Sintesi Rapporto CENSIS 1999
Considerazioni generali
(pp. IX-XXIV del volume)
La società italiana al 1999
(pp. 3-77 del volume)
UN PAESE CONTENITORE
UNA SOCIETA' MOLECOLARE
Processi formativi
(pp. 81-170 del volume)
La numerazione delle tabelle e delle tavole riproduce quella del testo a stampa
Dalle riforme alle politiche
La composizione del grande puzzle delle riforme ha subìto, nel corso del ’99, una straordinaria accelerazione, ma se si dovessero valutare gli effetti tangibili prodotti dal processo di riforma ci si troverebbe di fronte ad uno scenario decisamente meno brillante dove fattori congiunturali, resistenze fisiologiche e disfunzioni storiche stanno vincolando e limitando la portata delle innovazioni introdotte. Inoltre, sempre più evidente appare l’esigenza di collegare la nascita del nuovo sistema formativo a quel principio del long life learning, che rappresenta uno degli aspetti centrali dei nuovi scenari educativi e che implica un serio ripensamento del welfare dell’educazione. In quest’ottica, è possibile immaginare tre chiavi intepretative:
La prima attiene al rapporto tra processi di riforma e processi di cambiamento; nel seguire i lavori del vorticoso cantiere della formazione, si ha spesso la sensazione che tale rapporto venga dato per scontato come se i due processi fossero legati da deterministiche leggi di causa ed effetto. In realtà, tanto l’esperienza quanto il buon senso richiamano ad un maggior realismo poiché nell’ambito di un modello di sviluppo delle istituzioni educative come quello italiano, sostanzialmente centrato su una logica giuridico-formale attenta al rispetto delle procedure ma refrattaria a valutarne i risultati, tale automatismo non esiste.
Il secondo nodo con cui confrontarsi è legato all’esigenza di creare condizioni e sviluppare politiche affinché il capitale umano qualificato, in uscita dai diversi sistemi formativi, venga poi valorizzato dal sistema sociale e produttivo. Mentre nel Regno Unito, in Germania, ed in gran parte dei paesi europei la percentuale di giovani disoccupati tra i 25 ed i 29 anni con un titolo di studio universitario oscilla tra il 5% ed il 7%, in Italia raggiunge il 32%.
L’ultima questione aperta riguarda l’esigenza di agganciare l’ampliamento delle opportunità formative e la loro integrazione con le politiche attive del lavoro e con i processi di riforma del sistema di welfare, puntando su un forte allargamento del principio del diritto allo studio ed introducendo gradualmente anche in Italia, come nella maggior parte dei paesi europei, nuove forme di workfare.
L’esigenza di dar vita ad un vero e proprio welfare della formazione rappresenta ormai un’evidente priorità e non implica esercizi di ingegneria istituzionale quanto piuttosto politiche e programmi volti a sostenere gli investimenti formativi, culturali e tecnologici delle famiglie, soprattutto quelle numerose e più esposte al rischio di povertà.
Verso un welfare dell'educazione
La crescente complessità della società impone la necessità di apprendere ben oltre il periodo della scuola canonica sino a comprendere l’intero arco della vita; vi è il rischio però che una parte della popolazione resti tagliata fuori dai meccanismi di accesso al sapere per l’aggravio degli investimenti in formazione e per l’acquisizione di nuove tecnologie, ormai indispensabili per garantire l’esercizio dei diritti di cittadinanza.
Le spese per istruzione, formazione e cultura rappresentano la spesa più importante per il 23,2% delle famiglie italiane. Per il 32,5%, inoltre, tali spese sono destinate ad aumentare e, tra queste famiglie, il 55,1% è composto da almeno 4 componenti ed il 34,1% ha un reddito che non supera i 2,5 milioni mensili: vi è il rischio, dunque, che per circa 2 milioni esistano serie difficoltà ad affrontare l’impegno sempre più gravoso degli investimenti educativi e formativi 1.
La domanda di istruzione tende a consolidarsi anche per effetto della diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che hanno determinato una presa di coscienza collettiva sulla necessità dell’alfabetizzazione informatica e telematica, facendo così emergere, anche rispetto alle dotazioni di tecnologie, una vasta area di disagio crescente. Il 19,5% delle famiglie italiane prevede una crescita della spesa per le dotazioni tecnologiche; tra queste famiglie, il 52,8% è composto da almeno 4 persone, mentre circa 1/3 dispone di un reddito inferiore a 2,5 milioni mensili.
D’altronde, la diffusione dell’informatica nella penisola è ancora ad un livello insoddisfacente. La quota di computer per 100 abitanti è pari all’11,6%, inferiore a tutti i principali partner Ue e di poco superiore alla Spagna. Se si guarda al numero di utenti di Internet, che può essere considerato come un indicatore del livello di alfabetizzazione rispetto alle TIC, emerge una situazione ancora più negativa. L’Italia, con solo il 7,9% della popolazione che utilizza la rete, è in ritardo rispetto a tutti i principali paesi Ue, compresa la Spagna.
Occorre perciò individuare strategie per la promozione delle opportunità e del potenziale sviluppo dei cittadini puntando all’allargamento della prospettiva di intervento di welfare, nel quale diviene strategico l’investimento nelle capacità individuali e l’obiettivo della formazione per tutti e per tutta la vita.
Va sostenuto e rafforzato in primo luogo il sistema del diritto allo studio. I dati Ocse evidenziano l’esiguità dei sussidi diretti alle famiglie e degli aiuti agli studenti (0,15% del Pil, nel 1995, contro lo 0,31% del Regno Unito, lo 0,22% della Germania, l’1,20% della Svezia).
Occorre, in secondo luogo, avviare un’azione efficace di promozione della dotazione di strumentazioni tecnologiche e promuovere misure volte a sostenere l’alfabetizzazione informatica, telematica e multimediale.
Anche i nuovi scenari di integrazione tra formazione e politiche attive del lavoro necessitano di interventi di welfare:
- nella costruzione di un sistema di diritto allo studio per i 15-18enni inseriti nei percorsi dell'apprendistato e della formazione professionale. L’elevamento dell’obbligo formativo a 18 anni, che interesserà circa 600mila studenti nel 2000 e oltre 1,7 milioni nel 2002 quando la riforma andrà a regime, impone una revisione ed una estensione degli strumenti a supporto e sostegno delle scelte formative;
- nella costruzione anche in Italia di un sistema evoluto di workfare (il reddito minimo di inserimento legato alla formazione) che esiste in tutti i grandi paesi dell’Ue (Francia, Germania e Regno Unito) che consenta di legare le diverse forme possibili di sussidio allo sviluppo qualitativo della domanda formativa e all’incremento dell'offerta di capitale umano qualificato. Ciò permetterebbe di rendere competitivi e più efficienti i nuovi servizi per l’impiego, come avviene in Francia con le Missions locales o in Germania con gli uffici di collocamento. In questi paesi si investe sui centri che offrono un servizio integrato moderno e personalizzato (informazione, consulenza, bilancio delle competenze, formazione individualizzata, tirocinio di inserimento e sostegno all'occupazione) poiché le risorse impiegate nei centri, migliorando le possibilità di inserimento dei disoccupati, si sostanziano in un risparmio di spesa per i redditi di inserimento.
I processi di emersione della scuola dell'autonomia
Il primo anno di sperimentazione dell’autonomia scolastica si è concluso con il successo, in termini di adesioni, che ha visto la partecipazione spontanea di circa 10.000 istituti, pari all’88% del totale delle scuole italiane.
Le iniziative sperimentali più diffuse sono state quelle finalizzate all’innalzamento del successo scolastico e all’introduzione di insegnamenti integrativi facoltativi. Più della metà dei progetti di sperimentazione ha, inoltre, previsto la costituzione di reti di scuole o altri soggetti per la realizzazione di progetti formativi integrati.
Emerge il sommerso della scuola: l’autonomia è stata vista come occasione di riconoscimento e autoriflessione rispetto alle esperienze pregresse di sperimentazione ed innovazione, che necessitano però di essere maggiormente collocate in un quadro di riferimento organico ed unitario per evitare il rischio di una sorta di "adattamento" dell’esistente ai nuovi scenari, ostacolando nei fatti la trasformazione profonda del modo di "fare scuola".
Nei progetti sperimentali di maggiore complessità, il secondo ambito più diffuso di sperimentazione (66%) è stato quello relativo alla costituzione di reti tra scuole o soggetti attivi sul territorio.
Si tratta, però, di reti a legami deboli, soprattutto sul versante interno al mondo della scuola: risultano, infatti, più diffuse le reti tra scuole e territorio che non quelle tra le scuole stesse, a sottolineare il rischio di un mancato superamento della logica di autoreferenzialità, dal punto di vista del coordinamento e della cooperazione tra istituti, che potrebbe indebolire la forza propositiva ed innovativa della scuola dell’autonomia.
E’, inoltre, necessario un ampliamento della partecipazione attiva di tutte le componenti scolastiche e l’assunzione di una responsabilità forte da parte di tutti i soggetti coinvolti.
L’elaborazione dei progetti di sperimentazione dell’autonomia, ad esempio, appare nei fatti riservata a piccoli gruppi di docenti, che possono anche trovarsi ad operare in uno splendido isolamento rispetto alla grande massa del corpo docente. Ancora più marcata è l’assenza degli studenti e delle famiglie nei processi decisionali. L’indicazione di un 34% di progetti complessi che hanno previsto il coinvolgimento di studenti e famiglie, già di per sé insufficiente a soddisfare uno dei principi cardine dell’autonomia, si traduce nella maggior parte delle esperienze in momenti informativi o nella partecipazione ad attività marginali.
In particolare, gli studenti delle scuole secondarie superiori non sono stati affatto coinvolti nella fase di progettazione e rari sono i casi in cui sono stati elaborati contratti formativi precisi o si registra una partecipazione degli studenti all’individuazione delle priorità e alla definizione di piani di miglioramento dell’organizzazione curricolare e didattica della scuola. Al di là dei principi dichiarati, l’esercizio concreto dei diritti e delle responsabilità così come individuati nello Statuto delle studentesse e degli studenti, appare ancora lontano da una sua piena realizzazione.
La nuova responsabilità della valutazione istituzionale
Con l’istituzione del Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione la funzione della valutazione trova finalmente un assetto istituzionale compiuto. Si tratta, peraltro, di istituti che nascono per evoluzione di organismi precedenti, anche se, sia sul versante delle competenze che su quello delle responsabilità, sussiste una netta differenziazione rispetto al passato.
Per l’Università, l’aspetto per certi versi più innovativo riguarda il rapporto tra valutazione ed allocazione delle risorse. La norma introduce un fondo per l’incentivazione che, congiuntamente alla quota di riequilibrio, viene assegnato sulla base del raggiungimento degli obiettivi e dei risultati della valutazione. Inoltre, tra gli strumenti della valutazione compare il parametro innovativo della soddisfazione degli studenti, connesso alla valutazione complessiva della qualità della didattica e dei servizi.
L’Istituto Nazionale per la valutazione del sistema di istruzione ripropone nell’architettura, gran parte delle competenze, delle azioni e degli obiettivi definiti in ambito universitario, sottolineando l’acquisita maturità che caratterizza la nuova funzione istituzionale della valutazione. Anche per la scuola, come per l’università, il grado di soddisfazione dell’utente rappresenterà un parametro di verifica obbligatorio. Inoltre, la qualità del servizio scolastico (dalla mensa alle attività integrative), dell’ambiente educativo, del contesto sociale di riferimento e delle caratteristiche del processo organizzativo e didattico divengono ambiti specifici di valutazione necessari, appunto, a fornire parametri e criteri di classificazione, sia dei contesti territoriali, sia delle singole unità scolastiche, producendo preziose indicazioni per l’autodiagnosi delle scuole.
La valutazione riveste un ruolo fondamentale per riequilibrare e finalizzare in misura maggiore gli investimenti pubblici. Nell’università, ad esempio, è possibile registrare costi medi per studente notevolmente diversi, tra facoltà e facoltà e tra una sede universitaria e l’altra. Uno studente di medicina può arrivare a costare da cinque a sette volte di più di uno studente di Giurisprudenza, mentre in altri Paesi Europei l’intervallo di variazione è notevolmente più contenuto.
Il Fondo Sociale Europeo al tavolo del determinismo e delle virtuosità obbligate
L’attuale fase di programmazione della prossima stagione del Fondo Sociale Europeo (Fse) si inserisce in un contesto, nazionale ed europeo, che ha visto la progressiva convergenza ed integrazione delle politiche in materia di formazione e lavoro. Un approccio che, sostenuto nel nostro Paese da una vivace ed intensa attività di programmazione e di riforma, nasce dalla consapevolezza di dover potenziare, innovare ed utilizzare sinergicamente tutti gli strumenti di politica attiva del lavoro (nell’ambito della quale alla formazione è riconosciuto un ruolo decisivo), al fine di contrastare efficacemente il fenomeno della disoccupazione.
In Economic Outlook 1999, l’Ocse mette in guardia sul costo del rinvio delle riforme strutturali puntando in particolare l’indice sulle profonde disparità tra gruppi sociali. Se per gli uomini adulti le prospettive di occupazione sono praticamente le stesse in tutti i Paesi, alcuni gruppi al margine del mercato del lavoro assorbono la maggior parte del peso della disoccupazione, dell’inattività e della precarietà.
Sulla stessa lunghezza d’onda delle Raccomandazioni dell’Ocse si colloca la strategia europea sull’occupazione, a partire dai 4 pilastri del Processo di Lussemburgo (occupabilità, imprenditorialità, adattabilità della forza lavoro, pari opportunità), necessari a rafforzare e innovare le politiche attive del lavoro, con particolare riguardo alla valorizzazione del capitale umano disponibile.
A questo proposito, i nuovi obiettivi da perseguire tramite i Fondi Strutturali europei fanno esplicito riferimento a tali questioni. A differenza di quanto previsto nel passato ciclo 1994/99, con accenti cioè più significativi sulla qualificazione in sé delle risorse umane, la strategia del nuovo Fse vede moltiplicare il proprio impegno sul terreno più ampio delle politiche attive del lavoro con particolare riguardo al concetto dell’occupabilità derivante da interventi di formazione e riqualificazione
Relativamente all’impatto prodotto dal Fse 1994/99, in termini di promozione e sostegno all’occupabilità di individui interessati da attività di formazione, la tabella 11 (relativa agli esiti delle attività formative attivate dalle regioni del centro-nord con il contributo del Fse) illustra quanto significativamente possano incidere interventi formativi sul destino occupazionale di coloro che li hanno frequentati. In particolare, sono soprattutto le donne a beneficiare in misura assai positiva del valore aggiunto derivante dalla formazione frequentata.
La prossima stagione di intervento del Fse (2000-2006) costituirà per il nostro Paese una sorta di prova d’appello per impegnare al meglio le risorse da cofinanziamento, soprattutto sotto il profilo qualitativo della "resa del prodotto formativo", in termini sia di vantaggio competitivo sul mercato del lavoro per le utenze che ne verranno interessate, che di accresciuta disponibilità di risorse umane qualificate per una domanda di lavoro sempre più articolata e complessa.
Si tratta di un’ingente quantità di risorse comunitarie disponibili per l’Italia nei prossimi sette anni, pari a circa 15.000 miliardi di lire (che diventa pari a 27.000 miliardi di lire, includendo la quota di finanziamento pubblico e privato e le risorse comunitarie e nazionali per il nuovo P.I.C. Equal, la cui entità assomma a 718 miliardi di lire).
La mappa provinciale della domanda di capitale umano qualificato
I dati di previsione del sistema informativo Excelsior indicano un certo dinamismo della domanda di lavoro dipendente: le assunzioni previste per il biennio 1999/2000 nelle imprese manifatturiere e di servizi con più di un dipendente superano le 818.000 unità; inoltre, sebbene la richiesta di figure professionali con laurea o diploma universitario sia stabile intorno al 6% (50.000 unità) si assiste ad una sensibile qualificazione della domanda di lavoro.
Infatti:
- cresce la domanda di personale con diploma di istruzione secondaria superiore, che interessa 230.000 nuove assunzioni pari al 28,2% del totale;
- si riduce la quota di assunzioni riservata ai lavoratori non qualificati (con il solo titolo dell'obbligo) che raggiunge quota 44% del totale, con una riduzione del 7% rispetto alla precedente rilevazione;
- cresce infine in modo sensibile la domanda di personale con qualifica professionale, che rappresenta il 21,3% delle assunzioni previste.
L'assenza di integrazione tra percorsi formativi e sistema produttivo viene messa in evidenza dagli imprenditori che segnalano forti difficoltà sia nel reperimento che nella utilizzazione delle risorse umane: il 34,6% delle assunzioni riguarda figure difficili da reperire; il 39% delle assunzioni richiederà invece ulteriori interventi formativi in particolare per i laureati (55%) ed i diplomati (45%).
A fianco delle politiche di innovazione dell'offerta formativa è però essenziale garantire un intervento di sostegno alla domanda di capitale umano qualificato ed agli investimenti in formazione ed innovazione, soprattutto da parte delle Pmi ed in particolare nel comparto del terziario avanzato. I nuovi servizi per l'impiego chiamati a sostituire i vecchi uffici di collocamento dovrebbero svolgere proprio questa funzione di connessione, incentivando, accompagnando e sostenendo il processo di qualificazione sia della domanda che dell'offerta di lavoro in ambito locale.
Se si considera la dimensione provinciale della domanda di lavoro dipendente, emerge una realtà fortemente segnata da profondi squilibri, dove i contesti di maggiore vitalità si contraddistinguono per una domanda complessivamente povera e generica. Provincie come Potenza, Benevento e Lecce, in cui il saldo è significativamente superiore alla media nazionale, manifestano una bassissima capacità di assorbimento del capitale umano qualificato tanto che le richieste per laureati e diplomati non superano mai il 20% del totale delle assunzioni previste. Al contrario, Milano, Torino e Roma, che si confermano come i poli di maggiore impiego di risorse umane scolarizzate, manifestano tassi di crescita dell'occupazione dipendente sensibilmente al di sotto della media nazionale.
Tra l'altro, anche in numerose province settentrionali e centrali, si rileva una scarsissima qualificazione della domanda di lavoro. Sondrio e Biella, ad esempio, si caratterizzano per una quota di assunzioni per figure generiche con la sola licenza dell'obbligo molto maggiore (10%) di quella media nazionale ed una analoga tendenza si rileva in altri poli industriali.
Università: meno studenti più laureati
Negli ultimi anni, il tasso di passaggio all’università è costantemente diminuito, per attestarsi nel 1997-1998 sul 65,7% del totale dei diplomati, evidenziando la perdita di appeal degli studi accademici.
Diminuiscono sia gli iscritti in complesso che gli iscritti al primo anno (rispettivamente –0,8% e –5,4% tra il 1997/98 ed il 1998/99), mentre aumenta la quota dei fuori corso, pari al 38,6% del totale degli studenti.
Aumenta invece la produzione universitaria: nel 1998, si registrano 129.169 laureati e 10.959 diplomati universitari (erano, rispettivamente, 121.734 e 10.202 l’anno precedente).
Il calo della popolazione universitaria viene sottolineato anche dalla dispersione elevata che caratterizza questo livello d’istruzione, non solo per quanto riguarda il fenomeno dei ritardi che amplia costantemente il numero di fuori corso, ma anche in relazione agli abbandoni; in particolare, la quota di immatricolati nel 1995/96 che non si sono reiscritti l’anno successivo risulta pari al 25% del totale delle immatricolazioni, con punte fino al 33,3% per il gruppo scientifico e 30,7% per il gruppo politico sociale.
Tra i laureati nel 1995, a tre anni di distanza, è alla ricerca di un lavoro il 38,6% dei laureati del gruppo giuridico ed il 36,1% dei laureati del gruppo geo-biologico. Le migliori possibilità occupazionali sembrano essere quelle dei laureati in ingegneria, con il 90,8% di persone che hanno dichiarato di avere un’occupazione al momento della rilevazione, nell’85,1% dei casi trovata dopo il conseguimento del titolo.
Complessivamente positivi sembrano essere i risultati occupazionali dei corsi di diploma universitario. In particolare, tra i diplomati nel 1996 dopo tre anni, l’82,7% svolge una attività lavorativa, anche se in realtà solo il 58,4% di essi ha trovato un lavoro di tipo continuativo dopo il conseguimento del titolo. I diplomi maggiormente spendibili appaiono essere quelli del gruppo ingegneria ed architettura (92,2% di occupati); la maggior parte dei restanti diplomi si attesta su valori superiori all’82%, tranne i casi del gruppo educazione fisica (78,7% di occupati), del gruppo giuridico (70%) ed, in particolare, del gruppo linguistico, con solo il 34,5% di occupati.
Lavoro, professionalità,
rappresentanze
(pp.
171-238 del volume)
Il sistema di welfare
(pp. 239-346 del volume)
Territorio e reti
(pp. 347-448 del volume)
I soggetti economici dello sviluppo
(pp. 451-515 del volume)
Governo pubblico
(pp. 519-584 del volume)
Comunicazione e cultura
(pp. 585-635 del volume)
Indice delle Tabelle, Tavole e
Figure
(p. 629
del volume)
1999© CENSIS