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Lo stato disastroso delle TIC nella scuola italiana

di Stefano Tommaso Donati (*)

Vai ad un convegno internazionale, e qualunque dato si vada a confrontare l’Italia appare come fanalino di coda, lottando per la maglia nera a volte con la Turchia, altre col Portogallo o la Grecia.

Vai ad un convegno nazionale, ed è tutta una fanfara di esaltazione per le nuove tecnologie, per i tassi di diffusione e le somme stanziate, per le grandi esperienze didattiche attivate ed i progetti in corso.

Si è addirittura giunti allo slogan, nel miglior stile pubblicitario: "un computer su ogni banco". Se avete a che fare con la scuola – in qualsiasi ruolo, docente, non docente, genitore, allievo, non devo dimostrarvi nulla. Se invece è da tempo che non mettete piede in una scuola, approfittate di questa occasione: la prima scuola che vi capita a tiro provate ad entrare con una qualsiasi scusa, e gettate lo sguardo nelle aule. Se vedete un computer in ogni aula – non su ogni banco – ditemelo, e sarò ben contento di mettere in un sito apposito la lista di queste scuole.

I conti sono facili da fare: una scuola "dimensionata", cioè con un numero di allievi tra 500 e 600, avrà tra le 20 e le 25 classi. Quindi applicando la logica spicciola, con una spesa di venti, venticinquemila euro l’obiettivo di "un computer in ogni aula" è presto raggiunto. Eppure no, non avete trovato un computer in ogni aula della scuola in cui vi siete intrufolati con una scusa.

E già, "intrufolati" ... avete visto come con una banale scusa, a volte senza neanche il bisogno di quella, tanto nessuno vi ha chiesto cosa voleste, si entra in una scuola? Ve le immaginate le aule scolastiche ben arredate ed attrezzate che pacchia per i lestofanti? Ecco il motivo – direte – per cui non ci sono i computer nelle aule: la sicurezza. D’altronde la scuola non è una banca, e le aule non possono essere trasformate in caveau.

Giusta considerazione, tant’è che un recente film italiano – "Le ossa del Santo" – iniziava proprio con una scena che si svolge nel bar di un ridente paesino veneto sulla Laguna. "Avete visto" dice agli amici un avventore "che adesso anche a scuola sono arrivati i computer come in banca, ma che ci faranno coi computer a scuola … mah!" (NB – Clifford Stoll non abita, né mi risulta abbia mai transitato, in un ridente paesino veneto … tantomeno sulla Laguna. Al massimo avrà visitato Venezia).

Nel bar sono presenti i due protagonisti del film, un noto ladruncolo di quelli di una volta – niente violenza, al massimo uno spacco o uno scasso, ma niente rapine - l’altro invece un uomo rovinato, che si è ridotto sul lastrico per il vizio del gioco.

La scena successiva si svolge di notte, nella scuola del paese in cui si sono intrufolati sia il ladruncolo – da buon professionista che non si lascia scappare la ghiotta occasione – che il disperato, tanto per dire che intrufolarsi in una scuola è un giochetto da ragazzi. Ovviamente la scena punta al ridicolo, con i due che si disturbano a vicenda spaventandosi l’un dell’altro e, nella concitazione della fuga si ritrovano con in mano un misero portatile dopo aver perso per strada monitor e altre parti di computer che – quindi – porteranno il danno ad un livello assurdo rispetto all’utile che i due ricaveranno dal ricettatore per il portatile.

Da questo occasionale incontro si sviluppa poi la trama del film, che niente ha a che fare con la scuola. E qui nasce spontanea la domanda: com’è che un regista e il suo sceneggiatore italiani vanno a pensare ad una scuola come luogo ideale per far incontrare il ladruncolo ed il disperato? Possibile che non gli sia venuto in mente altro luogo in cui tale incontro potesse essere più plausibile? Per esempio una chiesa, in cui l’obiettivo poteva ben essere la solita cassetta delle elemosine?

Le possibili risposte non le do, le avrete senz’altro ben chiare, quindi non vi faccio perdere tempo ma salto subito alle conclusioni. Primo punto: l’idea che la scuola sia un edificio non vigilato è ormai luogo comune: più facile entrare in una scuola che nella più spoglia delle case private. Secondo punto: nella scuola non c’è nulla che valga la pena di asportare: arredi, accessori, apparecchiature sono tutti manufatti talmente malandati che rendono l’arrivo dei computer talmente straordinario da far subito nascere cattive intenzioni a chi del furtarello fa mestiere oppure – da disperato – un delinquere occasionale.

Ed allora ecco che nella scuola i computer li troverete sì, ma non su ogni banco, nemmeno in ogni aula, ma ben chiusi dietro una porta blindata in aule (laboratori) il cui uso e la cui gestione non è sempre né facile né programmabile. Laboratori definiti, a piacere, "informatici" o "multimediali", in cui potete trovare le più svariate configurazioni (nel senso della disposizione fisica) e dotazioni (in rete e no, con una stampante a testa o senza nessuna periferica connessa, a volte anche con un masterizzatore su ogni pc (perfetto per una produzione di massa), casse semplici o amplificate, mini, maxi o integrate, comunque sempre in grado di far risuonare per i corridoi attorno polifonie risultanti dal noto motivetto che accompagna l’accensione scandito in canone casuale.

E davanti ai computer chi? Se siete esterno alla scuola, e avete seguito il mio consiglio di intrufolarvi, provate ad andare nell’orario di servizio, e con la scusa di stare pensando ad iscrivere vostro figlio (la scusa funziona anche se non avete figli …) a quella scuola, chiedete di poter vedere i laboratori. In clima di concorrenza, di corsa all’accaparramento di alunni la forza del marketing supera ogni remora, e non sarà difficile convincere chi eventualmente vi chiederà di tornare dopo le lezioni ("Sa, sono sempre di fretta e se non era per questo appuntamento saltato …"). Chi avete trovato nel laboratorio informatico (o multimediale)? Tre le ipotesi.

La prima: nessuno. In tal caso chi vi accompagna o si sente in imbarazzo e accenna a scuse varie tipo "Che combinazione, è proprio l’unica ora buca della settimana. Lei è proprio fortunato, così non disturbiamo la lezione", oppure non si rende neanche conto della stranezza della situazione e passa ad esaltarvi la potenza delle macchine e di quanto è costato quel ben di Dio. Mio consiglio: non guardate le macchine, ma cercate appeso da qualche parte – di solito sulla porta – il regolamento e l’orario d’aula. Leggete il regolamento e la lista di "divieti", è un documento molto esplicativo di come la si pensa in quella scuola sull’uso didattico dei computer. Se poi trovate anche l’orario, siete stati davvero fortunati. Controllate allora quante ore d’uso sono davvero programmate e chiedete quali materie si svolgono in quelle ore.

Seconda ipotesi: alle macchine trovate uno o più professori e/o tecnici. Osservate cosa stanno facendo, se conoscete ed usate i computer ed Internet sarete ben in grado di capire da soli. Fate finta di niente – voi quelle macchine non le conoscete per nulla – e fatevi spiegare da loro i progetti in corso che i ragazzi svolgono in quel laboratorio.

Terza ed ultima ipotesi: c’è una classe al lavoro. Bellissimo! Un ottimo campo di osservazione che analizzato con attenzione vi potrà portare a tre scenari possibili, rispetto alla normale attività didattica che si svolge nelle spoglie aule "normali". Potrete vedere qualcosa di uguale, di peggiore o – infine – di migliore rispetto all’oggetto ultimo di tutto questo parlare di tecnologie: l’insegnamento e l’apprendimento.

Primo caso: quando in laboratorio informatico non cambia nulla. Sono i casi che mi fanno soffrire di più. Riconoscerete questa situazione osservando un professore che spiega dalla cattedra, una cattedra diversa dal solito solo perché c’è un computer (il server dicono spesso a sproposito alcuni, ma si sa, la cattedra non può essere uguale al banco e quindi neanche il computer del prof può essere uguale a quelli dei ragazzi!).

Osservando i ragazzi troverete gli stessi atteggiamenti che hanno durante le lezioni barbose: distratti (se i computer sono messi in fila come in classe, quindi il prof non vede gli schermi, staranno giocando anche al vecchissimo solitario pur di non morire dalla noia: equivale alla battaglia navale giocata sottobanco o tra le pieghe di libri e quaderni); oppure li vedrete passivi, sulla soglia della catatonia. È il caso di quei laboratori in cui i professori (mica siamo nati ieri …) hanno fatto installare un programma che controlla le postazioni degli allievi, bloccati a vedere la stessa immagine che c’è sul computer del professore. Ed allora eccoli lì: una ventina di sguardi inebetiti dalla stessa immagine riprodotta su dieci monitor dieci, ed intanto il professore si barcamena tra il ruolo di docente e quello del regista che deve comandare levette e pulsantini virtuali su un pannello di controllo che nemmeno un tecnico del suono professionista accetterebbe come strumento di lavoro.

Secondo caso: quando il laboratorio informatico fa danni. Sono situazioni più frequenti di quanto si immagini. In questi casi ho spesso visto essere più capaci di notare questo stato di fatto in genitori e comunque in persone non addette all’insegnamento che negli addetti ai lavori stessi. Sono realtà mimetiche, che vanno osservate con occhio ingenuo per non essere fuorviati. In realtà all’apparenza tutto sembra normale, i ragazzi sono concentrati ed il professore si vede che sta dando tutto sé stesso in quell’attività. Eppure tutto sta producendo danni spesso irreversibili. Perché?

Perché le tecnologie rendono facile perdere di vista obiettivi e fini che – pur enunciati e ben presentati in programmazioni didattiche e progetti – vengono presto sepolti dagli effetti collaterali delle TIC – la necessità di far funzionare l’hardware ed il software, di realizzare un prodotto, di non perdere il lavoro fatto, di tenere tutto in ordine, di condividere elaborati, di rispettare regole … tutti aspetti che possono anche avere risvolti didattici, ma che spesso finiscono per giustificarsi in sé stessi piuttosto che per gli apprendimenti disciplinari – e non strumentali – che si realizzano. La risultante più subdola di questo processo è quella che – sempre richiamando l’opera di Stoll – porta la scuola ad identificare la familiarità col computer con l’intelligenza.

Il caso più tipico di questo fuorviamento è stato, ma lo è ancora, l’impresa di realizzazione di un ipertesto che, pienamente comprensibile come strumento e metodo per una didattica aggiornata, diviene strumento e obiettivo al tempo stesso dell’attività d’aula. L’attenzione – e quindi l’ambito di apprendimento – si trova inchiodata sugli aspetti progettuali dell’ipertesto, e ciò sarebbe perfettamente coerente con una programmazione didattica di Italiano – la struttura del testo – l’ipertesto e non con una programmazione di Storia, Scienze o Informatica.

È avvenuto quindi, e avviene ancora, che insegnanti di varie discipline si siano improvvisati esperti di Linguistica e abbiano speso un bel po’ delle proprie ore d’insegnamento per raggiungere obiettivi del collega di italiano, senza accorgersi che era un po’ come se si occupassero di insegnare a leggere, scrivere e analizzare la struttura del testo, temi assolutamente tipici del docente di Lettere che, per l’appunto, passa un bel po’ del suo tempo a far analizzare ai suoi allievi testi di varia tipologia sotto diversi aspetti: grammaticali e sintattici ma anche nelle più varie forme espressive: testi poetici, narrativi e poi ancora descrittivi, argomentativi con l’esercizio correlato della produzione scritta da parte dell’allievo, che oltre a conoscere gli aspetti teorici deve dimostrare, oralmente e per iscritto, di padroneggiare le forme del linguaggio appreso.

Nelle ore di Storia, Scienze ed Informatica si usa la lingua – scritta ed orale – ma ciò non vuol dire che si muta la disciplina: Storia è e sulla Storia si produce / valuta qualcosa che può avere forma orale (interrogazione) o scritta (ricerca). Il linguaggio in tal caso resta nel semplice ruolo di strumento – più o meno padroneggiato dall’allievo – e la valutazione attiene ai contenuti disciplinari. Invece sono ormai anni che avviene questa commistione didattica, per cui per fare l’ipertesto sull’"Alimentazione" nelle ore di Scienze si finisce per fare Italiano.

E già – direte – ma la colpa è di quei professori di Lettere che di computer e tecnologie non ne vogliono sapere, e quindi se non voglio essere bloccato dal fatto che i ragazzi non conoscono – e quindi non sono in grado di realizzare – l’ipertesto, devo arrangiarmi da me. Vero, però – quant’è vero che due più due fa quattro – va a finire che le trenta – quaranta ore dedicate all’ipertesto sull’"Alimentazione" portano all’acquisizione da parte degli allievi di molto meno di quanto avrebbero acquisito con i tradizionali strumenti didattici. È questo un danno per gli allievi? Per me sì.

Ma allora che si deve fare? Attendere che i curricoli di Lettere comprendano l’ipertesto nella formazione linguistica? Coi tempi che in Italia ha la Riforma scolastica campa cavallo! La risposta sta nel terzo caso, raro ma non assente caso che, se presente nella scuola in cui vi siete intrufolati, davvero vi dovrebbe portare ad iscrivere lì i vostri pargoli. E se non avete figli, ascoltatemi, correte a farne un paio!

Terzo caso: quando l’aula informatica diviene il luogo dell’apprendere, del piacere di apprendere. È un’alchimia strana, fatta di rigore e creatività, di fatica e soddisfazione, di gruppo e individualità. Sembrerebbero termini contraddittori, eppure se pensate alle maggiori soddisfazioni della vostra vita vedrete che spesso contemplano elementi apparentemente contraddittori.

La situazione che vi trovereste ad osservare – in questo fortunato caso – è quella di ragazzi ed insegnanti che in laboratorio si muovono – sì, proprio nel senso fisico – tra un computer e l’altro, con alcuni che discutono attorno ad una macchina, mentre altri sono chini sulla tastiera a digitare qualcosa e un compagno detta e segue sul video l’editing in corso, in un’altra postazione due discutono su qualcosa indicando col dito sul monitor. Nell’aula (sì, io questo non lo chiamo più "laboratorio", ma aula, che poi sia informatica o multimediale poco importa) vedreste una grande lavagna a muro, o tanti cartelloni appesi, con appunti, grafici, scritte cubitali. Potreste anche vedere un crocchio attorno alla stampante che attende impaziente di vedere uscire un foglio, da correre ad appiccicare su qualche cartellone in un posto preciso che loro conoscono benissimo, senza bisogno della guida del professore, professore che faticherete ad individuare nel mezzo degli allievi.

E guardando alla lavagna o ai cartelloni vedete l’"Alimentazione" nell’ora di Scienze, la "Prima guerra mondiale" nell’ora di Storia? e sui banchi, e sulla cattedra vedete il libro di testo bell’aperto sulla relativa unità didattica? Fate un piccolo confronto, leggete un po’ di quello che c’è sul libro e confrontatelo con quello che appare il lavoro dei ragazzi. Se trovate dei punti di contatto allora avete davvero trovato un luogo raro, quello dell’apprendere con piacere. Contate quanti sono passivi, quanti non partecipano, curiosate tra i computer, quelli col monitor nascosto, e provate a vedere se qualcuno gioca a solitario o naviga su internet a cercare l’ultimo kit per truccare il motorino. No niente di tutto questo. Forse qualcuno alla fine della lezione chiederà il permesso di dare un’occhiata al suo sito preferito, ma già il fatto di chiedere il permesso cambia del tutto la valenza di questa divagazione.

In quante scuole le nuove tecnologie sono solo un’inutile onere? e in quante fanno danno ? Non è facile dirlo, ma rischio delle percentuali. Nel 50% dei casi troverete laboratori usati in modo indifferente dalla didattica tradizionale. Un 30% (spero sia solo così) di situazioni in cui il laboratorio toglie qualcosa agli alunni, dando in cambio qualcos’altro di scarso valore rispetto all’apprendimento disciplinare perduto. Resta solo un 20% di casi in cui le tecnologie permettono vera innovazione didattica.

Direte che il 20% di scuole che usano in modo utile le tecnologie è già qualcosa, ma non dimenticate che eravamo partiti da un’altra tripartizione, tra chi i laboratori li tiene chiusi (20%), li riserva prevalentemente ad uso del personale e non degli allievi (50%), restano solo un 30% di scuole in cui i laboratori – divenuti a questo punto aule – sono regolarmente frequentati dalle classi. Ed allora, tirando le somme, possiamo pensare che solo il 20% di questo 30% rappresenta il raro caso di uso utile: fatti i debiti calcoli (risolto a mente il problemino, o serve un computer?) restano 6 scuole su 100. Come dicevo prima, dovete avere una certa fortuna per trovarla al primo colpo.

Qualcuno mi darà del pessimista, qualcun altro invece dirà che sono proprio ottimista. Hanno entrambi ragione: questa è democrazia. Ed io non intendo imporre le mie stime, ma solo renderle un elemento concreto che possa aiutarvi ad orientare in un campo complesso in cui neanche gli addetti ai lavori sono mai d’accordo. Non sto parlando delle tecnologie, ma di pedagogia e metodologia didattica. La scienza e le tecniche dell’apprendimento.


(*) Stefano Tommaso Donati modera un forum sulle TIC in Italia all'URL:
http://win.edscuola.eu/forums.asp?ForumId=6


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