di gestione, all’interno di principi e livelli essenziali: è
questo che dice il nuovo titolo quinto della Costituzione quanto ai
poteri dello stato. Essere autonomi significa fare sintesi tra il
riconoscimento delle scelte familiari, che oggi nelle scuole vanno
sempre più condivise, come si è detto, con culture molto diverse dalla
nostra, il ruolo della scuola nello sviluppo del territorio, la qualità
della sua vocazione universalistica alla cultura, più che aspettare che
il ministero mandi puntualmente ogni anno la circolare per l’elezione
dei vari consigli. Se ad esempio le famiglie italiane si ritirano dalle
scuole pubbliche, sempre più popolate di alunni stranieri, tutta la
partecipazione non solo sarà compromessa, ma le stesse scuole
rischieranno il ghetto, mentre nel privato, anche cattolico, vale la
customer satisfaction, e altri saranno gli obiettivi delle scuole
islamiche, ecc., senza tanti organi collegiali controllati da un potere
più formale che reale. Il ruolo delle famiglie, con il bagaglio di valori e
di esperienze, non sarà più quello di contendere il primato allo stato,
ma di contribuire alla coesione sociale, per far sì che resti il
carattere di pubblicità al servizio, nel rispetto delle diversità, ma
nel comune obiettivo di qualificare l’apprendimento e la formazione. Un’altra questione importante è la rappresentanza
delle scuole autonome. Esse, infatti, se vogliono recidere il cordone
ombelicale con l’amministrazione scolastica, non possono nemmeno
rimanere in una dimensione localistica, hanno bisogno di rafforzare la
loro presenza nei territori proprio per continuare a sostenere la loro
funzione pubblica. Si stanno associando (ASA…) e diventano
progressivamente gli interlocutori di regioni ed enti locali; troppo
spesso queste associazioni fungono da organismi di tutela dei dirigenti
scolastici, mentre sarebbe opportuno che i consigli di istituto
deliberassero su tali associazioni e qui i loro presidenti dovrebbero
diventare protagonisti di queste nuove forme di rappresentanza. Le ASA…(Associazioni Scuole Autonome di….) sono come
l’ ANCI per i Comuni, loro dovrebbero costituire, con il contributo di
tutte le forze interne a ciascuna di esse, la spinta alla costituzione
del sistema territoriale, regionale, nazionale e, oggi, europeo. Al fondo di questo ci sta un organo di governo con le
rappresentanze delle diverse componenti, presieduto da un genitore, ed
il comitato dei genitori con un ruolo di animazione pedagogica
dell’istituto. Gli enti locali non sono un pezzo della scuola, ma un
altro ente, autonomo, come la scuola stessa, sui quali è fondata la
Repubblica, come dice la nuova Costituzione. E’ il territorio (comunale,
provinciale, regionale, nazionale) il baricentro del confronto e della
collaborazione. E’ il sistema formativo territoriale che mantiene la
pubblicità del servizio, in un’ottica partecipata, per contribuire allo
sviluppo della stessa realtà locale, senza sconfinare in una sorta di
scuola-fondazione che si distanzia da una prospettiva istituzionale per
servire ad interessi particolari. Gli organi collegiali territoriali
Già il DL n. 112/98 e il DPR n. 275/99 avevano
introdotto profonde modifiche nell’organizzazione burocratico –
partecipativa delle scuole, facendo crescere in modo determinante da un
lato il ruolo di regioni ed enti locali, e, dall’altro, prevedendo un
sistema formativo “integrato”, non più solo legato alle scuole, ma alla
formazione professionale, alle imprese, ai percorsi non formali,
tracciando un profilo da longlifelearning. L’approvazione del nuovo Titolo Quinto della
Costituzione, avvenuta nel 2001, ha dato un rinforzo costituzionale a
quanto già avviato con la legge Bassanini, ma ha rivisitato i contenuti
delle competenze affidate ai doversi soggetti, togliendo allo stato
tutti i poteri gestionali e quindi facendo venir meno quella che era
chiamata la “partecipazione alla gestione” prevista dai decreti delegati
del 1974. Si fece bene a fermare l’applicazione della nuova
normativa sugli organi collegiali territoriali; dopo la modifica alla
nostra carta fondamentale infatti il baricentro del governo del sistema
sarà più facilmente la “conferenza stato – regioni” che il
ministero/consiglio nazionale della pubblica istruzione. La strada è
dunque segnata e la gestione passerà sempre più facilmente attraverso
leggi regionali, le quali a loro volta avranno bisogno di strumenti
(democratici, speriamo) per la costruzione della decisione politica e
formativa. In diverse di queste leggi sono già presenti conferenze
regionali, provinciali, intercomunali, ecc. E’ la volta buona per far
ritornare il “distretto” delle origini, chiudendo questa larva ancora
nelle mani del ministero, che in campo scolastico dovrà essere diverso
da quello socio-sanitario o dell’impiego, dove i problemi sono affidati
prevalentemente ai tecnici, prevedendo cioè rappresentanti dei diretti
“portatori di interessi”, i genitori, i quali fanno soprattutto parte,
come si è detto, della costruzione della comunità locale. Al territorio si arriva attraverso le presenze nelle
singole scuole: nei consigli e nei comitati. E qui un grosso ruolo
potrebbero averlo le associazioni, come “corpi intermedi”, che
andrebbero anch’esse riviste se si vuol aumentare la partecipazione.
Magari si potrà pensare a strutture associative snelle, con adesioni,
comunicazioni, decisioni on line: e – democracy ? I problemi associativi
di oggi non devono essere più di tanto legati alle appartenenze, quanto
alla costituzione di luoghi di incontro, forum, di documentazione, ecc.,
per l’elaborazione culturale e professionale, non solo per “categoria”,
ma dove il fatto educativo e formativo sono visti e trattati a tutto
tondo. Le associazioni potrebbero esercitare un ruolo più
politico in senso stretto nei confronti dei governanti, mentre i
genitori – presidenti hanno davanti a loro questioni di carattere
pedagogico – organizzativo. Non c’è conflitto comunque tra le due
realtà, possono rinforzarsi a vicenda, se i genitori vogliono contare. Di riforma degli organi collegiali si parla e per quanto riguarda la scuola diventa indispensabile per l’attuazione dell’autonomia. Ci sono diversi disegni di legge, di maggioranza e opposizione: si potrà arrivare ad un provvedimento bipartisan? |
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