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Il nuovo baricentro per il ridisegno del sistema scolastico e formativo è ormai il tavolo stato – regioni. Non che a questa conclusione si arrivi per effetto di un provvedimento positivo, ma si assiste ad un progressivo riequilibrio dei rapporti tra diversi soggetti i quali in questi ultimi dieci anni hanno assunto poteri e responsabilità nel settore. Per esperienza si può senz’altro affermare che i nostri legislatori non sono bravi a costruire quadri di riferimento generali (si pensi che già la Costituzione del 1948 prevedeva, inascoltata, l’indicazione di norme generali sull’istruzione), ed anche la trattativa sul nuovo titolo quinto cerca ancora di definire le attribuzioni tra le diverse componenti, ma la novità consiste in una “nuova cultura” istituzionale che supera il centralismo burocratico al quale abbiamo consegnato dall’unità d’Italia il compito di garantire i diritti dei cittadini di fronte al bene dell’istruzione, che doveva essere una fonte primaria di integrazione sociale oltre che provvedere all’alfabetizzazione popolare, e si muove verso un’azione “concorrente” tra quelli che sono gli indirizzi generali, che dovrebbero venire indicati dallo stato ed il governo del territorio, che sarà progressivamente ancorato a leggi regionali, in vista del passaggio alle regioni stesse, così come richiesto dal loro recente masterplan, della gestione complessiva del servizio, personale compreso. Se guardiamo ai recenti provvedimenti nazionali, soprattutto quelli inseriti nella legge finanziaria, notiamo come siano stati predisposti ancora secondo un’ottica centralistica, d’altro canto anche il lavoro delle regioni si sta rivelando piuttosto intenso. Esse, infatti, in questi mesi, stanno cercando, proprio nel processo aperto dal predetto titolo quinto, un autonomo percorso, non tanto di applicazione delle indicazioni statali, ma di elaborazione di una vera e propria politica scolastica e formativa, a partire dalla lettura e dai bisogni del territorio. Non si vuole indulgere qui a rimarcare le differenze di maggioranza politica nei vari sistemi di governo, c’è di più, un diverso modo di affrontare “costituzionalmente” i problemi, tra centro e periferia. Negli anni attorno al 1970, con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario, il loro compito era limitato a provvedimenti di carattere strutturale o assistenziale, oggi si cambia e si va verso vere e proprie azioni di governo del sistema regionale e locale. Il primo dato di questo cambiamento è che non si tratta più soltanto di scuola e di scuola statale; il sistema nazionale di istruzione, visto dal basso, ha altre componenti, di carattere educativo, se si parla di politiche per l’infanzia, e formativo, se si pensa agli stretti rapporti con il mondo del lavoro e per la popolazione adulta, che comprende ormai un consistente patrimonio di attività così dette non formali. Insomma si tratta di un vero e proprio sistema locale – regionale, dove anche senza condurre battaglie secessionistiche è importante far emergere l’identità e le potenzialità dei territori (“pedagogia regionale”), che costituiscono valore aggiunto in un’ottica di rete nazionale che fa crescere il sistema e non schiaccia le realtà locali sotto la mole del centralismo burocratico. La formazione, oggi si direbbe l’education, è sempre più legata ai modelli di sviluppo ed alla ricchezza prodotta localmente, ma è da lì che si parte per costruire l’economia del Paese; le tipologie dei servizi si diversificano in base alla domanda sociale, ma anche alla presenza ed alle sinergie tra le scuole ed altre agenzie educative – formative, per azioni che si sviluppano lungo tutto l’arco della vita. Le “diversità” aumentano se si pensa in particolare alle crescenti richieste di soggetti provenienti da altri Paesi, alla motivazione dei giovani, al disagio sociale di costoro ed ai rischi di dispersione. Regioni ed enti locali hanno dunque sempre maggiori responsabilità per soddisfare le richieste della popolazione e programmare efficacemente il servizio per costruire e rinforzare il “capitale sociale”; sono le politiche territoriali quelle che più facilmente entrano in un circuito internazionale e si confrontano con altre esperienze soprattutto europee, ma anche per effetto della globalizzazione. Come si vede è impossibile pensare ad un monolitismo formativo, anzi viene sempre più avanti un policentrismo; si deve superare un governo centralistico per concorrere a mantenere il sistema nazionale, che non sia però imposto al territorio, ma, viceversa, che cresca dallo stesso ed arrivi ai risultati nazionali, forte delle sue diversità e solidale per il raggiungimento di esiti comuni sempre migliori. Il punto di vista delle Regioni è quello di costituire un sistema nazionale fondato sui principi di “sussidiarietà,differenziazione, adeguatezza”, ma si deve fare attenzione al ruolo che la Costituzione assegna alle scuole autonome, per evitare di sostituire ad uno vecchio un nuovo centralismo, ma soprattutto per dare loro degna rappresentanza nelle trattative con i poteri forti, statale e regionale. Il titolo quinto dovrà saper gestire la complementarietà dei ruoli, tra indicazioni generali, programmazione territoriale, progettazione educativo - didattica e far condividere i criteri per l’assegnazione delle risorse. Ma quali possono dirsi norme generali, principi fondamentali e livelli essenziali delle prestazioni ? Entrare in questo ginepraio dal punto di vista dell’esegesi giuridica potrebbe dire non uscirne più ed essere questa la domanda fatta apposta perché ci sia chi abbia interesse a non andare da nessuna parte. Norme generali: uno scheletro ordinamentale, per tanti versi ormai già definito e collaudato, almeno per il primo ciclo dell’istruzione, comprensivo della scuola per l’infanzia; principi generali: si può trattare dei saperi, degli obiettivi formativi e degli indicatori di qualità del sistema, livelli essenziali delle prestazioni, sui quali si era già cimentato il governo precedente (cfr Dlvo n. 226/05). Lo stato però non sta lavorando su questa lunghezza d’onda, qualche mutamento di rotta lo si constata nell’ultimo documento relativo al biennio unitario, per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione; esso continua ad intervenire sull’ordinamento, fino alla gestione diretta in diversi settori, ponendo così le regioni in una posizione dialettica per quanto riguarda non solo un conflitto di attribuzioni (le sentenze della Corte Costituzionale a questo riguardo sono state fin qui il principale riferimento sulla interpretazione del nuovo dettato costituzionale), ma anche nell’elaborazione legislativa e nelle strategie di governo: siamo ancora lontani dall’applicare la “competenza concorrente”. Sul fronte delle autonomie territoriali si intreccia l’applicazione del predetto titolo quinto, che rinforza quella scolastica, con il Dlvo n. 112/1998, che invece tende a trasferire le competenze dallo stato agli enti locali, dando anche alla scuola stessa in qualche modo una tale fisionomia. Anche quest’ultimo decreto ha avuto una parziale applicazione; tutto ciò deve trovare una sintesi nelle leggi regionali, che potranno, come ha indicato la Corte, prevedere anche le garanzie ai cittadini circa la gestione da parte delle regioni medesime di tutto il personale scolastico. Un esempio interessante, per l’approfondimento, molto meno per l’applicazione, di detti incroci è portato dall’applicazione dei commi 622 e 624 dell’art. 1 dell’ultima finanziaria. L’assunto è l’innalzamento dell’obbligo di istruzione di altri due anni, attraverso il primo biennio (unitario) delle scuole secondarie di secondo grado e l’attuazione di percorsi e progetti da realizzarsi per iniziativa di enti di formazione professionale accreditati dal ministero della p.i. Nel successivo comma si prevede, in via transitoria (ma si sa che in Italia niente è più definitivo delle cose provvisorie), che l’espletamento dell’obbligo ed anche il conseguimento della qualifica avvenga in un triennio che può essere compiuto o nella scuola o nella formazione professionale, o in modo così detto integrato tra i due sistemi, sulla base di intese tra stato e regioni, in enti già accreditati dalle regioni stesse (le quali in alcuni casi hanno accreditato sia enti formativi sia istituti scolastici per attività formative). Per effetto del più volte richiamato titolo quinto essendo la competenza sull’istruzione e formazione professionale esclusiva delle regioni gli istituti professionali di stato non potranno più rilasciare qualifiche aventi valore professionalizzante, ma si attesteranno su diplomi quinquennali (l. n. 40/07), e quindi chi volesse la qualifica dovrebbe uscire dalla scuola, dopo il biennio, per entrare nella formazione, la quale dovrebbe tuttavia verificare il possesso delle competenze, da parte degli studenti, idonee al conseguimento della qualifica medesima, oppure riorganizzare, in maniera integrata appunto, i due percorsi per dare la possibilità ai ragazzi di proseguire nel corso di studi o di conseguire la qualifica. A ciò aggiungasi che gli ultimi documenti relativi alla strategia del biennio unitario si andranno ad applicare, unitariamente appunto, sulle diverse modalità di gestione dei percorsi triennali, e per quanto riguarda l’attivazione dei poli tecnici e professionali, di cui alla predetta legge 40, si dovranno prevedere consorzi tra istituti scolastici, dello stato, ed enti di formazione professionale regionali, ecc. Si capisce che o l’atteggiamento è quello della competenza concorrente oppure il rischio è della paralisi del sistema, a meno che la fase attuativa non venga poi consegnata all’autonomia dei sistemi locali con alcune, poche e chiare, indicazioni nazionali: standard, assi culturali e competenze di cittadinanza (vedi biennio unitario). L’autonomia scolastica è sostanzialmente un’assunzione di responsabilità nei rapporti di collaborazione tra cittadini e istituzioni pubbliche a garanzia del miglior perseguimento degli interessi generali. I due predetti commi ragionano dunque secondo prospettive di governo opposte: una centralista, il 622 e una federalista il 624. Qual è dunque la strada da percorrere ? In entrambi ci sono degli aspetti interessanti rispetto ad esempio all’unitarietà del sistema nazionale nell’innalzamento dell’obbligo ed al rischio della frammentazione: pregi e difetti si promuovono e si attenuano se c’è però una strategia condivisa, appunto tra stato e regioni, e soprattutto se si lascia poi la parte didattica all’autonomia delle strutture formative, capaci cioè di maneggiare standard e competenze, contenuti e risultati, sia per quanto riguarda la preparazione di base che di indirizzo, i processi di apprendimento, gli ambienti formativi, la lotta alla dispersione, il riconoscimento dei crediti tra i sistemi, da e per il lavoro, ecc. Lo stesso problema si presenta con la nuova istituzione dell’Istituto Tecnico Superiore, per iniziativa statale, a fronte degli IFTS già sperimentati e di iniziativa regionale. Come si vede stato e regioni sono al lavoro, ma ognuno per proprio conto; speriamo che l’applicazione del titolo quinto faccia chiarezza anche su un modo di procedere, affinchè che siano superati comportamenti autoreferenziali, in quanto istruzione e formazione fanno parte del medesimo sistema. |
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