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UN MASTER PLAN PER L’ATTUAZIONE DEL TITOLO QUINTO di Gian Carlo Sacchi Sul finire della penultima legislatura venne approvata la modifica al titolo quinto della Costituzione, confermata da un referendum popolare e suffragata da una legge costituzionale. Tutto in regola dunque, anche se la fretta delle operazioni parlamentari non aveva fugato tutte le perplessità soprattutto per le modalità con le quali i vari poteri avrebbero dovuto dialogare tra di loro. Il dado del federalismo era tratto e ci si aspettava una equilibrata riorganizzazione del sistema tra centro e periferia, sia da parte della maggioranza che dell’opposizione, in quanto un’azione sulle regole fondamentali si poneva in modo trasversale a tutte le forze politiche diversamente dislocate nei governi territoriali. Invece il passato esecutivo ha trascorso tutta la legislatura usando contemporaneamente la leva centralistica per inibire certi poteri rivendicati soprattutto dalle regioni e quella “devolutiva” nel tentativo di far passare completamente a livello regionale alcune materie tra le quali la gestione della scuola. Tale comportamento ha di fatto paralizzato il sistema scolastico e l’idea di crearne circa venti modelli diversi è stata, tra le altre, bocciata sempre da un referendum popolare. Cambia di nuovo la maggioranza politica e deve rimettere mano a questo problema che diventa ormai imprescindibile per dare una svolta all’efficienza ed all’efficacia del nostro impianto formativo. Il programma politico che ha vinto le elezioni ha in modo convinto posto il “sistema delle autonomie”, scolastiche e territoriali, alla base della svolta riformista ed ora attendiamo che si metta mano a provvedimenti concreti, anche se i primi passi non lasciano trasparire un grande entusiasmo, per cui le Regioni, all’unanimità, hanno formulato per prime una precisa proposta. Se volgiamo un momento lo sguardo agli ultimi dieci - quindici anni vediamo che tutta la politica scolastica del centro sinistra è stata contrassegnata da una tendenza a riconoscere l’autonomia delle scuole, fino ad inserirla nella Costituzione, e quella degli enti locali nella programmazione e nel governo del settore, ma poi non è mai riuscito (potuto o voluto?) a darvi un assetto definitivo. Si pensi al primo disegno di legge Galloni (1985), alla conferenza nazionale sulla scuola (Mattarella 1990), alla legge di riordino degli enti locali (1990), alla riforma della pubblica amministrazione all’insegna della trasparenza e del decentramento (Bassanini 1997) ed ai decreti applicativi (1998 – 1999), fino alla modifica della Costituzione. Tanti tentativi dunque, nessuno andato a compimento, perché il tema dell’autonomia è stato trattato, anche nel centro sinistra, con sfumature diverse che poi si sono rivelate di sostanza nell’accedere alle condizioni per realizzarla ed ancora oggi fanno capolino dietro a questa o quella iniziativa che pur affermando lo stesso principio di fatto prendono strade diverse che possono anche intralciarsi. Le esperienze fin qui maturate mettono in evidenza almeno tre profili dell’autonomia sui quali non sono state ancora compiute scelte decisive e nemmeno è chiaro un loro possibile intreccio: - un’autonomia delle scuole nella loro funzione pedagogico – didattica ancorata però allo stato nelle sue articolazioni periferiche (vedi la riorganizzazione degli uffici scolastici provinciali, la gestione delle politiche statali sul territorio regionale, a cominciare dagli organici, da parte degli uffici scolastici regionali, la costituzione dell’agenzia nazionale per la ricerca didattica ed il sostegno all’autonomia, ecc.); - un sistema delle autonomie locali in cui è inserita la scuola; essa è un’autonomia funzionale, come un ospedale, la camera di commercio, entro poteri di programmazione e di gestione attribuiti alle autonomie territoriali (regioni, province, comuni, articolazioni costituzionali della Repubblica); - l’autonomia è la capacità di corrispondere ai bisogni dell’utenza, è questa che premia o punisce la scuola attraverso un “patto sociale” (carta dei servizi, piano dell’offerta formativa). Andare da una parte o dall’altra significa avere conseguenze sul piano della elaborazione e gestione del curricolo, sull’organizzazione, o semplicemente non muoversi in attesa che vi venga detto come dobbiate fare ad essere autonomi. Non v’è chi non sappia che le scuole in Italia non sono tutte uguali, ma prima di trasformare anche la governance in una ideologia di stampo centralista occorre decidere se l’autonomia debba essere conquistata, comunque in un rapporto costante centro – periferia o debba essere riconosciuta (DPR n. 233/98) in un sistema di autonomie territoriali. E’ l’ufficio del governo che deve aiutare le scuole ad essere autonome o è la rete locale che all’un tempo valorizza l’azione della scuola e la tutela come un bene del territorio ? Il tempo è maturo per compiere una scelta, che va collocata all’interno delle “competenze concorrenti” tra stato e regioni indicate dalla Costituzione. E’ la mancanza di una visione politica di fondo a determinare sovrapposizioni di attribuzioni, conflitti di poteri, dispersione di risorse. Il nodo centrale del nuovo dettato costituzionale è come le diverse competenze possono insieme lavorare per la qualità di un sistema formativo che oggi non comprende più soltanto la scuola, ma va dalla prima infanzia lungo tutto il corso della vita. Il messaggio del master plan delle regioni, oltre le maggioranze politiche, è che sta nascendo una nuova cultura, policentrica, di governo, una cultura di sistema tra gli oggetti e i territori; la scuola e le altre agenzie formative devono costituire il “presidio pedagogico” locale, è la comunità che dovrà valorizzarne l’azione come un soggetto che garantisce i diritti di tutti, promuove le persone e le “colloca nel mondo”. E’ dal crescere dei sistemi formativi locali che prende consistenza la qualità di un sistema regionale, nazionale e oggi anche oltre. Perché proprio le regioni hanno preso l’iniziativa ? Forse qualche malizioso potrebbe pensare che è ora di guardare anche da un altro punto di vista, ma sicuramente non per fare del nuovo centralismo regionalistico, ma per stare a cavallo, come ci dice ancora la Costituzione, tra l’unità del sistema nazionale e la varietà delle situazioni locali. Questioni identitarie, demografiche, economiche, sociali, sono le diverse frontiere sulle quali vengono richieste risposte efficaci nel breve periodo, dove è possibile un governo per gli obiettivi comuni ma con modalità flessibili e diversificate, che valorizzi l’autonomia professionale, faccia crescere e metta in rete i sistemi locali ed i loro processi di qualificazione. Fare insieme, stato e regioni, non vuol dire fare la stessa cosa su porzioni di sistema: licei e istruzione formazione professionale, ma, come ribadisce il dettato costituzionale, non da ieri, alla Repubblica le norme generali sull’istruzione, alle quali più recentemente si sono aggiunti i livelli essenziali delle prestazioni, per poter meglio garantire i cittadini e verificare i risultati, alle regioni la gestione “funzionale”, in un’ottica di “federalismo solidale” e di sussidiarietà. Autonomia scolastica tra stato, enti locali e mercato, ancora un vaso di coccio che ha bisogno di veder consolidata una cultura del rispetto e del sostegno, a cominciare dal riconoscimento della rappresentanza delle scuole autonome e dall’autogoverno delle stesse. Il fatto che non si riesca a concludere l’iter di revisione degli organi collegiali dell’istituto è un sintomo della debolezza di questa cultura; la scuola autonoma la si guarda da fuori: istituzione, servizio, funzione, non ancora comunità, “una comunità che interagisce con la più ampia comunità sociale e civile” (DPR n. 416/74), che si deve occupare principalmente di saperi, di apprendimenti e di relazioni sociali. E’ questa comunità la cellula germinale di quella più ampia, territoriale, è ad essa che deve rivolgersi quest’ultima se vuole continuare a crescere, valorizzando il ruolo della scuola nel progetto più complessivo del territorio stesso. Come fa ad esistere una “pedagogia territoriale” se non c’è un sistema formativo locale che ne interpreta i valori e rielabora i saperi, ma che sa anche proporre gli obiettivi e gli strumenti per lo sviluppo. Un ‘autonomia gestionale è animata dall’autonomia professionale quale contributo alla progettazione delle politiche formative territoriali. Che gli insegnanti non siano “masticatori di gerundi” è ormai consapevolezza diffusa, almeno tra quelli che si considerano “professionisti riflessivi”, capaci cioè non solo di trasmettere ma anche di “elaborare cultura” (L. n.477/1973), di coniugare la tradizione con l’innovazione ed oggi più di ieri di predisporsi al dialogo interculturale. L’autonomia chiama una nuova professionalità della formazione che deve poter esercitare il suo ruolo pienamente inseriti nel contesto in cui opera, pur avendo requisiti e contratti collettivi definiti a livello nazionale. Le risorse professionali vanno dunque allocate sul territorio in considerazione delle esigenze di quest’ultimo e gestite con flessibililità attraverso “organici di istituto”, in modo che possano interagire secondo un’adeguatezza progettuale con la realtà locale all’interno di quel servizio che quanto a standard e livelli di prestazione mantiene un riferimento nazionale. Gli oggetti specifici degli organi di governo sono la rete scolastica e il sistema formativo locale e del personale il curricolo e l’organizzazione della didattica. Già il DPR n. 275/99 aveva aperto una prospettiva intrecciata dei diversi fronti dell’autonomia, ma proprio sul curricolo si è arenato. Anche qui le decisioni da prendere sono indifferibili, e cioè se lo stato che deve decidere sui traguardi finali lo fa mantenendo inalterato il controllo sugli oggetti del sapere (discipline) oppure se queste sono scelte che possono essere demandate al livello professionale pur affermando, oltre ai predetti standard, i nuclei fondamentali dei saperi e le competenze da perseguire e certificare. Insomma fino a qui il sistema nazionale era ribadito dall’adempimento al programma centrale, mentre è dimostrato che i risultati si possono meglio ottenere se si cerca di aderire ad obiettivi nazionali lasciando però più autonome le modalità di realizzazione. Occorre delimitare gli ambiti territoriali entro i quali effettuare la programmazione dell’offerta scolastica e formativa, anche attraverso l’istituzione di “poli” che possono prevedere più indirizzi scolastici e modalità di compresenza con altre agenzie formative e professionali; ottimizzare l’informazione sul percorso degli allievi attraverso il potenziamento delle anagrafi degli studenti; ripartire le risorse finanziarie non solo in base alla popolazione frequentante, considerando anche i corsi per gli adulti, ma alla quantità e qualità dei servizi offerti (si potrebbe pensare a finanziamenti aggiuntivi per quei sistemi che si dimostrano virtuosi in base alle indagini sugli apprendimenti o al raggiungimento di livelli di prestazione eccellenti). A tutto questo le Regioni si devono apprestare con apposite leggi, che per ora non sono molte, entro la data del 1/9/2009 contenuta nel masterplan. Non si può concludere questa carrellata su prerogative e compiti del sistema delle autonomie in campo scolastico e formativo senza pensare al sostegno che a questo processo deve essere fornito attraverso la ricerca e la formazione permanente dei soggetti in campo. Un approccio democratico deve sollecitare un costante impegno di approfondimento comune, di integrazione e di crescita; la vera svolta sta nel passaggio dei poteri, che però non potrà limitarsi al mero decentramento amministrativo, ma andrà fondato su una elaborazione culturale e progettuale continua. Per mantenere questo stato di tensione andranno previsti strumenti deputati alla documentazione ed alla comunicazione, a far circolare le esperienze, a custodire e rilanciare costantemente sul territorio il capitale professionale e le risorse necessarie per l’innovazione, a collegare la realtà locale con la ricerca, le trasformazioni tecnologiche, il confronto internazionale, ecc. Si devono costituire laboratori territoriali, peraltro già previsti per iniziativa di reti di scuole (art. 7 DPR n. 275/99), e già presenti in diverse realtà per iniziativa di enti locali, ma anche di associazioni e agenzie formative. Insomma il servizio che viene erogato, per essere di qualità, va continuamente alimentato, soprattutto in un regime di autonomia, ed anche le politiche formative territoriali devono potersi mantenere attraverso una riflessione alla quale operatori della scuola, degli enti locali, del privato sociale, ecc. contribuiscono, perché la decisione sia poi adeguata e partecipata. |
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